ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 236/2025

26 Aprile 2025

Il riarmo in Europa tra incertezza, insicurezza e frammentazione

Raul Caruso propone una lettura critica del riarmo in corso nell’UE e, in particolare, evidenzia: (i) l’incertezza circa il fabbisogno di armamenti; (ii) gli effetti sulla disuguaglianza sia tra stati sia interna agli stati; (iii) gli effetti sulla sicurezza. Caruso, inoltre, suggerisce di costituire un’autorità con il ruolo di gestire: (i) il procurement comune; (ii) il commercio internazionale di armi; (iii) il burden-sharing. Essa dovrebbe essere autonoma per dare credibilità a una difesa europea comune.

Nelle ultime settimane è oramai divenuto palese il fatto che tutti i paesi europei aumenteranno in maniera costante la propria spesa militare perché la minaccia russa ai confini dell’UE diviene più concreta anche a causa di un più o meno palese disengagement di Washington negli affari europei. Le principali preoccupazioni che sono emerse nel dibattito pubblico ma anche tra i policy maker sono sostanzialmente due e precisamente: (i) come finanziare questa nuova spesa; (ii) la storica frammentazione della spesa europea. Il secondo punto è forse il più noto. Storicamente, la difesa è rimasta materia dei singoli stati e quindi quando ci si approccia all’analisi della spesa in ambito europeo si ricorda che alla fine l’impegno militare in Europa è nient’altro che la sommatoria degli impegni dei singoli stati sotto l’ombrello nucleare della NATO.

In effetti, il dibattito in merito al finanziamento diviene complementare a quella della frammentazione poiché la Commissione sta proponendo soluzioni affinché i progetti collaborativi in seno all’industria della difesa aumentino come anche le operazioni di procurement in comune tra i paesi membri. In realtà, dai primi dati in merito all’aumento di spesa seguito all’escalation della guerra tra Russia e Ucraina nel febbraio del 2022 mostrano che la frammentazione rischia di aumentare, poiché alcuni paesi UE stanno facendo riferimento a fornitori extra-UE e in particolare Usa e Israele. Di conseguenza l’idea di una difesa comune propriamente intesa sembra allontanarsi e non avvicinarsi.

A questo bisogna anche associare altre criticità meno note e precisamente: (i) l’incertezza in merito al reale fabbisogno di armamenti; (ii) gli effetti sulla disuguaglianza sia tra stati sia interna agli stati; (iii) gli effetti sulla sicurezza.

Incertezza nella domanda. Uno dei principali punti critici quando analizziamo gli impegni e il procurement in ambito militare è il fatto che sussiste una profonda incertezza in merito al reale fabbisogno di armamenti e questo chiaramente impone una riflessione in merito alle evoluzioni in seno all’industria della difesa. Inutile dire che qualsivoglia investimento in ambito industriale non può che basarsi su stime e valutazioni della domanda futura. In realtà in ambito militare, tali stime risultano estremamente difficili. Attualmente non è neanche possibile basarsi sulla domanda passata dato che siamo in una fase di accelerazione nella produzione. E quindi come si quantifica la domanda di dispositivi d’arma? Quanto durerà ancora la guerra in corso? Ci saranno altre guerre ai confini dell’UE se non addirittura entro i confini UE?

Queste sono domande a cui è pressoché impossibile dare una risposta, in particolare in questa fase in cui un qualsivoglia accordo tra Mosca e Kiev appare decisamente lontano. Peraltro, ammesso che si possa rispondere alle domande già menzionate, a queste si aggiungerebbero le diverse esigenze per i diversi tipi di dispositivi d’arma, anch’esse di difficile valutazione poiché potrebbero doversi basare su esigenze strategiche diverse. Tutto questo è già difficile per un unico governo, e quindi se consideriamo il fatto che i paesi hanno percezioni diverse in merito alla minaccia di Mosca o di altri nemici, questi avranno allo stesso tempo differenti valutazioni della domanda futura di armamenti. Invero, la situazione è più complessa di quanto possa apparire a prima vista. Il risultato è che attualmente le nuove acquisizioni di armi alla fine sembrano dipendere più dalla necessità di rispettare le obbligazioni sottoscritte in ambito NATO, ovvero le richieste dell’amministrazione americana corrente, che non da una corretta valutazione di un fabbisogno reale.

