ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 223/2024

15 Ottobre 2024

Fabrizio Patriarca, Edoardo Santoni, Margherita Scarlato,

Incentivi all’occupazione e performance aziendale

Fabrizio Patriarca, Edoardo Santoni e Margherita Scarlato riflettono sulla recente tendenza a utilizzare incentivi economici generalizzati per le nuove assunzioni sulla base di un approccio di politica economica che considera il costo del lavoro l’elemento determinante della competitività. Gli autori presentano anche i risultati di un loro lavoro recente da cui risulta che tali politiche hanno effetti perversi sulle performance delle imprese favorendo un’alta intensità di lavoro, una scarsa produttività e bassi salari.

Nell’arco dell’ultimo ventennio, la scatola degli attrezzi delle politiche economiche mirate a sostenere l’occupazione non è cambiata molto. Se si guarda tuttavia alle misure che hanno assorbito maggiori risorse pubbliche, si nota l’affermazione su scala molto più larga di due strumenti. Il primo corrisponde all’estensione nei sistemi di previdenza sociale di meccanismi di sostegno alla riduzione transitoria delle ore lavorate. Si tratta di un sistema che l’Italia aveva già, la Cassa Integrazione, ma che era escluso dagli ammortizzatori sociali della maggior parte dei paesi OCSE. Diversi paesi hanno introdotto questo tipo di strumenti a seguito dello shock della pandemia, decidendo successivamente di definirne versioni strutturali, spesso guardando proprio all’esperienza dell CIG italiana o dell’ERTA spagnola.

Il secondo strumento, non ha un ruolo di protezione sociale ma è, invece, volto a promuovere la creazione di nuovi posti di lavoro: gli incentivi alle assunzioni. Anche questo strumento è tutt’altro che nuovo. Tuttavia, la tendenza generale è stata quella di spostarsi da strumenti molto mirati per favorire l’aumento dei tassi di occupazione di segmenti definiti di lavoratori, come categorie disagiate e disoccupati di lunga durata, verso interventi sempre più generalizzati. Molto frequenti sono stati infatti incentivi che hanno progressivamente ampliato la platea dei possibili beneficiari di interventi già adottati, come in Corea, o che hanno riguardato categorie molto ampie quali donne, lavoratori di imprese medie e piccole o aree geografiche molto estese, come nei casi di Svezia, Brasile o Nuova Zelanda. Ma ci sono stati anche molti casi di politiche totalmente incondizionate, come in Spagna e in Italia. Anche tali strumenti generali non sono nuovi. Incentivi incondizionati alle assunzioni sono ad esempio una tradizione delle politiche di molti Stati degli Stati Uniti, i Job Creation Tax Credits, da più di trent’anni. Anche qui, come altrove, la tendenza, dallIncentives to Restore Employment dii Obama in poi, è stata di introdurre incentivi incondizionati anche a livello federale. Inoltre, anche nel dibattitto di policy più tecnico, questi strumenti sono stati spesso evocati come parte integrale strutturale di “qualsiasi pacchetto di politiche a sostegno all’occupazionale (Bartik e Bishop 2009, Economic Policy Institute Briefing Paper)”.

Le differenze tra incentivi alle nuove assunzioni con target molto specifici e incentivi ca molto più generali, sono rilevanti sotto l’aspetto teorico e empirico. Dal punto di vista teorico, un conto è approcciarsi a problemi molto specifici di alcuni target occupazionali che risultano avere costi maggiori di inserimento o di attivazione, che appartengono ad aree depresse, che sono esposti a pratiche discriminatorie o che hanno effettivamente produttività più basse. Lo stato copre il gap con altri lavoratori, e agisce per ridurre le disuguaglianze, nelle loro diverse forme. L’adozione di politiche generalizzate scaturisce invece da un approccio che riconosce come centrale per le politiche di sviluppo il nodo del costo del lavoro piuttosto che la competitività di impresa e di sistema.

L’altra differenza importante con le politiche mirate è evidentemente la dimensione dei costi che gli incentivi destinati a platee ampie o generalizzate determinano a carico delle finanze pubbliche. Gli interventi citati negli esempi hanno avuto un costo, mediamente, di circa 0,2-0,4 punti di PIL nei diversi paesi che di recente li hanno adottati. Trattandosi di politiche per l’occupazione, la letteratura sul tema si è molto soffermata sugli effetti occupazionali di tali politiche. Le evidenze sono diverse ma convergono nel ritenere tali politiche poco efficienti, con effetti occupazionali positivi ma non sempre soddisfacenti in un rapporto tra costi e benefici. La scarsa efficacia si riscontra soprattutto quando tali sono diretti a platee poco limitate, o quando non sono contingenti a periodi di crisi acuta. Tuttavia, non sembra che la letteratura accademica sia in grado di fare breccia tre i decisori delle politiche. Questo vale anche e soprattutto per l’Italia, che non è nuova a politiche di incentivi inefficienti (si pensi al superbonus) e soprattutto in cui il tema del costo del lavoro in materia di politiche per la crescita è sempre al centro del dibattito, mentre il tema della produttività e della competitività di impresa rimane sullo sfondo.

