ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 172/2022

19 Maggio 2022

La consultazione sulla governance economica europea: cosa emerge?

Andrea Boitani, occupandosi della consultazione lanciata dalla Commissione Europea Sulla governance economica dell’Unione e sulla sua possibile riforma, sostiene che essa ha mostrato che è abbastanza ampio il favore per una capacità fiscale centrale che realizzi investimenti in alcuni fondamentali beni pubblici mentre è più frammentata l’opinione sulla riforma delle regole fiscali, anche se è abbastanza condivisa la necessità di regole più semplici, meno dipendenti da variabili non osservabili, abbandonando obiettivi di debito e deficit uguali per tutti.

Nell’autunno del 2021, la Commissione Europea ha lanciato una consultazione pubblica sulla governance economica dell’Unione e sulla sua possibile riforma, in vista del ritorno in vigore delle “regole fiscali” dopo la loro sospensione nel marzo del 2020 a causa della pandemia da Covid-19. Entro il 31 dicembre 2021 erano arrivati 225 contributi da 25 diversi paesi, di cui perfino 4 da paesi non appartenenti alla UE.

La survey non aveva la pretesa di valere come sondaggio delle opinioni dei cittadini europei. E, in effetti, le risposte sono state perlopiù fornite da studiosi (singoli o in team), dipartimenti universitari, centri di ricerca, organizzazioni sindacali; quelle provenienti dall’Italia sono prevalenti: il 28% contro il 14% (circa) di Germania e Francia. La survey va dunque presa come un insieme di suggerimenti e proposte da parte di soggetti qualificati per istruire e aiutare le scelte politiche delle istituzioni europee (la Commissione, il Parlamento e il Consiglio) che dovranno anche tenere conto delle nuove esigenze poste dagli sviluppi bellici in Ucraina (successivi alla chiusura della consultazione). Inoltre, dalla survey era assente qualsiasi domanda circa il problema della gestione dei debiti pubblici accumulati negli scorsi decenni e notevolmente (ma asimmetricamente) accresciuti dalle misure prese per far fronte alla pandemia. Un tema su cui, inevitabilmente, si dovrà tornare.

Capacità fiscale comune e golden ruleLo scorso 28 marzo lo staff della Commissione ha pubblicato una sintesi dei principali risultati emersi dalla survey. È ampiamente condivisa (da oltre il 60% dei partecipanti) l’idea che le regole europee di finanza pubblica debbano essere riformate al fine di garantire la sostenibilità del debito pubblico e, al tempo stesso, la possibilità di stabilizzare le economie europee a fronte degli shock (sia simmetrici che asimmetrici) che le colpiscono. Oltre la metà dei partecipanti ha menzionato esplicitamente la necessità che le regole fiscali garantiscano politiche anti-cicliche efficaci. La stessa quota (e quasi l’80% dei contributi provenienti da think tank) sostiene che vi è bisogno di una capacità fiscale centrale (ovvero un bilancio comune europeo) proprio per rendere più efficace la risposta agli shock. Meno condivisa è l’idea che tale capacità fiscale debba essere garantita da grants finanziati da un indebitamento comune, sulla falsariga della Recovery and Resilence Facility (RRF), costituita per dare al continente una prospettiva di crescita sostenibile, dopo la pandemia.

Significativo che più di tre quarti dei partecipanti alla survey abbia sottolineato che l’UE ha bisogno di più investimenti per la mitigazione dei cambiamenti climatici e per favorire lo sviluppo a livello europeo di alcuni beni pubblici (EPG, per European Public Goods), come la ricerca e lo sviluppo di vaccini e in più in generale la tutela della salute, per non dire della sicurezza. Si sottolinea anche come il sistema di regole fiscali debba essere modulato in modo che tali investimenti siano salvaguardati nel corso dei processi di aggiustamento delle finanze pubbliche. Molti partecipanti fanno riferimento, a questo scopo, a una forma o l’altra di golden rule. Ma circa un terzo di essi rammenta che escludere le spese per investimenti dalle restrizioni fiscali eventualmente necessarie potrebbe spingere i governi degli stati membri a riclassificare la spesa corrente come spesa per investimenti e, quindi, a svuotare del tutto le regole, mettendo in pericolo la sostenibilità delle pubbliche finanze.