Disuguaglianze. In questo contesto, un risultato prevedibile è l’aumento della disuguaglianza tra paesi. Tornano infatti prepotenti le distinzioni tra paesi ricchi e paesi poveri. Se la sicurezza e la deterrenza si basano sull’uso della forza e quindi per mezzo delle dotazioni militari nella disponibilità dei governi, il paese più ricco sarà chiaramente in vantaggio rispetto ai paesi più poveri. In questa prospettiva, se davvero la sicurezza è da considerarsi come un bene pubblico allora non potrà essere prodotto in maniera efficiente a livello UE poiché, in assenza di una regia comune e di una spesa propriamente calcolata e suddivisa, la distanza tra i paesi ricchi e i paesi più poveri tenderà ad ampliarsi. Se il riarmo non è accompagnato da una adeguata riforma in senso redistributivo e compensativo, la tanto agognata difesa comune non solo non si realizza ma si allontana sempre di più.

Per chi ritiene che la pace e la sicurezza si realizzino con le armi, allora, questo equivale a dire che alcuni paesi sono destinati a essere meno al sicuro di altri, più alla mercé di potenziali nemici. I paesi più grandi e ricchi, nonché produttori di armi (Francia, Italia e Germania su tutti) avranno un vantaggio nei confronti dei paesi più piccoli. Se poi consideriamo gli effetti negativi della spesa militare sullo sviluppo economico di lungo periodo (Becker e Dunne, Military spending composition and economic growth, Defence and Peace Economics, 2023, 34(3), 259-271; Dunne e Tian, 2020), la già difficile convergenza tra paesi diverrà ancora più lontana.

Inevitabilmente, peraltro, non avremo solo un’accresciuta disuguaglianza tra paesi ma anche all’interno dei paesi stessi. È infatti pressoché inutile ricordare che l’allocazione di risorse nella spesa militare inevitabilmente riduce altre voci della spesa pubblica e in particolare gli investimenti di lungo periodo in grado di diminuire le disuguaglianze, come l’istruzione e la sanità, ovvero la spesa sociale. Se a questo aggiungiamo il fatto che nuova spesa potrebbe essere finanziata con l’emissione di nuovo debito pubblico, allora si produrrà un’ulteriore spinta alla disuguaglianza in virtù dell’effetto regressivo del debito pubblico sulla distribuzione dei redditi (Panizza, “Come risolvere il problema del debito pubblico italiano: un’analisi critica delle soluzioni facili”, Rivista di Politica Economica, 2019).

Deterrenza e sicurezza. La domanda cruciale da porsi, poi, è se il riarmo attuale dell’Unione Europea contribuirà effettivamente a produrre il bene pubblico della sicurezza, se non addirittura della pace. Le scelte dei decisori politici sembrano essere guidate dall’idea di deterrenza, un concetto sviluppato durante la Guerra Fredda. Secondo questa logica, una maggiore disponibilità di armamenti sarebbe condizione necessaria per garantire una maggiore sicurezza: incrementando la spesa militare, un attore razionale invia un segnale di minaccia credibile ai suoi potenziali avversari.

La concezione classica di deterrenza è intrinsecamente statica. Nei modelli di gioco non cooperativo, infatti, le parti scelgono una volta per tutte il livello ottimale di impegno militare, raggiungendo un equilibrio – il cosiddetto equilibrio di Nash – che, per definizione, è stabile. Proprio grazie alla sua semplicità analitica, questo approccio si è imposto come teoria di riferimento nelle relazioni internazionali, nonostante le critiche che gli sono state rivolte. In realtà, le decisioni in materia di spesa militare sono interdipendenti e di natura dinamica. Un aumento degli investimenti militari da parte di uno Stato tende infatti a provocare una reazione simile da parte di altri Stati, in particolare quelli non alleati. Di conseguenza, l’incremento delle spese militari è percepito come una minaccia, generando un effetto domino che conduce a una proliferazione generalizzata di armamenti. Questo fenomeno, noto come “corsa agli armamenti”, rappresenta un processo dinamico e instabile.

Il tema della stabilità della deterrenza si complica ulteriormente se si considera l’attuale fase di rapido sviluppo tecnologico, che rende le rivalità tra Stati ancora più volatili. Basti pensare alla diffusione dei droni o, più recentemente, alle prospettive offerte dalle applicazioni militari dell’intelligenza artificiale. Secondo alcuni modelli analitici di conflitto, un vantaggio tecnologico – o presunto tale – può aumentare la probabilità di un’escalation militare.

