A partire dalla crisi economica del 2008/2009, i giovani continuano ad attraversare periodi bui. La disoccupazione giovanile in Italia a fine 2021 era al 29.8%, la quarta più alta in Europa. D’altro canto, i giovani che non lavorano, non studiano e non fanno parte di percorsi formativi, i cosiddetti NEET, nel 2020 superavano i 2 milioni, rappresentando oltre il 25% della popolazione giovanile. Tutto ciò ha portato a parlare di un’emergenza NEET e di urgenza nell’implementare nuove politiche. Tuttavia, anche quando questi entrano sul mercato del lavoro, spesso iniziano la loro carriera con un contratto a tempo determinato che, se da un lato potrebbe aprire le porte verso una transizione al permanente, spesso si rivela una trappola che forza i giovani a lunghi periodi di incertezza lavorativa con conseguenze importanti sulle decisioni di consumo e fertilità. Stabilire i requisiti dei contratti a tempo determinato in modo da favorire una naturale transizione verso il permanente, diventa pertanto fondamentale per supportare i giovani nella loro progressione di carriera. Le riforme del mercato del lavoro spagnolo e le conseguenti evidenze sulla crescita dei contratti stabili, portate alla ribalta anche nelle pagine dei nostri giornali in queste ultime settimane, confermano l’importanza di analizzare approfonditamente le conseguenze dei requisiti dei contratti a termine.
Quanto conta la flessibilità dei contratti a tempo determinato per la stabilizzazione delle carriere giovanili? In un nostro recente lavoro, proviamo a quantificare l’impatto del cambio di regolamentazione dei contratti a tempo determinato dovuto all’introduzione del Decreto Poletti, approvato il 21 marzo 2014. Il Decreto Poletti ha rimosso la necessità di una causale per qualsiasi contratto a tempo determinato, indipendentemente dalla sua durata, oltre ad avere esteso il numero massimo di proroghe da 1 a 5 all’interno della durata massima di 36 mesi. Il Decreto intendeva facilitare l’utilizzazione dei contratti a tempo determinato, riconoscendo la forte esigenza di flessibilità in un momento di elevata incertezza. Sfruttando l’introduzione di incentivi alla stabilizzazione di tali contratti, come previsti dalla Legge di Bilancio 2015 e dal Jobs Act, entrato in vigore a marzo 2015, nella nostra analisi mostriamo come il Decreto Poletti abbia influenzato la propensione delle imprese a stabilizzare i contratti temporanei. L’aumento della flessibilità dei contratti a tempo determinato, introdotta proprio col decreto Poletti, ha rallentato il processo di stabilizzazione dei nuovi entrati nel mercato del lavoro, influenzando negativamente la loro progressione di carriera e i loro salari nel medio periodo.
I giovani. Nella nostra analisi selezioniamo un gruppo di lavoratori entrati per la prima volta nel mercato del lavoro e assunti con un contratto a tempo determinato nei primi 5 mesi del 2014. Coloro che sono stati assunti tra il 1° gennaio 2014 e il 21 marzo 2014 rappresentano, in un ideale esperimento, il gruppo di controllo, in quanto sono stati assunti con un contratto a tempo determinato regolato dalla precedente legislazione (Riforma Fornero). Gli assunti tra il 21 marzo 2014 e il 31 maggio 2014 rappresentano invece, quello che si può definire un gruppo di trattamento, cioè coloro che sono stati assunti per la prima volta (con un contratto a tempo determinato) ma con le nuove e più flessibili regole istituite dal Decreto Poletti. Come i nostri dati confermano, questi due gruppi di lavoratori si assomigliano molto: si tratta di lavoratori giovani, con un primo contratto a tempo determinato nel 2014; l’unica cosa che li distingue è l’ingresso nel mercato a pochi mesi di distanza. Seguiamo la carriera di questi lavoratori per due anni, fino a fine 2015, poiché in questo periodo entrambi i gruppi di lavoratori sono soggetti a due importanti interventi di policy: la Legge di Bilancio 2015, che prevede la totale decontribuzione per 3 anni per le imprese che trasformano i lavoratori da tempo determinato a permanente (Gennaio 2015) e l’implementazione del Jobs Act, con l’introduzione di un nuovo contratto permanente a tutele crescenti (Marzo 2015). Per ogni mese, da giugno 2014, calcoliamo come varia la probabilità di stabilizzazione per i due gruppi di lavoratori. I nostri risultati dimostrano che, a parità di altre caratteristiche, la probabilità di trasformazione del contratto per i lavoratori del secondo gruppo è simile alla probabilità per il primo gruppo e costantemente inferiore fino all’inizio del 2015 di un solo punto percentuale. Nel periodo successivo, decontribuzione e Jobs Act portano ad un tasso di trasformazione complessivo più elevato, tuttavia, la differenza nella probabilità di stabilizzazione tra i due gruppi cresce fino al 12% restando significativamente più alta per tutto il periodo considerato nell’esperimento. Ne segue che, essere entrati nel mercato del lavoro con un contratto soggetto alla regolamentazione della riforma Poletti, più flessibile, si è rivelato molto svantaggioso per i giovani lavoratori. L’effetto è particolarmente forte tra le donne, e tra i lavoratori con un più basso livello di istruzione. Inoltre, l’effetto è maggiore tra i lavoratori assunti da imprese meno produttive, localizzate soprattutto nel Centro e Sud Italia. Questo risultato riflette un utilizzo strategico da parte di imprese, spesso di sussistenza, che tendono a servirsi dei contratti a tempo determinato come mera strategia per ridurre i costi, piuttosto che come strumento di screening per l’ingresso dei nuovi lavoratori.
Gli effetti di medio periodo. La nostra analisi prosegue analizzando come la più bassa probabilità di accedere a un contratto permanente possa avere conseguenze sui salari nel medio periodo. Le nostre stime dimostrano che i giovani entrati con un contratto Poletti, avendo una probabilità relativamente più bassa di stabilizzazione, guadagnano, dopo un anno, in media salari inferiori del 30% e di oltre il 25% dopo due anni. Vi possono essere diverse ragioni per questa penalizzazione salariale, ad esempio la minore accumulazione di capitale umano durante il percorso lavorativo, dovuta a minori investimenti in formazione da parte delle imprese che impiegano lavoratori temporanei; vi sono d’altro canto, effetti positivi per quei lavoratori con contratti meno flessibili, stabilizzati, che arrivano in anticipo a lavorare in imprese più produttive. Infine, va considerata la relazione negativa esistente tra la probabilità di trasformazione del contratto e il tempo trascorso con un contratto a tempo determinato: tale relazione può influenzare indirettamente i salari dei lavoratori trattati dalla riforma.
In conclusione. La nostra analisi mostra come il grado di flessibilità dei contratti a tempo determinato possa avere un effetto importante sulla probabilità di stabilizzazione, dando luogo a percorsi molto eterogenei che penalizzano le carriere lavorative dei giovani, che sono assunti prevalentemente con questo tipo di contratto. La giusta scelta dei requisiti appropriati per favorire una naturale progressione di carriera verso il permanente diventa pertanto un elemento di estrema importanza per tutelare i giovani. Questo elemento è da tenere presente nella prospettiva di nuove riforme del mercato del lavoro, soprattutto nel contesto italiano in cui si osserva una forte segmentazione tra temporanei e permanenti, e considerando il crescente utilizzo di tali contratti in questo periodo post-pandemico.
*Questo articolo esce in contemporanea su lavoce.info. Le opinioni in esso contenute sono esclusivamente degli autori e non riflettono necessariamente quelle dell’INPS.