La sintesi della Commissione non menziona l’ipotesi, pure presente nel dibattito (per esempio, Truger A., 2020), di “proteggere” (escludendola dalla spesa eventualmente da ridurre) una quota predeterminata in rapporto al Pil degli investimenti (al netto degli ammortamenti) che potrebbe essere maggiore per gli investimenti che garantiscano una riduzione delle emissioni di CO2. Oltre il 50% dei partecipanti ritiene che la Recovery and Resilence Facility debba divenire un elemento permanente dello strumentario di coordinamento delle politiche economiche europee. Mi sentirei di aggiungere che oggi si avverte il bisogno di un indebitamento comune per accelerare una transizione energetica – coordinata tra tutti paesi europei- che consenta di raggiungere l’autonomia dal gas e dal petrolio russo senza ricorrere a fonti energetiche ancora più inquinanti (come il carbone) e limitando il ricorso al gas liquefatto, pur essendo impossibile azzerarlo nel breve periodo.

Si pone a questo punto un interrogativo, non affrontato esplicitamente nella survey, ma che appare rilevante. Molti invocano la capacità fiscale comune sia per obiettivi di stabilizzazione del ciclo che per rafforzare e sostenere nel tempo gli investimenti necessari a produrre beni pubblici europei, come quelli menzionati prima. Alcuni ritengono che lo stesso bilancio comune possa essere (anche) utilizzato per incentivare le “riforme” nazionali che siano state individuate in qualche accordo contrattuale tra l’Unione e i singoli stati. Ovvio si ponga un problema di dimensione del bilancio comune “polifunzionale” e del suo finanziamento, dato che oggi una tassazione a base europea, adeguata alle dimensioni di un bilancio comune “grande”, non sembra alle viste, nonostante le proposte dei cittadini europei raccolte nel documento “Draft Proposals of the Conference on the future of Europe” (Astridonline, 27/4/2022).

Ma i problemi della dimensione e del finanziamento rimandano a un problema politico: quello della condivisione di sovranità e di spostamento di poteri dai governi nazionali al “governo comunitario”, le cui basi istituzionali e di responsabilità democratica dovrebbero essere rafforzate. Ci si potrebbe, dunque, chiedere quale obiettivo affidare prioritariamente alla (limitata) capacità fiscale comune che si riuscisse a costituire. È probabile che non si sbagli chi dice che “l’opzione più proficua nell’attuale congiuntura sembra essere rappresentata dagli investimenti in EPG… Un’opzione del genere porterebbe a un’estensione della configurazione già definita del RRF, aggiungendo salute e sicurezza alle aree strategiche della spesa pubblica” (M. Buti, M. Messori, “Il ruolo della capacità fiscale centrale nel legare l’agenda interna e l’agenda internazionale della UE”, Astrid Rassegna, n. 7/2022). Non va però dimenticato che affidare una parte significativa dei compiti di stabilizzazione a una capacità fiscale centrale aiuterebbe a rendere meno politicamente complicato il controllo sulle dinamiche di bilancio dei singoli paesi mediante un sia pur riformato sistema di regole. Se venisse scelta la strada suggerita da Buti e Messori per definire i compiti del bilancio comune bisognerebbe tenerne conto nel definire le (nuove) regole fiscali.