Se quindi gli incentivi alle assunzioni stanno travalicando il campo occupazionale per diventare un pezzo consistente dei piani di sviluppo, allora vale la pena indagare anche gli effetti che queste politiche hanno sulle imprese. Nella letteratura tali effetti sono poco chiari. come evidenziato Gli studi di Lombardi et al. (2018, Labor Economics) e Saez et al. (2019, American Economic Review), che mostrano che dipende dal design della politica se i risultati saranno positivi o negativi.

Con un nostro recente lavoro (condotto dell’ambito del programma Visitinps), cerchiamo di contribuire a questo dibattito analizzando gli effetti sulle imprese dell’incentivo introdotto in Italia nel 2015 dal governo Renzi con la Legge 190/2014, nell’ambito delle politiche attive del lavoro.

Il contesto italiano risulta di particolare interesse in quanto strumenti di incentivazione dell’occupazione sono utilizzati da vari decenni, con un rilevante impegno di risorse. Gli interventi più diffusi sono stati a favore di disoccupati di lungo periodo (e.g. L. 407/1990), donne (e.g. L. 92/2012) o giovani (si pensi alla c.d. Garanzia giovani o all’incentivo strutturale ex lege 205/2017). Il Sud è stato un importante destinatario di queste forme di incentivazione, e l’ultima misura è la Decontribuzione Sud (L. 178/2020). Non sono mancati però negli anni incentivi molto specifici come quelli a favore dei soggetti impiegati nella marineria civile (DL. 457/1997) o finalizzati all’attivazione dei detenuti (L. 381/1991).

In questo quadro, gli incentivi previsti dalla Legge 190/2014 si distinguevano per non essere una misura mirata a specifici gruppi svantaggiati, considerato che offrivano in modo generalizzato sgravi contributivi alle aziende che assumevano nuovi lavoratori a tempo indeterminato o che convertivano contratti a tempo determinato in permanenti. L’obiettivo principale della politica era stimolare la creazione di posti di lavoro stabili, riducendo il costo del lavoro a carico delle imprese attraverso una esenzione dal pagamento dei contributi per tre anni dall’attivazione del contratto. Tale intervento fu prolungato nel 2016 ma lo sgravio concesso fu portato al 40% e la durata ridotta a due anni.

Questa era la prima volta che in Italia si introducevano incentivi all’occupazione incondizionati, volti a favorire le assunzioni a tempo indeterminato. Tra il 2015 e il 2016, le due misure hanno riguardato circa 1,5 milioni e 600.000 contratti a tempo indeterminato, rispettivamente (Rapporto annuale Inps 2016), corrispondenti al 57% e al 35% del totale delle assunzioni/conversioni a tempo indeterminato avvenute nel 2015 e nel 2016. Si tratta quindi di un caso polare che permette di analizzare una politica degli incentivi rivolta alle imprese con obiettivi di crescita economica e non solo occupazionale.

Per valutare l’impatto di questa politica, abbiamo utilizzato un approccio metodologico innovativo, il Synthetic Control Difference-in-Differences (SDID), che combina due tecniche consolidate: il controllo sintetico (Synthetic Control) e le differenze nelle differenze (Difference-in-Differences). Questo metodo consente di creare un gruppo di controllo sintetico che riproduce le caratteristiche delle imprese trattate nel periodo pre-intervento, migliorando la capacità di isolare l’effetto causale degli incentivi all’occupazione.

I risultati dello studio mostrano che la politica degli incentivi alle assunzioni ha avuto un effetto positivo sull’occupazione: nelle imprese che hanno usufruito dell’incentivo la forza lavoro è cresciuta dell’8,6% in più rispetto a quelle che non l’hanno utilizzato. Tuttavia, nonostante l’incremento dell’occupazione, non si osserva un miglioramento significativo nella redditività aziendale (misurata tramite il rapporto EBITDA/ricavi), e ciò suggerisce che i risparmi sui costi del lavoro non si sono tradotti in maggiori margini d per le imprese, evidenziando quindi come la produttività media si abbassi più del costo unitario del lavoro, per qu.

Si rileva, infatti, un impatto negativo sulla produttività coerente anche a quello di una diminuzione dell’intensità del capitale: il valore aggiunto per lavoratore è diminuito del 3,6% e il rapporto capitale/lavoro del 4,5%. Ciò indica che le imprese non hanno investito adeguatamente in capitale per supportare l’espansione della forza lavoro. Quest’evidenza si collega a quella di un peggioramento nella composizione della forza lavoro: crescono i lavoratori meno qualificati (+1,4%) e cadono quelli più qualificati. Questo cambiamento potrebbe spiegare in parte la riduzione della produttività; infatti, le assunzioni incentivate potrebbero aver portato a impiegare personale con competenze inferiori rispetto a quelle necessarie, distorcendo l’efficienza aziendale.

In conclusione, nonostante abbiano ridotto i costi e aumentato l’occupazione, i crediti di assunzione non hanno migliorato la redditività e hanno peggiorato la produttività e la qualità della forza lavoro. Lo studio evidenzia quindi che politiche di incentivi non mirate rischiano di compromettere la crescita a lungo termine delle imprese, se non accompagnate da investimenti in innovazione e capitale fisico ed umano.

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