La crisi e l’Europa. Un’opportunità per uscire dall’impasse?*

Francesco Saraceno parte dalla considerazione che nel dibattito sull’euro e le politiche economiche dominano due posizioni apparentemente antitetiche: a chi difende la situazione attuale e sostiene che le istituzioni europee hanno bisogno soltanto di aggiustamenti marginali si contrappone chi auspica il ritorno alla sovranità nazionale. Saraceno ritiene che, malgrado le apparenze, le due posizioni condividono l’idea di fondo che l’euro sia irriformabile, un’idea che considera sbagliata perché non è inevitabile l’identificazione dell’euro con il liberismo.

La crisi finanziaria globale iniziata nel 2007 e il “decennio perduto” dell’Unione europea seguito alla crisi del debito sovrano hanno evidenziato molti dei difetti di costruzione della nostra casa comune, in particolar modo della moneta unica. Incalzati dagli eventi seguiti alla rivelazione della quasi insolvenza del governo greco, i dirigenti europei fin dal 2010 hanno introdotto una serie di modifiche alle istituzioni comunitarie nel tentativo di rafforzare l’Unione e la sua capacità di assorbire gli shock: basti citare le riforme dei meccanismi di sorveglianza di bilancio, come il Fiscal Compact, i Six e Two pack, o anche i tentativi di rafforzare la stabilità finanziaria mediante l’Unione bancaria; si tratta di riforme a volte incomplete e che non sembrano rispondere alle fragilità evidenziate dalla crisi del debito sovrano. Non è un caso che nel marzo scorso, appena sono diventate chiare le dimensioni della crisi del Covid, la Commissione si è affrettata a sospendere le regole di bilancio. Le riforme degli anni scorsi hanno tuttavia provato che nulla è scolpito nella pietra: se esiste la volontà politica, l’architettura istituzionale dell’Unione può essere riformata, e anche piuttosto rapidamente.

Tuttavia, una volta che tra il 2012 e il 2015 Mario Draghi ha messo in sicurezza l’euro con il whatever it takes e con i programmi di acquisti di titoli, il processo di riforma è andato in stallo; più di prima, la maggior parte dei governi ha affrontato le discussioni in sede europea con la sola bussola dell’interesse nazionale e un mix tra nazionalismo e populismo sembra essere la strategia adottata anche da partiti cosiddetti “moderati”. La crisi del Covid-19 e le divisioni sulla forma da dare alla risposta europea, hanno ulteriormente soffiato sul fuoco delle divisioni.

La crisi del debito sovrano ha polarizzato il dibattito su Europa e politiche economiche attorno a due posizioni contrapposte. Da un lato, coloro che difendono lo status quo. Questi affermano sostanzialmente che le istituzioni che l’Europa (e in particolare la zona euro) si è data negli anni Novanta necessitano solo di aggiustamenti marginali, per ovviare alle deficienze evidenziate dalla crisi; ma che le basi concettuali della costruzione europea e la teoria economica che la sottende, non necessitano di particolari revisioni. Certo, le crisi del debito sovrano e soprattutto del coronavirus sono state particolarmente violente, a livello globale come a livello europeo; ma non c’è ragione per rimettere in questione l’enfasi sul funzionamento dei mercati (sia pure regolati) come predominante rispetto a qualunque altra istituzione che possa governare l’andamento dell’economia e tenerla vicina al pieno impiego.

La violenza della crisi del debito sovrano e l’esasperante lentezza della ripresa che ne è seguita, secondo questa prospettiva, non devono essere attribuiti all’adesione a una teoria economica inadeguata, che ha influenzato istituzioni e politiche europee negli scorsi anni, quanto piuttosto all’ostinato rifiuto di alcuni Paesi (principalmente del Sud del continente, la cosiddetta “periferia” economica dell’Eurozona) di adeguare le proprie strutture economiche ai dettami del paradigma dominante. Nemmeno la crisi del Covid-19 cambia sostanzialmente le cose. Il virus è “esogeno”, esterno al sistema, e difficilmente imputabile al comportamento di qualche governo spendaccione del Sud. Ma chi aderisce a questa visione sottolineava, già durante l’emergenza, come fosse necessario un ritorno rapido ai sani principî della frugalità pubblica non appena passata la fase acuta della crisi. A questa difesa dello status quo si contrappone la visione euroscettica che sostiene la necessità di recuperare la sovranità nazionale. Alcuni partono da una critica del paradigma dominante e predicano la necessità di regolare l’economia tramite le politiche pubbliche, cosa che l’Europa intrinsecamente “liberista” non può fare. Altri, pur denunciando le politiche che le élite ci impongono, sono meno chiari su cosa farebbero di diverso una volta recuperata la sovranità economica.

