Il referendum svizzero sul Reddito di Base Incondizionato: l’iter, i risultati e i problemi aperti

Marco Valerio Del Buono e Tommaso Gianni ricostruiscono le vicende del referendum sul Reddito di Base Incondizionato svoltosi in Svizzera il 5 giugno scorso, che ha avuto come esito la bocciatura della proposta. Del Buono e Gianni ricordano i contenuti e l’iter della proposta, sintetizzano il dibattito che ha preceduto il referendum, analizzano le argomentazioni favorevoli e contrarie e sostengono che il dibattito sul Reddito di Base è destinato a continuare nel prossimo futuro.

Il 5 giugno 2016 i cittadini svizzeri si sono espressi sull’opportunità di introdurre un Reddito di Base Incondizionato (RBI) su scala nazionale, così da dare concreta attuazione al diritto ad avere un’esistenza dignitosa e a partecipare alla vita pubblica.

L’iniziativa popolare prevedeva la modifica della Costituzione federale del 1999 mediante l’inserimento dell’art. 110a strutturato in tre commi:

  1. La Confederazione provvede all’istituzione di un reddito di base incondizionato.
  2. Il reddito di base deve consentire a tutta la popolazione di condurre un’esistenza dignitosa e di partecipare alla vita pubblica.
  3. La legge disciplina in particolare il finanziamento e l’importo del reddito di base.

Nonostante il risultato sia stato una netta sconfitta del SÌ, che non è andato oltre il 23,1% dei votanti, la discussione sul reddito incondizionato e sulla necessità di porre questo tema al centro di una evoluta agenda politica non si è arrestata, anzi ne è uscita rafforzata. Sembra quindi importante indagare sulle ragioni che hanno spinto il Comitato d’iniziativa a portare avanti una proposta che i sondaggi hanno sempre dato perdente, nonché analizzare quale sia il valore di questa esperienza.

A tal fine è utile una breve ricostruzione dell’iter che ha condotto al referendum. Nel marzo 2012 veniva lanciata l’iniziativa popolare per un RBI. Sebbene i promotori non avessero esplicitato formalmente le modalità di finanziamento e neanche l’entità di tale misura, il sito web della campagna svelava l’intenzione di fissarne l’ammontare mensile a 2.500 franchi svizzeri per gli adulti e a 625 franchi svizzeri per i minorenni. Ad ottobre 2013 erano già oltre 126 mila le firme raccolte, più del necessario per obbligare il governo nazionale a programmare un referendum entro tre anni. Tutto facile quindi? Tutt’altro. L’ordinamento elvetico prevede, infatti, la possibilità per il governo nazionale di negoziare una contro-proposta con i promotori. Nell’agosto 2014 si apre quindi una fase di “revisione istituzionale” durata sino al dicembre 2015 che ha fatto registrare una serie di votazioni e raccomandazioni – tutte contrarie all’introduzione del RBI – da parte dei maggiori organi federali, espressione dell’ostilità della quasi totalità dei partiti nazionali che, ad eccezione del green party e del pirate party, incitavano al NO.

I quattro anni che hanno preceduto il voto del 5 giugno 2016 non sono stati, tuttavia, caratterizzati soltanto da un’ampia opposizione alla proposta referendaria. La piccola Confederazione elvetica è stata soprattutto il palcoscenico di una riuscita campagna mediatica, che ha visto i sostenitori del SÌ inondare l’esterno del Federal Palace a Berna di 8 milioni di monete (una per ogni cittadino svizzero), danzare travestiti da robot a Davos durante il World Economy Forum e srotolare a Times Square il più grande striscione mai realizzato.

Anche grazie alla sua creatività, la campagna per il SÌ è riuscita ad andare ben oltre i confini svizzeri, divenendo un appuntamento globale. Lo dimostra l’attenzione riservata al referendum da tutti i maggiori media internazionali (The Independent, The Wall Street Journal, The Guardian, Bloomberg, CCN Money, Channel NewsAsia, Nikkei, News Sina, ecc.). Lo dimostrano ancor più gli ampi spazi di dibattito pubblico sul reddito di base che si sono aperti e che hanno visto la partecipazione di una lista interminabile di esperti mondiali, come Robert Reich (Segretario del Lavoro del Governo statunitense durante la presidenza Clinton), Yi Xiang Rong (professore di economia all’università di Qingdao), Philippe Van Parijs (fondatore del BIEN, Basic Income Earth Network), Guy Standing (professore di Development Studies alla School of Oriental and African Studies e presidente onorario del BIEN).

Presupposto da cui muove la campagna del SÌ è che il lavoro salariato versa in una crisi profonda, che diverrà ancor più grave con l’avvento della c.d. rivoluzione 4.0 e dall’automatizzazione dei processi di produzione. In un quadro così delineato, il RBI si pone come una misura di tutela della stabilità finanziaria degli individui: chi non guadagna nulla si vede assegnare interamente i 2500 franchi svizzeri; chi guadagna meno di 2500 franchi svizzeri vede aumentare il proprio reddito sino a quella soglia; per chi guadagna più di 2500 franchi svizzeri, il RBI sostituisce parte dei redditi da lavoro, modificando la composizione del reddito totale, ma non il suo ammontare. Nella sostanza il RBI delineato dai promotori è un trasferimento diretto a tutti i cittadini, ma solo per i più poveri ha un effetto reale di aumento del reddito. Il risultato è quindi un sostegno maggiore per le fasce più deboli della popolazione, una perequazione tra salari bassi ed alti e, dunque, una riduzione delle diseguaglianze.

