Il Recovery Fund: dettagli e prospettive per la UE e gli Stati membri

Alessandra Cataldi, Mattia De Crescenzo e Bianca Giannini descrivono gli esiti principali del negoziato sul Recovery Fund, mostrando che l’accordo raggiunto ha una rilevanza economica e soprattutto politica. Gli autori rilevano, però, che l’efficace utilizzo delle risorse mobilitate dipenderà in modo cruciale da due fattori, uno europeo, relativo alla necessità di non imporre ai paesi membri vincoli eccessivi sull’utilizzo delle risorse, e uno nazionale, relativo alla capacità di proporre un Piano per la ripresa e la resilienza che sia ambizioso ma realizzabile.

L’ultima volta che abbiamo scritto su queste pagine eravamo in attesa della proposta della Commissione europea sul Recovery Instrument: quello strumento che potesse dotare gli Stati membri delle risorse necessarie per una rapida ripresa economica dopo la pandemia. Tale proposta, dalla portata storica, è arrivata il 27 maggio: un pacchetto da €750 miliardi dal nome Next Generation EU che si inserisce nella proposta sul Quadro finanziario pluriennale (il bilancio europeo) 2021-2027 da circa €1100 miliardi.

Le risorse di Next Generation EU saranno reperite sui mercati tramite indebitamento della Commissione garantito dal bilancio europeo e investite su tre pilastri, attraverso 500 miliardi di trasferimenti a fondo perduto e 250 miliardi di prestiti agli Stati membri. Secondo la proposta originaria della Commissione, i 750 miliardi complessivi sarebbero rimborsati a partire dal 2028, con la quota di trasferimenti a fondo perduto ripagata ai prestatori mediante le risorse del futuro bilancio UE.

Di questi tre pilastri – uno dedicato alla ripresa delle economie nazionali, il secondo alla stabilità delle imprese e il terzo a rafforzare il coordinamento europeo della sanità – il primo è sicuramente quello più interessante e importante a livello di risorse. Riguarda, infatti, il supporto agli Stati membri per velocizzare la ripresa economica, con un occhio alla costruzione di un modello economico più resiliente a futuri shock. Di questo pilastro fa parte la nuova European Recovery and Resilience Facility (ERRF) – il Recovery Fund del gergo giornalistico – con una proposta iniziale di dotazione pari a €560 miliardi di cui €310 miliardi di contributi a fondo perduto e €250 miliardi di prestiti. Tale strumento ha l’obiettivo generale di fornire aiuto finanziario a misure di policy (mix di riforme e investimenti pubblici) legate, fra le altre cose, alla coesione economica, sociale e territoriale, alle transizioni ecologiche e digitali, alla salute, alla ricerca e all’innovazione, alla crescita sostenibile e inclusiva. I fondi saranno elargiti solo dopo la stesura, l’approvazione – che secondo la prima proposta doveva essere affidata alla Commissione – e l’attuazione di “Piani nazionali di ripresa e resilienza” redatti dagli Stati membri in linea con le priorità di riforma e investimento definite nel Semestre europeo (in primis le Raccomandazioni-Paese della Commissione) e con il più generale obiettivo di una transizione verde e digitale. Secondo la proposta originaria della Commissione, almeno il 60% dei trasferimenti a fondo perduto doveva essere impegnato entro la fine del 2022 e il restante 40% entro il 2024. I prestiti sarebbero stati disponibili entro il 2024.

Tale impalcatura è stata modificata in più punti dal complesso negoziato tra i capi di Stato e di Governo dei 27 Stati membri durante il Consiglio europeo che si è tenuto dal 17 al 21luglio.

Dopo una riunione fiume di oltre quattro giorni, infatti, la notte del 21 luglio il Consiglio europeo ha trovato un accordo complessivo sulla proposta relativa al pacchetto di misure di Next Generation EU. Il raggiungimento di un compromesso finale che componesse le diverse posizioni dei Paesi per raggiungere l’unanimità non era scontato, date le divergenze esistenti.

I punti maggiormente controversi riguardavano tre aspetti: i) la ripartizione delle risorse della Recovery and Resilience Facility (con Paesi Bassi, Austria, Danimarca e Svezia, i cosiddetti Paesi “frugali”, che insistevano per concedere prestiti piuttosto che trasferimenti a fondo perduto); ii) le regole sulla erogazione delle risorse da parte della Commissione (con i Paesi Bassi che insistevano per coinvolgere il Consiglio dell’Unione europea, con un voto all’unanimità vincolante sull’approvazione dei “Piani per la ripresa”); iii) la tempistica di impiego delle risorse.

