Il Sud è rimasto indietro ma è anche andato avanti

Nel suo ultimo libro, "La questione. Come liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi", appena uscito da Donzelli, Salvatore Lupo ricostruisce la storia della questione meridionale tra l’ultimo quarto dell’Ottocento e il primo quarto del Novecento e sottolinea che questa grande discussione sul dualismo con la sua enfasi sul progressivo divario Nord-Sud tende ad occultare i termini di uno sviluppo (macro) regionale realizzatosi anche al Sud – lasciandolo, per così dire, privo di una storia collocabile nei parametri della modernità - nonché le caratteristiche della storia regionale propriamente detta, profondamente differenziata sia al Sud che al Nord. L’idea-base è che la grande questione del dualismo per alcuni aspetti illumini il ruolo del Sud nella storia d’Italia, ma per altri ne occulti i caratteri dinamici, e a loro modo moderni. Quelle che seguono sono le prime pagine dell’Introduzione al libro di Lupo.

Nel suo ultimo libro, “La questione. Come liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi”, appena uscito da Donzelli, Salvatore Lupo ricostruisce la storia della questione meridionale tra l’ultimo quarto dell’Ottocento e il primo quarto del Novecento e sottolinea che questa grande discussione sul dualismo con la sua enfasi sul progressivo divario Nord-Sud tende ad occultare i termini di uno sviluppo (macro) regionale realizzatosi anche al Sud – lasciandolo, per così dire, privo di una storia collocabile nei parametri della modernità – nonché le caratteristiche della storia regionale propriamente detta, profondamente differenziata sia al Sud che al Nord. L’idea-base è che la grande questione del dualismo per alcuni aspetti illumini il ruolo del Sud nella storia d’Italia, ma per altri ne occulti i caratteri dinamici, e a loro modo moderni. Quelle che seguono sono le prime pagine dell’Introduzione al libro di Lupo.

Il Mezzogiorno fa questione nella discussione pubblica italiana da circa un secolo e mezzo, ma la grande discussione pubblica chiamata «questione meridionale» non si è mai limitata a rispecchiare la realtà. La cultura italiana le ha dato progressivamente forma e spessore in fasi storiche molto diverse tra loro, secondo finalità politiche anche contraddittorie, comprendendovi una quantità di fenomeni eterogenei – economici, civili, culturali – e caricandovi sopra ogni genere di simbologia.

Cominciamo dagli aspetti economici, più usualmente presentati nel dibattito attuale in termini di Prodotto interno lordo, ovvero Pil pro-capite. In base a tale indicatore, il divario non era così netto nei primi due-tre decenni postunitari. Si definì con maggior chiarezza a cavallo tra Otto e Novecento. Crebbe nel corso della prima metà del secolo, insieme alle difficoltà economiche del paese nel periodo della prima guerra mondiale, della crisi degli anni trenta, dell’autarchia e della seconda guerra mondiale, sino a giungere a un massimo del 51% nel 1951. Diminuì poi negli anni del «miracolo economico», anche per l’adozione di provvedimenti «straordinari» per lo sviluppo del Sud, sino al 36% nel 1971. Il successivo abbandono di queste politiche interventiste è venuto a coincidere con il cosiddetto declino economico nazionale, e con un nuovo incremento del divario macro-regionale, attestatosi sul 41% nel 2009 (Cfr. In ricchezza e in povertà, a cura di G. Vecchi, 2011).

Altri elementi vanno però considerati. Per alcuni possibili indicatori di «capitale sociale», il Sud, partito in nettissimo svantaggio, è andato a convergere con il Centro-nord anziché a divergere da esso. Possiamo parlare di convergenza per il livello di istruzione, per la mortalità infantile e la vita media, per il tasso di fecondità, l’età del matrimonio, e altri indicatori dell’emancipazione femminile (E. Felice in Rivista di politica Economica, 2007 e vari saggi in In ricchezza e in povertà, cit.). Ancora più chiaro il trend per quanto attiene alla densità delle associazioni no-profit (dedite ad attività sociali, ricreative, culturali, sportive, mutualistiche, di rappresentanza di interessi, e di altra natura): fatta la media nazionale uguale a 100, il Sud nei primi anni del secolo XXI si è attestato intorno al 75, mentre un secolo prima si collocava appena al 25 (Cfr. G. Nuzzo in Quaderni dell’ufficio ricerche storiche della Banca d’Italia, dic. 2006).

Questo discorso ci porta all’interno del moto «di fondo» dell’età contemporanea, che in passato avremmo chiamato progresso con un’enfasi valutativa e totalizzante oggi fuori moda. Il moto non è soltanto economico ma è anche economico, e in quanto tale può essere espresso ancora in termini di Pil pro-capite. Quello dei meridionali, tra il 1871 e il 2009, è cresciuto di dieci volte a fronte di una media italiana di tredici volte, e in età repubblicana è cresciuto di 6,4 volte a fronte di una media italiana del 5,6 (Cfr. A. Brunetti, E. Felice, G. Vecchi, in In ricchezza e in povertà, cit., p. 227).

