Impiego atipico e assetti macro-istituzionali. Le conseguenze sociali della deregolamentazione dei mercati del lavoro in Europa

Paolo Barbieri presenta i risultati di un ricerca europea sulle conseguenze sociali della flessibilizzazione dei mercati del lavoro focalizzata sul ruolo delle configurazioni istituzionali e del loro impatto soprattutto sui rischi di intrappolamento nel precariato e di ritardo nell’accesso alla maternità per le donne. Il principale risultato che emerge è che soltanto nei paesi del Sud Europa il lavoro flessibile diviene una trappola occupazionale ed esercita un forte disincentivo alla procreazione. Altrove questi effetti sono assenti o molto più lievi.

Le conseguenze sociali del lavoro c.d. ‘flessibile’ dipendono anche dai contesti istituzionali. E’ questo il tema del presente articolo che compara 9 paesi (Italia, Spagna, Francia, Germania, Ungheria, Gran Bretagna, Olanda, Danimarca e Svezia) e riassume i principali risultati di un vasto progetto europeo.

Prima di illustrare l’approccio e i risultati della ricerca, è utile accennare al dibattito alla base della deregolamentazione dei mercati del lavoro occidentali. Negli ultimi due decenni, la legislazione a protezione dell’impiego (Employment Protection Legislation, EPL) è stata spesso additata come una determinante degli alti livelli e della persistenza nel tempo della disoccupazione in Europa. In accordo con l’approccio della search theory, la quale sottolinea il peso di “imperfezioni” o “frizioni” nel processo di incontro fra domanda e offerta di lavoro, dagli anni ’90 almeno del secolo scorso è iniziato un processo di riconsiderazione teorica, riconoscendo l’esistenza di equilibri imperfetti (cioè con presenza di disoccupazione involontaria non frizionale e/o di stabili differenze salariali).

Le imperfezioni includono fattori quali il cambiamento tecnologico, sistemi di relazioni industriali che alzano i costi del lavoro, sistemi di welfare demercificanti, politiche educative pubbliche che creano aspettative di elevati rendimenti dell’istruzione, o anche il ruolo dei sistemi normativi di protezione del lavoro (dipendente) che limitano il potere di rescissione unilaterale del contratto di impiego da parte dei datori di lavoro. Tutti questi meccanismi rappresenterebbero “frizioni” o “imperfezioni” in quanto contribuirebbero a spostare “verso destra” la curva di Beveridge, e il mercato del lavoro potrebbe convergere verso una situazione caratterizzata da livelli inferiori di vacancies e tassi più elevati di disoccupazione involontaria e stabile. Le frizioni, andrebbero, pertanto, rimosse o ridotte, nei limiti del possibile, anche se ciò implica un trade-off fra (crescita della) occupazione e aumento della diseguaglianza (salariale e normativa) sul mercato del lavoro.

In linea con queste premesse, a partire dalla prima metà degli anni ’90, molti paesi Ocse e sostanzialmente tutti i paesi Europei hanno dato avvio a processi di deregolamentazione dei loro mercati del lavoro. Tramite una compressione dei costi di aggiustamento e di quelli del lavoro si sperava di stimolare la ripresa occupazionale, soprattutto per quei segmenti della forza lavoro la cui partecipazione al mercato era tradizionalmente più contenuta.

In Europa, le misure di deregolamentazione sono state variamente concentrate sui segmenti della forza lavoro non standard, o “marginale” – definita in termini di età o di qualificazione in continuità con gli assetti istituzionali pregressi di ciascun paese – lasciando sostanzialmente invariate le procedure di assunzione e licenziamento dei lavoratori permanenti, secondo un percorso che è stato definito di “deregolamentazione parziale e selettiva”. L’opzione di concentrare la flessibilizzazione dei rapporti d’impiego sulla forza lavoro periferica avrebbe inoltre minimizzato lo scontro sociale, dato che la deregolamentazione ai margini non colpiva gli occupati con contratti permanenti né influiva sulle condizioni dei disoccupati.