Riguardo alla ripartizione delle risorse della Recovery Facility, l’accordo finale fissa a 312,5 miliardi i trasferimenti a fondo perduto e a 360 miliardi la quota di prestiti. Il volume massimo dei prestiti per ciascuno Stato membro non potrà superare il 6,8% del Reddito nazionale lordo, mentre la distribuzione delle risorse a fondo perduto avverrà secondo la chiave allocativa descritta di seguito.

Le risorse saranno erogate sulla base di un “Piano per la ripresa” sottoposto dallo Stato interessato alla valutazione della Commissione e solo al raggiungimento di determinati obiettivi intermedi e finali. Nella proposta iniziale, la Commissione prevedeva di essere affiancata da un comitato tecnico nella valutazione del Piano e del grado di perseguimento degli obiettivi da parte del Paese. Tale comitato tecnico, costituito ad hoc e composto dai rappresentanti di tutti gli Stati membri, avrebbe fornito un parere vincolante votando a maggioranza qualificata (almeno 55% dei membri, con un minimo di quindici, rappresentativi almeno del 65% della popolazione europea), secondo le norme della cosiddetta “comitatologia”.

Nell’accordo raggiunto al Consiglio europeo di luglio è stato deciso che la valutazione della Commissione dei “Piani per la ripresa” deve essere approvata a maggioranza qualificata dal Consiglio dell’Unione europea, istituzione che rappresenta i Governi degli Stati membri, essendo la sede in cui i ministri provenienti da ciascun Paese della UE si riuniscono. La valutazione sul soddisfacente conseguimento degli obiettivi intermedi e finali sarà, invece, sostanzialmente in capo alla Commissione, che deve, però, consultare il Comitato economico finanziario dell’Ecofin (comitato consultivo, istituito per promuovere il coordinamento delle politiche degli Stati membri). In casi eccezionali, se uno Stato membro ritiene che non vi sia un conseguimento soddisfacente degli obiettivi intermedi e finali, può chiedere che la questione venga discussa dal Consiglio europeo dei capi di Stato e di Governo (il cosiddetto freno di emergenza). In tal caso, prima di adottare una decisione finale, la Commissione dovrà attendere la relativa discussione (non vincolante) del Consiglio europeo.

Relativamente alla tempistica di impiego delle risorse, il Consiglio europeo ha concordato una anticipazione nell’impegno dei trasferimenti a fondo perduto, stabilendo che il 70% dei trasferimenti sia impegnato negli anni 2021 e 2022 e il restante 30% entro la fine del 2023, mentre, nella proposta iniziale, la Commissione aveva previsto un impegno entro il 2024.

Infine, il nuovo accordo prevede che i Piani per la ripresa potranno includere anche misure già in corso di attuazione dal febbraio 2020 in poi, purché in linea con gli obiettivi di ripresa economica. Inoltre, è stata introdotta la possibilità che nel 2021 i Paesi ricevano una quota di prefinanziamento, pari al 10% della Resilience Facility.

Oltre i tre aspetti summenzionati, uno dei punti più interessanti del negoziato è stato quello relativo ai criteri di ripartizione delle risorse a fondo perduto. Nel testo originale, la Commissione proponeva una chiave allocativa (allocation key) che privilegiava i Paesi che presentassero, al momento della richiesta, una popolazione più numerosa, un livello di benessere meno elevato in termini di PIL pro capite e una disoccupazione più alta.