Il paradosso è che prospettive così antitetiche in realtà prendono le mosse da una stessa premessa vale a dire che l’Europa, e l’euro sono irriformabili. La moneta unica, in particolare, o è così o non è. Entrambe le analisi rigettano insomma l’idea che nel quadro europeo si possano attuare politiche diverse, concepire altre istituzioni. There Is No Alternative, per riprendere l’espressione coniata negli anni Ottanta da Margaret Thatcher per giustificare la svolta neoliberale impressa al Regno Unito. Entrambi i campi ritengono che le politiche seguite dal 2010 ad oggi (una combinazione più o meno accentuata di austerità e di riforme strutturali) fossero inevitabili: l’uno perché convinto che fossero le politiche più appropriate; l’altro perché argomenta che una volta accettata “la gabbia dell’euro”, non si potesse fare altrimenti. Ed entrambi ritengono che sarà inevitabile, una volta che ci saremo messa alle spalle la crisi del Covid-19, un ritorno alla disciplina di bilancio: l’Europa non è concepita per funzionare diversamente. Gli estremi si sono quindi toccati, e l’equazione euro uguale liberismo si è insediata nel dibattito pubblico come un’evidenza.

È certamente vero, come sostengono molti euroscettici, che la moneta unica in Europa si è costruita mettendo l’accento quasi esclusivamente sugli aggiustamenti di mercato e su vincoli stringenti all’azione delle politiche monetarie e di bilancio. Non è vero però che questo è il corollario inevitabile dell’adozione di una valuta comune. Nulla, nella cosiddetta teoria delle aree monetarie ottimali, spinge all’esclusiva enfasi sui mercati per garantire la stabilità macroeconomica di un’area monetaria. L’impianto neoliberale dell’euro deve, piuttosto, essere fatto risalire all’ambiente intellettuale che dominava negli anni Novanta, quando furono scritte le “regole del gioco” dell’euro. Il testo fondante della moneta unica, il trattato di Maastricht del 1992, fu discusso e approvato nel momento in cui in macroeconomia si consolidava il “Nuovo Consenso” che emergeva dalla turbolenza teorica degli anni Settanta e Ottanta, recuperando e attualizzando il sistema di pensiero neoclassico sviluppatosi a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo.

L’identificazione tra euro e liberismo non è quindi inevitabile; per un europeista accettarla equivale a perdere la battaglia delle idee. Se si accetta la premessa per cui l’euro non può essere diverso da come è stato fino ad oggi, la difesa del processo di integrazione risulta fortemente indebolita e può solo appellarsi alla paura: uscire costerebbe troppo, lascerebbe i piccoli Paesi indifesi, e così via. L’argomento europeista viene ciclicamente proposto come “il meno peggio” rispetto alle confuse esperienze di governo sovraniste, ammettendo implicitamente che il progetto europeo porta più costi che benefici. La debole, debolissima linea del Piave diventa allora l’affermazione, purtroppo molto comune, per cui “l’euro non si doveva fare, ma ora tornare indietro sarebbe una catastrofe”.

Qualche tempo fa ho avuto modo di rileggere un folgorante testo di John Maynard Keynes, “Le prospettive economiche per i nostri nipoti”. In quel saggio del 1930, ancora oggi attualissimo, l’economista di Cambridge si scaglia contro gli “opposti conservatorismi” di reazionari e rivoluzionari: “Voglio affermare, infatti, che entrambi i contrapposti errori di pessimismo, che sollevano oggi tanto rumore nel mondo, si dimostreranno errati nel corso della nostra stessa generazione: il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento; e il pessimismo dei reazionari i quali ritengono che l’equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti” (Keynes, J.M. (2019) Prosperità. Milano: Chiarelettere, p. 6).