Il tema delle regole fiscali. Le regole fiscali europee erano nate, col Trattato di Maastricht (1992), essenzialmente con l’obiettivo di mettere al riparo l’Unione Economica e Monetaria dall’instabilità finanziaria dovuta al debito (pubblico) eccessivo di uno o più paesi sui partner e soprattutto per evitare pressioni sulla Banca Centrale Europea per monetizzare il debito di questo o quel paese e segnatamente dell’Italia, che già allora aveva un debito superiore al 100% del Pil e il cui eventuale default, trattandosi di un paese ‘grande’, avrebbe causato (e ancora causerebbe) un terremoto finanziario e quindi economico in tutta l’Unione. La maggior parte dei partecipanti alla survey si dice convinta che le regole fiscali debbano essere riportate all’obiettivo primario di garantire la sostenibilità del debito. Sulla necessità di obiettivi numerici e uguali per tutti il panel dei rispondenti alla survey appare diviso. Circa la metà suggerisce target di debito specifici per ciascun paese e sentieri di riduzione del debito, dove necessario, anch’essi specifici, ma soprattutto graduali e coerenti col mantenimento di una crescita economica sostenuta. Solo un decimo dei partecipanti accoglie la proposta di abbandonare obiettivi e regole numeriche pre-definite e di ricorrere a procedure di aggiustamento concordate con i paesi che presentino significativi rischi di insostenibilità del debito. Trattandosi dell’opzione suggerita su queste pagine (Menabò, n. 164, 2022) e nella stessa survey da chi scrive e da Roberto Tamborini sulla scia di Blanchard, Leandro, Zettelmeyer (“Redesigning EU fiscal rules: from rules to standards”, Economic Policy, April 2021, 195-236), non possiamo che prendere atto di essere (solo su questo punto, però) in minoranza.

Sulla necessità di semplificare le regole e renderle più trasparenti ed effettivamente operabili, invece, si registra un consenso che supera il 60% dei partecipanti. Ma solo un terzo riconosce che le vecchie regole erano complicate e opache perché si basavano indicatori volatili e non osservabili e, perciò, al di fuori del controllo dei governi, come il Pil potenziale e l’output gap. Circa un terzo dei partecipanti sostiene che è necessario rivedere l’attuale attenzione per gli aggiustamenti fiscali di breve periodo, anno per anno, a favore di una prospettiva basata su obiettivi e percorsi pluriennali, oltre che – come già detto – tarati paese per paese. Sempre un terzo dei partecipanti suggerisce di sostituire l’attuale complesso sistema di regole con una semplice regola sulla spesa, ancorata a obiettivi di debito specifici per ogni paese. Il principale vantaggio di una regola sulla spesa. Oltre ad essere “naturalmente” anti-ciclica, tale regola presenta il vantaggio che tutte le spese a cui si riferisce – così come le misure discrezionali riguardanti le entrate – sono direttamente sotto il controllo dei governi e dei Parlamenti e sono facili da comunicare, diversamente dalle regole basate sui deficit aggiustati per il ciclo che richiedono spiegazioni complesse e, inoltre, soffrono dei problemi di osservabilità e misurazione delle variabili cruciali di cui s’è detto.

In conclusione, la survey della Commissione dimostra che esiste, almeno tra coloro che possiamo chiamare gli addetti ai lavori, un certo consenso verso una riforma delle regole fiscali e anche verso la costituzione di una capacità fiscale centrale. Due note di cautela sono necessarie. In primo luogo, anche tra gli addetti ai lavori quel consenso non è unanime ed è nota la resistenza (a volte silenziosa) di molti economisti, specialmente in Germania, Olanda e altri paesi del Nord a qualsiasi riforma che venga vista come un allentamento della disciplina fiscale. In secondo luogo, non è ancora chiaro come si disponga il fronte politico e dei paesi membri. Mentre è piuttosto evidente, tra i “grandi”, il favore del governo italiano, di quello spagnolo e del riconfermato presidente francese verso una riforma non di facciata della governance fiscale, il governo tedesco non ha ancora preso una posizione netta. Se il Ministro delle Finanze Lindner (FDP), da un lato, ammette che l’assetto delle regole deve lasciare margini per investire nel futuro economico dell’Europa, dall’altro afferma che un cambiamento del Patto di stabilità non sarebbe necessariamente un miglioramento. Cruciale sarà la posizione che prenderà il cancelliere Scholz, il quale lo scorso autunno si era espresso a favore del mantenimento delle soglie uniformi del 60% per il rapporto tra debito e Pil e del 3% per il rapporto tra deficit e Pil e aveva speso parole di apprezzamento per il vecchio Patto di stabilità. La crisi ucraina porterà Scholz a un ripensamento? Lo vedremo.

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