Se si può dire che l’impatto dell’EPL sui livelli di occupazione complessivi resta una questione teoricamente dibattuta ed empiricamente controversa, è importante sottolineare che la creazione di un mercato del lavoro fortemente segmentato è stata criticata da una prospettiva sia economica sia sociologica e che alcuni autori oggi annoverano la forma contrattuale del rapporto di lavoro tra le più rilevanti dimensioni di diseguaglianza sociale ed economica. L’Italia, in questo panorama, è fra i paesi che – tra il 1990 e il 2013 – più hanno deregolamentato “ai margini”, sviluppando una sostenuta segmentazione del proprio mercato del lavoro (V. Fig. 1)
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L’esasperazione del dualismo nel mercato del lavoro costituisce un classico esempio di loop perverso: più si deregolamenta ai margini, più si dualizza il mercato del lavoro, più si differenziano i costi di aggiustamento per occupati stabili e precari, più la segmentazione diviene irreversibile, dato che il lavoro flessibile diviene sempre più lavoro “usa-e-getta”, progressivamente dequalificato (perché riceve meno formazione, salari più bassi, più discriminazione…) il che aumenta ancor più la segmentazione fra mercato del lavoro primario-garantito e secondario-marginale. Al riguardo, sono diversi i contributi che mettono in luce i rischi di carousel fra episodi di lavoro precario e di disoccupazione che tendono a ripetersi nella vita degli individui. Negli ultimi anni, la stessa Ocse ha finito per raccomandare un riequilibrio della legislazione a protezione di permanenti e temporanei: “[..]farlo consentirebbe al lavoro a tempo determinato di funzionare in maniera più efficiente non come una trappola ma piuttosto come trampolino verso il lavoro permanente [..] il ribilanciamento della legislazione dovrebbe poi essere introdotto come parte di un pacchetto complessivo capace di garantire un adeguato sostegno al reddito in caso di disoccupazione” (Ocse Employment Outlook, 2010). Queste conseguenze negative si producono con maggiore facilità nei contesti di welfare “sub-protettivi” dei paesi mediterranei, in cui la segmentazione del mercato del lavoro, insieme alla balcanizzazione dei diritti sociali (legati alla posizione occupazionale individuale) e alle carenze nelle politiche attive, finisce per ripercuotersi oltre il perimetro delle carriere occupazionali, finendo per influenzare l’intero processo di transizione alla vita adulta.

Una domanda molto importante –al centro della ricerca europea su cui si basano queste note – è la seguente: quali conseguenze negative del lavoro precario si manifestano nei diversi contesti nazionali? La letteratura socio-economica e di political economy ci suggerisce tre principali dimensioni macro, fra loro interconnesse, in grado di caratterizzare le condizioni del mercato del lavoro e le possibili conseguenze sugli individui. Esse sono rappresentate da:

  1. a) le istituzioni di regolazione dei mercati del lavoro, quali il grado di protezione del lavoro dipendente (EPL) e il tipo di sistema di istruzione vigente (ETS);
  2. b) le caratteristiche assunte dal processo di flessibilizzazione dello specifico mercato del lavoro nazionale, cioè se la deregolamentazione è avvenuta prevalentemente “ai margini” o se ha avuto connotazioni di tipo “universalistico”, non concentrata su caratteristiche individuali di età o di qualificazione professionale;
  3. c) il modello di welfare proprio del paese considerato, cioè se di tipo prevalentemente lavorista/assicurativo piuttosto che universalistico (l’alternativa “Bismark vs Beveridge”).

Combinando tali dimensioni (per una trattazione più estesa rimando al testo in corso di pubblicazione per E.Elgar) si possono identificare sostanzialmente quattro grandi macro-cluster di paesi europei:

1) il cluster dei paesi liberisti anglosassoni, caratterizzato da basso EPL, una deregolamentazione del mercato del lavoro più generalizzata, un modello di welfare residualistico non assicurativo e un sistema di istruzione “generalistico” che tende quindi a combinarsi con mercati interni del lavoro e a sfavorire i giovani appena entrati nel mercato del lavoro;

2) il cluster dei paesi nordici, di “flexicurity”, caratterizzato da basso EPL, una deregolamentazione del mercato del lavoro più universalistica, un modello di welfare di cittadinanza generoso e “attivatore”, che si combina con un sistema di istruzione vocational oriented;

3) il cluster centro-europeo, caratterizzato da più elevato EPL, una deregolamentazione del mercato del lavoro orientata “ai margini”, ma penalizzante coloro cha hanno deficit di qualificazione professionale, un sistema di welfare “bismarckiano” rigidamente assicurativo/contributivo e un sistema di istruzione vocational oriented quando non marcatamente duale, che se da un lato rende più agevole l’accesso al mercato del lavoro per i qualificati, tende ad escludere la forza lavoro meno attraente per le imprese;

4) infine, il cluster sud-europeo, caratterizzato da livelli di EPL simili al precedente cluster centro-Europeo, una deregolamentazione del mercato del lavoro decisamente orientata “ai margini” e su chi deve compiere l’accesso al mondo del lavoro, un sistema di welfare assicurativo/contributivo e un sistema di istruzione generalistico, che non velocizza l’ingresso nel mercato del lavoro.