In questo contesto, appare rilevante il contributo di Thomas C. Schelling, Premio Nobel per l’Economia, che insieme a M.H. Halperin nel volume Strategy and Arms Control (1961), ha sottolineato la necessità di accordi sul controllo degli armamenti tra Stati rivali, in particolare in presenza di innovazioni tecnologiche significative. Secondo gli autori, tali accordi richiedono scambi continui di informazioni e una comunicazione costante tra le parti per poter essere credibili. Il controllo reciproco degli arsenali servirebbe così a ridurre gli incentivi a un attacco preventivo, che possono emergere quando il progresso tecnologico viene interpretato come una minaccia o come fonte di vantaggio decisivo sui campi di battaglia.

In sintesi, un sistema di controllo degli armamenti, secondo Schelling e Halperin, garantirebbe livelli di sicurezza superiori rispetto a un riarmo incondizionato. Invero, Schelling e Halperin, consapevoli dei limiti di una deterrenza basata esclusivamente sulla quantità di armi, propongono un modello alternativo di cooperazione tra Stati rivali, fondato sul dialogo e sulla trasparenza, come via più promettente verso la pace. La loro prospettiva non prevede il disarmo totale, ma promuove accordi che rendano il controllo degli armamenti credibile ed efficace grazie allo scambio informativo costante tra le parti.

In ogni caso, sempre rifacendosi all’insegnamento di Schelling, è importante ricordare che la stabilità di una relazione di deterrenza non dipende tanto dal numero di armi possedute, quanto dalla credibilità della capacità di risposta e mobilitazione in caso di attacco. In altre parole, l’idea che basti accumulare armi per garantire una deterrenza efficace è fallace o, quantomeno, incompleta. Gli armamenti rappresentano solo uno strumento attraverso cui costruire una credibilità strategica, che a sua volta è funzionale a una maggiore sicurezza. Alla luce di questa prospettiva, risulta evidente come la frammentazione politica e la mancanza di coesione tra i Paesi membri dell’Unione Europea non contribuiscano a rafforzare la credibilità dell’UE agli occhi della Russia e di altri potenziali avversari.

Conclusioni e proposta. L’attuale riarmo dei Paesi dell’Unione Europea presenta numerose criticità: soprattutto, non sembra contribuire in modo decisivo alla produzione del bene pubblico della sicurezza. Parallelamente, il tanto annunciato progetto di una difesa comune europea appare sempre più lontano, anziché più vicino alla sua realizzazione. In realtà, una difesa comune richiede in prima battuta non un processo di riarmo ma un’evoluzione della governance europea, capace di favorire una maggiore integrazione tra gli Stati membri. In tal senso, una delle proposte più significative contenute nel Rapporto Draghi, pubblicato nel settembre 2024, è stata quella di istituire un’Autorità per l’industria della difesa, affiancata da un Commissario europeo specificamente dedicato a questo settore. Si tratterebbe, in sostanza, di introdurre un nuovo modello di governance per l’industria della difesa a livello europeo. Le competenze principali di tale Autorità – da costituire sotto l’egida della Commissione Europea – dovrebbero consistere nella pianificazione e gestione di acquisti centralizzati su scala continentale. Tuttavia, per renderla realmente efficace rispetto all’obiettivo di un’integrazione più profonda e di una maggiore sicurezza, questa Autorità dovrebbe vedere ampliati i propri poteri.

In particolare, essa dovrebbe avere competenza non solo in materia di (i) procurement comune, ma anche su (ii) il commercio internazionale di sistemi e dispositivi d’arma, e (iii) la gestione dei meccanismi di burden-sharing, non solo per quanto riguarda la spesa generale, ma anche le risorse destinate a missioni di peacekeeping e ad altri interventi militari congiunti. È evidente, tuttavia, che l’efficacia di un simile organismo dipenderebbe in modo cruciale dalla sua credibilità istituzionale. Una condizione necessaria sarebbe l’assoluta indipendenza di tale Autorità dai governi nazionali. Per fare un’analogia, essa dovrebbe godere di un grado di autonomia paragonabile a quello di cui dispone la BCE nella gestione della politica monetaria dell’Eurozona.

In altre parole, dovrebbe essere indipendente non solo dagli Stati membri, ma persino dalla Commissione stessa. Una siffatta autorità potrebbe dare al percorso di una difesa comune in UE una maggiore credibilità e di conseguenza una maggiore sicurezza per i paesi membri.

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