Inoltre tale schema, a parere dei promotori, permetterebbe agli individui di scegliere il lavoro per cui sono più portati, o semplicemente il lavoro che vogliono, da cui la domanda divenuta slogan: “What would you do if your income were taken care of ?”. In tale prospettiva il RBI non rappresenta il mezzo per smettere di lavorare, bensì per permettere ai cittadini di dare il loro contributo alla società sotto forma di lavoro retribuito ma anche tramite forme di “lavoro invisibile”, quali il lavoro domestico ed assistenziale. Con l’introduzione del RBI, asseriscono i fautori del SÌ, non verrebbero meno neanche le motivazioni che spingono gli individui a fare del lavoro la loro principale fonte di reddito e di gratificazione personale, ma anzi ne sarebbero rafforzate in quanto tale misura garantirebbe ai beneficiari la possibilità di ricercare e contrattare migliori condizioni lavorative.

Ed allora come mai nessuno dei 26 cantoni del Paese ha approvato il testo?

Anzitutto, l’iniziativa non è partita dal basso. Non sono stati i movimenti sociali, ossia quei gruppi che hanno legami profondi con la società, ad esserne promotori, bensì un coordinamento sconnesso dal tessuto sociale. Questo probabilmente non ha aiutato a far sì che gli svizzeri sentissero come propria la proposta.

Sono però due gli argomenti contro il RBI che, secondo le indagini demoscopiche, hanno principalmente fatto breccia tra gli elettori: le tesi dell’insostenibilità finanziaria della proposta e della disincentivazione al lavoro.

Il diffuso scetticismo verso la possibilità che un sistema di trasferimenti così esteso sia finanziariamente sostenibile ed un quesito che non specifica le modalità di finanziamento, e che anzi delega al legislatore il compito di definirle, hanno generato nei cittadini svizzeri il timore di un ragguardevole aumento delle tasse.

Quanto agli effetti sul mercato del lavoro, i sostenitori del NO ritengono che il RBI, spezzando il legame impiego-reddito, possa spingere a smettere di lavorare o comunque a non accettare posizioni lavorative poco retribuite, da cui l’inevitabile collasso dell’attività economica. Allertano, altresì, che una tale forma di “finanziamento dell’ozio” determinerebbe uno scenario di ingiustizia sociale, in quanto l’impostazione redistributiva ed il finanziamento del RBI tramite prelievi fiscali progressivi sui salari sottrarrebbe ai soggetti occupati una parte del loro salario a vantaggio degli individui disoccupati.

Bisogna poi rilevare che la proposta è diretta a sostituire il vigente assetto di misure di sostegno al reddito (quali i sussidi di disoccupazione e le pensioni sociali), e questo l’ha esposta inevitabilmente ad equivoci. Primo fra tutti, quello della necessità di abolire per intero lo stato sociale svizzero, tra i più avanzati in Europa e del quale il popolo elvetico è orgoglioso. Un equivoco – dettato dalla paura del rischio di un peggioramento delle misure assistenziali e rafforzato dal timore che si concretasse una misura di RBI ispirata alla versione ultraliberista a là Friedman che vede il reddito come sostituto del Welfare e dell’occupazione – che ha finito per estendere il fronte del No. Ovviamente non era intenzione dei promotori azzerare il sistema di Welfare, come invece affermato a più riprese dal Ministro degli Interni Alain Berset con insieme ad altri membri del governo, essendoci infatti spazio per armonizzare le attuali prestazioni di protezione sociale con l’erogazione del reddito. Tuttavia l’approssimazione con cui il Comitato promotore ha trattato la questione del collocamento di tale misura all’interno dello stato sociale e degli effetti sullo stesso, nonché l’aver demandato al legislatore la decisone sulle modalità di finanziamento, non hanno di certo aiutato a far chiarezza sul punto ed a rispedire al mittente le critiche.

Infine, Rudolf Minsch, capo di Economiesuisse, l’organismo di rappresentanza delle imprese svizzere, ha anche colto l’occasione per allertare i suoi concittadini sul rischio di un “welfare tourism”, ossia di una migrazione verso il Paese elvetico al fine di godere delle sue estese protezioni sociali.

Ad ogni modo, indipendentemente dall’esito referendario e da come si giudichi la proposta, non si può non riconoscere al Comitato promotore il merito di aver avviato un dibattito che, muovendo dal tema specifico del reddito di base, ha oltrepassato le frontiere elvetiche ed ha mostrato l’urgenza di porre la questione sociale al centro dell’Europa dell’ordo-neo-liberismo. Il successo della campagna del SÌ consiste proprio in questo, nell’aver saputo richiamare l’attenzione sulle trasformazioni del mercato del lavoro e delle forme di produzione, nell’aver proiettato l’analisi verso la quarta rivoluzione industriale e verso gli effetti del capitalismo algoritmico, nell’aver indotto a rimettere in questione il legame tradizionale tra impiego e reddito, nell’aver tracciato la via per una nuova cittadinanza sociale in una fase di crisi dei tradizionali sistemi di Welfare.

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