La crisi pandemica non smette di porre sfide e problemi economici in rapida successione: mentre ancora ferve la discussione sulle modalità di completamento della campagna vaccinale, sugli effetti del PNRR, sull’efficacia delle misure di sostegno all’occupazione, arriva a bussare alle nostre porte l’inflazione. Un nemico che non incontravamo da almeno trent’anni, da quando, cioè, viviamo sotto l’ombrello della “Grande moderazione”: per alcuni decenni un mix di competizione internazionale sui costi, salari reali stagnanti e crescita della produttività trainata dall’innovazione tecnologica, hanno infatti consentito, a livello mondiale, una crescita senza inflazione. Questa si è accompagnata, secondo la lettura proposta da Ben Bernanke e Larry Summers, a un sistematico eccesso di risparmi sugli investimenti che ha determinato una lunga fase di “stagnazione secolare” caratterizzata, appunto, da bassa crescita e stabilità dei prezzi. È possibile che l’attuale Pandemia apra adesso una nuova epoca segnata dal ritorno dell’inflazione?
Il timore dell’inflazione è stato evocato a gennaio nei dibattiti d’oltreoceano sui possibili effetti del programma fiscale di Biden e delle politiche monetarie espansive attuate dalla FED per rispondere alla Pandemia. Una prima conferma è arrivata ad aprile dall’indice dei prezzi al consumo negli USA: come mostra il grafico l’indice ha avuto un balzo dello 0,77% su base mensile, che vuol dire un 4,2% su base annua. È il valore più alto dalla crisi finanziaria. Il grafico mostra anche che nell’area euro l’inflazione è salita dallo 0,9% di febbraio all’1,6% dell’ultima rilevazione di aprile. Ancora al di sotto del 2%, ma con una tendenza crescente che non può farci dormire sonni tranquilli.
Figura 1: Inflazione su base annua (indice dei prezzi al consumo) per US e UME
Fonte: FRED e ECB
Quali sono, dunque, le cause di questo risorgere dell’inflazione? E, soprattutto, si tratta di una turbolenza passeggera o di una tendenza duratura?
La causa scatenante dell’inflazione degli ultimi 2-3 mesi è, a nostro avviso, l’accelerazione della domanda a livello mondiale, una domanda associata al successo dei vaccini, ai piani fiscali e monetari di sostegno alle economie colpite dal virus, alla ripresa dei consumi da parte delle famiglie.
La domanda da sola non basta, tuttavia, a spiegare l’aumento dei prezzi. Il fattore concomitante e decisivo è l’esistenza di colli di bottiglia che frenano la piena riattivazione delle catene del valore e delle reti logistiche a livello mondiale. Non è tutta colpa della Pandemia: per fare solo due esempi, la giapponese Renesas, produttore mondiale di semiconduttori, in febbraio ha chiuso uno dei suoi impianti a causa di un terremoto e, in aprile, ha fermato la produzione a causa di un incendio; a marzo l’incidente della nave Ever Given nel canale di Suez ha mostrato i limiti delle interconnessioni globali, bloccando le consegne per una settimana. Questa serie di sfortunati eventi, seppure limitati e marginali, hanno generato ritardi a cascata nelle consegne, aumentando i prezzi degli input di produzione.
Almeno per ora ci troviamo di fronte a un aumento dei prezzi causato da un eccesso di domanda aggregata unito a un difetto di offerta. Basterà questo a creare una nuova stagione di inflazione?
In prima battuta possiamo dire di no. La capacità produttiva mondiale non è stata seriamente danneggiata dalla crisi. La crisi ha anzi permesso notevoli guadagni di efficienza, grazie ad una accelerazione dei processi digitali e all’abbattimento dei costi dovuti al remote-working. Tanto più che le imprese inserite nelle catene globali del valore hanno resistito nettamente meglio alla crisi e sono state più resilienti (si veda per l’Italia, l’analisi di Giglioli et al. 2021. “The Resilience of Global Value Chains during the Covid-19 pandemic: the case of Italy,” WP07/2021, Università degli Studi di Firenze).
Se, dunque, i rialzi presenti sono dovuti alla difficoltà di riattivare a pieno regime le catene logistiche mondiali o alle strategie di “recupero delle perdite” degli operatori di alcuni settori, si può pensare che gli aumenti dei prezzi siano un fenomeno temporaneo destinato presto a rientrare.
Occorre tuttavia avere alcune cautele. Affacciandosi alla finestra del medio termine ci sono alcuni fattori che potrebbero comportare una tendenza inflattiva più stabile. In primo luogo, la ripresa dell’economia mondiale comporta sicuramente un salto in avanti nella domanda di materie prime tipiche del settore high tech: si tratta del litio e del cobalto, del rame, del nichel e delle famose “terre rare” che entrano nelle batterie e nella componentistica elettronica e la cui estrazione è concentrata in pochi paesi.
A giustificare in parte le tendenze inflattive degli ultimi mesi potrebbe esserci anche l’aumento del prezzo di commodities più tradizionali come il petrolio, dovuto principalmente alle sanzioni contro il programma nucleare Iraniano e al complesso gioco diplomatico e strategico fra USA, Cina e Russia che si intreccia, inestricabilmente, anche con le vicende del conflitto arabo-israeliano.