Sulla base di modelli multivariati di analisi longitudinale (EHA), paese per paese, la ricerca ha analizzato l’ingresso al primo lavoro, l’accesso al primo lavoro stabile, l’avvio di percorsi di carousel interni al lavoro precario, e l’analisi della situazione occupazionale a 35 anni di età al fine di valutare i rischi di essere non occupati o ancora in una posizione precaria. Per le donne, si sono anche valutati i rischi di rinviare la transizione al primo figlio in conseguenza dell’essere occupate precarie nonché l’impatto di una carriera precaria sulla situazione familiare a 35 anni di età.

Dalla ricerca è emerso come, già prima del sopraggiungere della crisi economica, le conseguenze del lavoro flessibile fossero particolarmente diverse fra i contesti (definiti sulla base delle dimensioni sopra indicate). Nei contesti liberisti anglosassoni così come in quelli scandinavi di welfare pubblico il lavoro precario ha minori conseguenze negative sulle carriere occupazionali e riproduttive dei singoli (quando non addirittura nessuna) mentre i contesti centro e sud-Europei si rivelano quelli più problematici. Anche all’interno dei contesti bismarckiani, ad ogni modo, i nostri risultati mostrano come si debba distinguere fra paesi dell’area centroeuropea e paesi del sud-Europa. Particolarmente problematica, infatti, è la situazione dei paesi mediterranei, per il protrarsi di effetti di intrappolamento nel lavoro precario – piuttosto che nella disoccupazione di lungo periodo al sopraggiungere della crisi economica – per le coorti più giovani (e per le giovani donne) e di ritardo/rinvio nella transizione alla maternità in conseguenza di tale intrappolamento (si tratta di un effetto della precarietà distinto dal più generale trend di bassa fecondità, tipico di questi paesi).

Il grafico mostra, per tre dei paesi considerati, le differenze fra le probabilità attese di compiere la transizione al primo figlio per donne di diverse età, dato il tipo di posizione contrattuale sul mercato del lavoro. Si nota come le differenze di probabilità fra donne con un’occupazione a tempo indeterminato e donne con un impiego flessibile, in Italia e in Spagna (differenze fra curva blu e curva rossa) siano elevate e statisticamente significative, mentre ciò non accade affatto in Germania (per maggiori riferimenti si veda: Barbieri, Bozzon, Scherer The family and fertility consequences of labor market deregulation ‘at the margins’ in Italy and Spain, in corso di pubblicazione in European Societies).
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Avere un impiego precario, dunque, contribuisce a ritardare l’accesso alla maternità per le donne occupate, in Italia e in Spagna – e solo in questi paesi – contribuendo quindi ad aggravare la bassa fecondità che già li caratterizza. Le conclusioni chiamano in causa esplicitamente l’effetto combinato di riforme “al margine” del mercato del lavoro e del sistema di cittadinanza sociale “sub-protettivo” sud-europeo e sottolineano il percorso di concentrazione, istituzionalmente guidata, di un insieme di nuovi rischi sociali sulle giovani generazioni e sulle donne. Effetti simili, ma molto meno pesanti e soprattutto molto meno persistenti sono stati riscontrati anche nei paesi del cluster centro-europeo, almeno per quanto concerne i rischi di restare confinati al mercato del lavoro secondario per i soggetti poco o nulla qualificati. Non si verificano, invece, effetti di ritardo, per le donne centroeuropee occupate precarie, nella transizione alla maternità a causa della loro condizione contrattuale.

La ricerca ha analizzato anche l’impatto della crisi, in particolare i rischi di disoccupazione di lungo periodo (oltre 12 mesi di durata) e ancora una volta, la situazione peggiore si è rivelata quella di Italia e Spagna, con differenziali di rischio significativamente più elevati rispetto al resto dei cluster europei e un pesante effetto dell’essere precedentemente occupati precari sul rischio di restare disoccupati a lungo, una volta entrati in periodi di crisi economica.

In definitiva, la ricerca ha mostrato come mentre assetti di welfare pubblico, universalistici nordeuropei e assetti anglosassoni di mercato favoriscono bassi livelli di dualismo occupazionale e sociale, bassi livelli di segmentazione del mercato del lavoro ed esercitano scarse o nulle conseguenze negative sulle carriere occupazionali dei soggetti così come sulle decisioni di maternità delle donne, gli assetti corporatisti centro e sud-europei appaiono i più dualisti. Cionondimeno, fra gli stessi paesi appartenenti al c.d. regime di welfare conservatore centro-sudeuropeo si ritrova un elevato livello di eterogeneità, se guardiamo alle conseguenze micro-individuali e macro-sociali dei percorsi di riforme che hanno interessato sia i sistemi di protezione sociale che i mercati del lavoro. Anche da questo punto di vista, i veri perdenti del processo di “globalizzazione” e annesse deregolamentazioni sociali e del lavoro, sono i paesi mediterranei: sono loro i veri sconfitti in Europa.

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