Ciò significa che il Mezzogiorno, tra momenti di divergenza e convergenza con il Settentrione, ha partecipato del cento cinquantennale trend di sviluppo del paese nel suo complesso.

Insomma per alcuni aspetti nel cento cinquantennio il Sud è effettivamente rimasto indietro (rispetto al Nord), ma nel contempo è anche andato avanti (rispetto al suo passato). Il punto è che, delle due questioni, la prima occulta la seconda e, possiamo dire, in sostanza l’ha sempre occultata. Perché? Per il fascino della grande metafora dualista che sta dietro e sotto la questione meridionale: progresso vs arretratezza, modernità vs arcaismo, civilizzazione vs. barbarie – A contro B, Nord contro Sud.

Il dualismo ha sempre trionfato nella discussione pubblica, e anche in quella sua particolare sezione che è la discussione storiografica, generando ciò che possiamo definire un mainstream: teso non solo a contrapporre su tutto e in tutto Nord e Sud, ma a definire una norma modellata su parametri settentrionali, e un’anomalia modellata su parametri meridionali. Sarebbe impossibile elencare qui la massa di saggi storiografici di alto o di modesto livello, manuali scolastici, opere di divulgazione, trasmissioni televisive, che si sono basate su questo schema. Non mi pare che le proposte interpretative incentrate sull’idea di una «terza» Italia del Centro, o del Nord-est, ne abbiano messo davvero in questione la supremazia. E comunque, la mia idea è che il ragionamento per macroregioni in se stesso, duale o tripartito che sia, induca a sottovalutare le differenze regionali propriamente dette, che tanto caratterizzano l’Italia un po’ dappertutto. In particolare, all’interno della categoria di Mezzogiorno vengono usualmente comprese due grandi isole, cioè due ben distinte regioni naturali. Chi agita la questione meridionale dimentica troppo spesso quanti agitano (e hanno agitato) una questione sarda e una questione siciliana.

C’è poi da considerare l’influenza di quella particolare variante del mainstream che tende a far coincidere non solo la storia del Mezzogiorno con la questione meridionale, ma quest’ultima col pensiero di una decina di intellettuali otto-novecenteschi definiti come «meridionalisti». Qui forse è più facile limitare il campo riferendosi a due opere scritte mezzo secolo fa: Il mito del buongoverno di Massimo Salvadori (1960) e Il Sud nella storia d’Italia di Rosario Villari (1961). A mio giudizio, non sempre sono stati positivi gli effetti di una tale giustapposizione tra il punto di vista dei contemporanei e quello degli storici. È comprensibile che i primi, indossando gli occhiali bifocali della questione meridionale, siano stati talmente abbagliati dal dinamismo del Nord da vedere a Sud solo immobilismo. Meno accettabile che lo abbiano fatto anche i secondi. Prendo ad esempio il lavoro citato di Salvadori, nel quale si sostiene (p. 20-1 e p. 524): il Mezzogiorno è stato condannato per un secolo intero, «in termini immutati dal 1862», «all’immobilità delle sue pietre o tutt’al più a muoversi verso una maggiore disgrega­zione».

Tra gli storici che hanno provato, già negli anni sessanta e settanta, a smarcarsi rispetto a questo modo di vedere le cose, voglio richiamare Rosario Romeo, citando due suoi luoghi definibili come «minori». Il primo (Corriere della Sera, 2 giugno 1965): vanno abbandonati i (pre)giudizi, mutuati dalla tradizione meridionalista, che vedono la borghesia meridionale come «negativo assoluto». Il secondo (Storia della Sicilia, 1979): bisogna rinunciare all’idea dell’Italia padana come caso «esemplare», che rischia di escludere il Sud dal corso «normale» della storia. Aggiungo la citazione di un testo altrettanto minore di Gastone Manacorda (1977): «guardando le cose da Sud», gli studiosi possono arricchire la propria conoscenza dell’intera storia dell’Italia contemporanea, «scorgere vedute d’insieme e prospettive diverse da quelle che si vedono dalle finestre del palazzo del principe» (G. Manacorda, Prefazione a G. Barone, S. Lupo, R. Palidda, M. Saija, Potere e società in Sicilia nella crisi dello Stato liberale, 1977, pp. XIII-XIV).