Un terzo fattore è la svolta verso la sostenibilità ambientale che sembra sempre più probabile fra i paesi del G20. Questa svolta potrebbe comportare maggiori oneri per le imprese e, dunque, creare una spinta al rialzo dei prezzi
A fronte di questi tre fattori di rischio inflazionistico ci sono, tuttavia, altri elementi che giocano in senso contrario all’inflazione. In primo luogo la crisi occupazionale ha generato un forte shock occupazionale: l’ILO ha calcolato che nel 2020 è stato perso l’8,8% delle ore lavorate, equivalenti a circa 255 milioni di posti di lavoro: un impatto quattro volte superiore a quello della crisi del 2009, con una perdita di oltre 3.700 miliardi di euro di redditi da lavoro a livello globale (ILO, Global Wage Report 2020-21). L’aumento della disoccupazione potrebbe determinare una stagnazione dei salari, riportandoci nel mondo della Grande Moderazione e della “stagnazione secolare”, in cui i risparmi globali in eccesso sugli investimenti (favoriti da una distribuzione sempre più ineguale dei redditi e della ricchezza) continuano a frenare la crescita (si veda, Fontanari et al., “Slack in the Economy, Not Inflation, Should Be Bigger Worry”, Inet, 2021).
A ciò si aggiunga che l’aumento di efficienza legato alla digitalizzazione potrebbe favorire anche nel lungo periodo ulteriori guadagni di efficienza, frenando, l’aumento dei costi.
Nel complesso, considerando questi dati, non ci sembra che i fondamentali dell’economia reale possano giustificare un processo inflattivo sostenuto nel lungo periodo. Certo occorre valutare con attenzione, su questo scenario base, le reazioni delle autorità monetarie e dei governi. Queste potrebbero rendere rapidamente (e paradossalmente) la situazione più complicata.
Se l’inflazione nell’eurozona superasse la soglia del 2%, le autorità monetarie potrebbero decidere di invertire la direzione della politica monetaria, riducendo i programmi di acquisto e spingendo al rialzo i tassi di interesse. Ciò avrebbe conseguenze rilevanti sulla ripresa.
Anzitutto, riducendo i valori di azioni e obbligazioni, il rialzo dei tassi deprimerebbe il consumo delle famiglie risparmiatrici e la voglia di investire delle imprese, sia per il maggior costo del credito che per la riduzione del loro patrimonio netto.
In secondo luogo, un aumento dei tassi accompagnato da dismissione di titoli pubblici da parte della BCE potrebbe mettere a rischio la sostenibilità dei debiti di alcuni paesi dell’eurozona, fra cui il nostro. L’austerità diventerebbe l’unica scelta disponibile. Un’austerità di emergenza, da attuarsi in tempi rapidi, raccogliendo entrate e risparmi di spesa purché siano, onde rassicurare i mercati ed evitare l’escalation degli spread, con relativo aumento degli oneri finanziari.
Infine, sulle banche l’aumento dei tassi di interesse avrebbe effetti in parte positivi e in parte negativi: il loro margine di intermediazione probabilmente aumenterebbe, ma la svalutazione dei corsi di azioni, obbligazioni e titoli pubblici nei loro bilanci ne ridurrebbe il patrimonio mettendole sotto stress. L’effetto netto sui volumi di attività sarebbe ambiguo ma, con più probabilità, negativo e tale da creare una nuova stretta creditizia.
Il risultato complessivo sarebbe una contrazione della domanda aggregata, che farebbe morire nella culla la ripresa post-covid e ci porterebbe paradossalmente ad una “stagflazione” da anni’70: stagnazione (dovuta alla non ripresa della domanda) con inflazione (prevalentemente da offerta).
Si tratta di uno scenario credibile?
Come abbiamo anticipato, non ci sembra che i timori di inflazione debbano essere sopravvalutati e, soprattutto, che debbano indurre le autorità europee a ripetere gli errori del 2011-2012. Nuove politiche restrittive in questa fase così delicata della ripresa, soprattutto se fatte in emergenza e senza una valutazione attenta dei loro effetti distributivi, vanificherebbero almeno in parte il grande sforzo fatto in questi mesi per varare il PNRR nell’ambito del Next Generation EU. Ovviamente, crediamo che debba essere posta la massima attenzione all’evoluzione del quadro macroeconomico (anche dal lato dei costi), man mano che i piani europei ed internazionali per il sostegno alla ripresa economica producono i loro effetti. C’è da tener presente che l’aumento dei tassi si potrebbe avere indipendentemente dall’inflazione effettivamente registrata, anche solo per una inversione delle aspettative sui prezzi o per la variazione dei tassi d’interesse in altre piazze finanziarie.
In ogni caso, se un eventuale rialzo dei tassi nominali dovesse materializzarsi occorre avere nel cassetto un piano B. A livello nazionale, esso si dovrebbe concretizzare in una serie di misure volte a incrementare il gettito fiscale, senza tagliare servizi e investimenti di cui la crisi pandemica ha mostrato l’importanza. Un aumento di tassazione sui settori che hanno guadagnato maggiormente nel corso della crisi dovrebbe essere una misura da considerare, insieme ad una tassazione progressiva oltre una certa franchigia dei patrimoni mobiliari e immobiliari (che oggi godono, come certificato dalla Banca d’Italia, di un enorme vantaggio rispetto ai redditi da lavoro). Accanto a questo la BCE dovrebbe avere un piano per stabilizzare e mettere in sicurezza i debiti pubblici dei paesi dell’Unione. Anche i paesi europei dovrebbero facilitare le manovre di consolidamento dei conti pubblici, limitando gli ampi spazi di “dumping fiscale” che indeboliscono la capacità fiscale dei governi all’interno dell’Unione.
Nessuna soluzione potrebbe essere efficace, dunque, senza un forte accordo a livello Europeo che riporti al centro la costruzione della casa comune, e, in caso di ulteriori pericoli, faccia quanto è necessario per difenderne la stabilità.