La moderna “solitudine del riformista”, espressione coniata negli anni Ottanta dal compianto Federico Caffè, ricalca perfettamente i termini del dibattito europeo di questi anni; chi pensava che fosse possibile cambiare politiche economiche e istituzioni pur rimanendo nell’ambito della moneta unica è rimasto sostanzialmente schiacciato tra eurocrati (il lettore perdonerà l’uso semplicistico di un termine abusato) e sovranisti, diventando praticamente invisibile nel dibattito politico e accademico. Qualunque proposta di riforma istituzionale che non sia incentrata sulla supremazia degli aggiustamenti di mercato è stata bollata da una parte come vetero interventismo keynesiano e, dall’altra, come velleitaria al cospetto dei poteri forti che impongono il giogo liberista. Tuttavia, non è stato certo l’euro ad impedire fin dal 2010 un’espansione di bilancio in Germania, dove per anni i governi guidati da Angela Merkel hanno resistito ai quotidiani e unanimi appelli che venivano da ogni parte, cedendo – infine! – solo di fronte agli sconvolgimenti senza precedenti del coronavirus. Non è stato certo l’euro che ha imposto una lettura ideologica ed erronea della crisi greca come determinata dal debito pubblico di alcuni Paesi “dissoluti”. Non è stato certo l’euro che ha imposto le sciagurate politiche che ci hanno regalato nel 2012 una seconda recessione dopo quella del 2008, “privilegio” che la zona euro non ha condiviso con nessun’altra grande economia,. E non è certo l’euro ad aver riproposto, in occasione dei negoziati sul Fondo per la Ripresa, le antiche divisioni tra “frugali” e “dissoluti”. È possibile se non doveroso, criticare severamente la quasi totalità delle scelte di politica economica europea dagli anni Novanta ad oggi. Occorre però farlo senza accettare l’identità tra euro e liberismo che ha ingabbiato il dibattito europeo soprattutto nell’ultimo decennio.

La crisi del debito sovrano ha mostrato tutti i limiti dell’”Europa dei mercati”, in cui la mano pubblica ha un ruolo limitatissimo nel garantire crescita e convergenza. Eppure, anche paesi come gli Stati Uniti stanno lì a dimostrarlo, una certa dose di “condivisione del rischio”, di solidarietà tra paesi, è necessaria per stabilizzare l’economia. Senza spingersi fino a preconizzare gli Stati Uniti d’Europa, oggi poco più che una chimera, occorre riflettere su meccanismi che impediscano la divergenza in caso di crisi. Se ne possono concepire diversi, da un sussidio europeo di disoccupazione a un bilancio comune dell’eurozona, o ancora a un’assicurazione europea dei depositi bancarie. In molti casi esistono proposte operative, avanzate dalla Commissione, che fino ad oggi sono rimaste lettera morta per mancanza di spazio politico. Ma con la crisi del coronavirus le cose potrebbero essere cambiate.

Si cita spesso la frase di Jean Monnet per cui l’Europa si sarebbe fatta nelle crisi. Negli anni scorsi in molti abbiamo pensato, mentre la Grecia affondava e l’euro traballava, che questo non fosse più vero. Eppure, forse, la gestione catastrofica della crisi del debito sovrano ha marcato le élite europee, che in occasione della crisi del Covid hanno abbandonato ogni cautela. Da un lato i governi nazionali, compresa l’austera Germania, hanno allargato i cordoni della borsa come mai prima in tempo di pace, abbandonando il dogma di disciplina di bilancio. Dall’altro, con il Fondo per la Ripresa l’Unione europea si è dotata per la prima volta di debito congiunto e di uno strumento comune di politica di bilancio. Certo, siamo molto lontani da una politica di bilancio comune: la mutualizzazione del debito è parziale, lo strumento è temporaneo, i fondi non saranno spesi a livello europeo ma trasferiti agli Stati membri e, infine, le condizionalità rischiano di limitarne di molto l’efficacia. Ma se il Fondo manterrà la sua promessa di rilanciare la crescita (cosa tutta da dimostrare) e di avviare l’economia europea sul sentiero di un’economia sostenibile, esso potrà rappresentare una base su cui costruire una vera politica di bilancio europea, necessaria per dissipare una volta per tutte l’identificazione tra euro e politiche neoliberali che nutre ovunque i movimenti euroscettici.

*Questo testo rielabora alcune delle tesi presentate in la La Riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela, Luiss University Press, settembre 2020.

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