Confesso la ragione molto personale per cui quest’ultimo brano mi è particolarmente caro: Manacorda è stato il mio maestro e il brano citato è tratto dalla sua introduzione al mio primo lavoro. Quanto al resto, ci si potrà stupire che io metta insieme Romeo, a tutti noto come l’intellettuale liberale che demolì alcuni dei capisaldi ideologici della storiografia gramsciana; e Manacorda, prima direttore di «Società» e poi fondatore di «Studi storici», luoghi ideali di quella stessa storiografia gramsciana. Sta di fatto che le loro tre citazioni vanno a definire un programma in tre punti di svolta storiografica, rapportabile a quella in cui dal 1987 si impegnò un gruppo di storici e scienziati sociali, appartenenti a varie discipline, fondando la rivista «Meridiana» e l’Imes (Istituto meridionale di storia e scienze sociali). Sintetizziamola così: il Mezzogiorno va considerato, al pari di un qualsiasi luogo di questo mondo, come un frammento della modernità (si veda in particolare la Presentazione del numero 1 di Meridiana, 1987, pp. 9-15 e anche C. Donzelli in Meridiana, 1990). È sui modi della sua modernizzazione che occorre confrontarsi – hic Rhodus hic salta.

Non tocca a me, che sono stato partecipe dell’esperienza di «Meridiana» quasi per un trentennio, celebrarne i risultati scientifici. Rimando magari al testo (e alle note) del mio libro per qualche citazione degli studiosi che hanno fatto parte del gruppo e di quelli che mi sembra siano stati i migliori frutti del loro lavoro. Può essere invece utile evocare la risposta data sin da subito (1988) da Luciano Cafagna, lo storico che meglio ha maneggiato il concetto di dualismo economico, all’idea di un Mezzogiorno moderno. Stando a Cafagna, per il Sud è giusto parlare non di una «modernizzazione attiva» come quella dell’Italia del Nord, bensì di una «modernizzazione passiva»: caratterizzata dalla «mancanza di identificazione tra fattori modernizzantisi e collettività nel suo insieme» – insomma dalla mancanza di culture ed élites modernizzatrici (L. Cafagna, in Meridiana, 1988). Sempre secondo Cafagna, l’idea di modernità/normalità dell’esperienza storica del Sud comporta il rischio di un passaggio «dal meridionalismo rivendicativo e piagnone» a una sorta di patriottismo «della grandeur meridionalistica» (L. Cafagna, Nord e Sud. Non fare a pezzi l’unità d’Italia, 1994, p. 86) all’insegna del «noi siamo stati e siamo bravi quanto voi».

Il rischio in effetti c’è, come c’è in ogni storiografia (ne esistono di tanti tipi) che si proponga finalità identitarie. Stabilito però che i «nostri» borghesi non sono stati dinamici come i «loro», è anche vero che non è possibile catalogare tutte le borghesie meridionali sotto il modello – ovvero lo stereotipo – del proprietario latifondista, assenteista e neghittoso, come il mainstream ha usualmente fatto. Non è possibile per tante ragioni e se non altro per questa: già nell’Ottocento, e a maggior ragione nel Novecento, le aree regionali o sub-regionali del Mezzogiorno erano diversissime tra loro, e il latifondo caratterizzava solo una parte minore di esse.

Di recente Emanuele Felice, giovane economista storico, ha ripreso il concetto di «modernizzazione passiva», insistendo sulla «colpa» o sul «dolo» delle classi dirigenti meridionali, che avrebbero «deliberatamente […] soffocato il Mezzogiorno» lasciando che ogni progresso, ad esempio in campi strategici quali l’istruzione e la sanità, venisse «dall’esterno (cioè dallo Stato italiano)» (E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, 2013, pp. 12 e 132). Il libro di Felice è nella sua grande parte interessante e ben argomentato, ma qui l’autore si è davvero lasciato prendere la mano. Lasciamo pure da parte questa terminologia a base di colpe o di doli, frutto di semplificazioni polemiche o moraleggianti che non dovrebbero far parte dell’analisi storico-sociale. Mi chiedo per quale ragione uno Stato nazionale e rappresentativo (già nell’Ottocento) nonché democratico (nel secondo Novecento) dovrebbe essere considerato come un fattore esterno rispetto ad alcune sue regioni, e solo rispetto a esse. In tutta Italia, per un secolo e mezzo, lo Stato ha creato infrastrutture, ha promosso l’istruzione, ha creato sistemi di sicurezza sociale, ha sostenuto la produzione e i redditi – ottenendo successi cui vanno ovviamente cumulati gli insuccessi. Le borghesie meridionali hanno fornito il loro (grande) contributo al personale che ha retto quello Stato, e la cultura giuridica meridionale alla determinazione delle sue regole e delle sue finalità. Hanno persino concorso all’elaborazione di quei modelli di interventismo statale su cui si è sostenuta la grande stagione novecentesca del capitalismo italiano: a cominciare da uno degli interpreti canonici della questione meridionale, Francesco Saverio Nitti, e dal suo allievo Alberto Beneduce. Il concetto di modernizzazione passiva può essere anche interessante; non deve però fungere da porta di servizio attraverso cui far rientrare il dualismo fatto uscire dalla porta principale.

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