La formula dell’allocation key originaria si basava, dunque, sul prodotto di tre fattori (valutati rispetto a quello che accade, complessivamente, negli altri Stati membri): il rapporto fra la popolazione del Paese e quella della UE nel 2019, l’inverso del rapporto tra PIL pro capite e media UE nel 2019 e il rapporto fra il tasso medio di disoccupazione e la media UE nel 2015-2019. Se, da un lato, è facilmente deducibile che, grazie a tale chiave allocativa, Paesi più grandi e popolosi (come l’Italia) o che hanno un PIL pro-capite inferiore alla media UE beneficiano di una quota più elevata di grants, dall’altro, la componente legata alla disoccupazione non favorisce direttamente i Paesi con maggiori criticità nel mercato del lavoro. Infatti, tale componente, basandosi su un dato medio su un arco temporale più ampio, favorisce anche i Paesi che hanno registrato maggiore volatilità della disoccupazione a seguito della crisi del 2009, ma che si sono attestati su livelli di disoccupazione più bassi in tempi recenti. Un altro caveat importante è che nella formula sono applicati ai parametri dell’allocation key dei “tetti” (ceiling) che mirano ad evitare la concentrazione delle risorse nelle mani di pochi Stati e ciò vale in relazione sia alla componente legata alla disoccupazione, penalizzando i Paesi con un elevato tasso di disoccupazione, sia a quella legata al PIL pro-capite, limitando il vantaggio dei Paesi che godono di minor benessere economico.

In generale, con questo strumento e questi criteri di ripartizione, la Commissione ha tenuto conto degli aspetti redistributivi e della necessità di aiutare i Paesi maggiormente colpiti dall’emergenza Covid-19. Tuttavia, un difetto legato alla presenza di indicatori esclusivamente backward looking (ovvero basati su valori passati) è l’assenza di una valutazione dell’impatto del Covid-19 sulle economie nazionali. Al riguardo, nel dibattito accademico sul tema, non sono mancati esercizi teorici per ideare una componente forward looking. La proposta finale che ha ricevuto l’approvazione di tutti i 27 Paesi colma questa lacuna e si basa sul cosiddetto “metodo 30-70”, che prevede che il 70% dei grants sia ripartito con i criteri proposti dalla Commissione e che il restante 30% sia basato su una diversa allocation key che rispecchi l’impatto del Covid-19. Considerando che l’indicatore che maggiormente sintetizza l’impatto della pandemia è senza dubbio l’andamento del PIL, la nuova allocation key prevede la sostituzione della componente relativa alla disoccupazione con una componente basata, in pari proporzioni, sulla variazione del PIL reale tra il 2019 e il 2020 e su quella cumulata nel periodo 2020-2021. Visto che il dato per calcolare quest’ultima componente sarà disponibile solo nel 2022, la quota del 30% sarà utilizzabile solo a partire dal 2023.

In conclusione, possiamo affermare che la Recovery Facility ha una portata storica, non solo per la sua valenza economica, ma e soprattutto per il significato politico. L’effettivo vantaggio economico per i singoli Paesi andrà valutato considerando che la quota di prestiti sarà concessa a tassi favorevoli, ma andrà rimborsata, mentre la quota di trasferimenti a fondo perduto andrà valutata al netto dei contributi che i singoli Stati versano al bilancio della UE. Finora l’Italia è stata un contributore netto al bilancio europeo, dato che le risorse versate superavano quelle ricevute. Ora tale situazione potrebbe modificarsi, a seconda di quanto sarà l’ammontare dei trasferimenti a fondo perduto che il nostro Paese richiederà ed otterrà. Inoltre, bisognerà chiarire come la componente di prestiti impatterà sul debito pubblico italiano e come sarà valutata all’interno del Patto di stabilità e crescita, una volta che la flessibilità nelle regole del Patto, garantita durante questa crisi dall’attivazione dalla General Escape Clause, dovesse essere interrotta.

A livello politico, con queste iniziative l’Unione fa un passo avanti verso il coordinamento delle politiche fiscali, dimostrando di poter mettere in piedi strumenti di debito comune per far fronte agli shock esogeni. La discussione sull’allocazione delle risorse a fondo perduto ha consentito di difendere le economie più in difficoltà cercando di tenere in considerazione, per quanto possibile, i gravi effetti di una crisi che ha determinato una caduta del PIL senza precedenti.

Tuttavia, il processo non è concluso. L’efficace utilizzo delle risorse dipenderà in modo cruciale da due fattori, uno europeo e uno nazionale. A livello nazionale, bisognerà essere in grado di proporre un Piano per la ripresa e la resilienza ambizioso e realizzabile. A livello europeo, sarà necessario difendere gli obiettivi dello strumento senza imporre vincoli eccessivi sull’utilizzo delle risorse e rispettando la titolarità nazionale nella scelta delle riforme e degli investimenti più coerenti con gli obiettivi di ripresa economica, al fine di perseguire un modello di crescita sostenibile da un punto di vista sociale e ambientale.

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