La flessibilità dell’età pensionabile: una soluzione a portata di mano che si stenta a riconoscere

Michele Raitano discute di flessibilità dell’età pensionabile, un tema che in queste settimane sta tornando al centro del dibattito italiano di politica economica. Dopo aver sottolineato che le misure introdotte negli ultimi anni sono temporanee e tutelano gruppi limitati di individui, Raitano chiarisce che l’introduzione di forme di pensionamento flessibile accompagnato da una riduzione attuariale sulla quota di pensione retributiva darebbe un’opportunità a tutti i lavoratori senza conseguenze rilevanti sull’equilibrio dei conti pubblici.

Puntuale come l’alternarsi delle stagioni, in Italia si torna a parlare di riforma delle pensioni, in particolare di revisione dei requisiti di accesso al pensionamento.

Dal gennaio di quest’anno è infatti attiva una Commissione tecnica interministeriale che, di concerto con le parti sociali, ha il compito di valutare se e come intervenire in ambito previdenziale. Sulla base delle indiscrezioni fornite dalla stampa in queste settimane, questa Commissione, i cui lavori nei mesi scorsi sono stati inevitabilmente rallentati dall’emergenza Covid, sta ragionando, fra le altre cose, sull’opportunità di definire nuove regole che – in sostituzione di “Quota 100” che va a scadenza nel 2021 – possano consentire ad alcuni gruppi di individui di pensionarsi prima del raggiungimento dei requisiti stabiliti dalla “riforma Fornero” del 2011 (che, si ricordi, in base a una norma introdotta nel 2009 sono legati alle variazioni dell’aspettativa di vita media della popolazione italiana).

Come noto, anche in seguito alla vicenda dei lavoratori “esodati”, sin dall’entrata in vigore della riforma prese avvio un aspro dibattito sull’opportunità di reintrodurre la possibilità di pensionarsi a età o anzianità meno elevate di quelle fissate dalla riforma Fornero e si sottolineò da più parti non solo la loro altezza, ma anche la rigidità dei requisiti per il pensionamento introdotti nel 2011. Con l’eccezione della limitata platea degli addetti a mansioni usuranti, tali requisiti non tengono infatti conto delle eterogenee condizioni di lavoro e salute degli individui e di loro eventuali vincoli familiari.

Oltre che con molteplici provvedimenti di salvaguardia degli “esodati”, i Governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno cercato di reintrodurre forme di flessibilità nelle condizioni di accesso al pensionamento attraverso vari strumenti, nessuno dei quali, però, rappresenta una misura strutturale indirizzata all’intera platea di lavoratori. Con l’eccezione dell’APE volontaria, questi strumenti riguardano, infatti, platee relativamente ristrette di beneficiari – e la stessa definizione dei beneficiari non appare sempre motivata da criteri condivisibili di equità ed efficienza – e, al contempo, con l’eccezione delle norme per i “precoci”, sono stati introdotti per un periodo di tempo limitato, così accentuando le disparità fra chi ne ha o non ne ha potuto usufruire.

Ricapitolando sinteticamente, come regola generale, nel 2020 ci si può pensionare per vecchiaia al compimento dei 67 anni. In alternativa si può ricevere una pensione anticipata qualora si siano raggiunti 42 anni e 10 mesi di contribuzione (41 e 10 mesi per le donne). Sono però previste alcune eccezioni, la più discussa delle quali è Quota 100 che, introdotta dal “Governo gialloverde” nel 2018, offre, fino al 2021, la possibilità di pensionarsi quando si raggiungono i 62 anni di età con almeno 38 di contribuzione.

Altre deroghe alla regola generale sono previste: per i lavoratori precoci (coloro che hanno svolto almeno 12 mesi di lavoro prima del compimento dei 19 anni d’età), che possono ritirarsi con 41 anni di anzianità contributiva; per le donne, che possono ritirarsi a 58 anni (59 se autonome) con 35 di contributi se optano per un ricalcolo della pensione basato interamente sul, generalmente meno favorevole, metodo contributivo (la cosiddetta “opzione donna); per alcune categorie di persone svantaggiate – disoccupati di lunga durata, invalidi, caregiver, o addetti a quindici specifiche mansioni ritenute gravose – che, mediante la cosiddetta “APE sociale”, possono ritirarsi, senza penalizzazione nell’importo della pensione, a partire dai 63 anni età con 30 di contribuzione (36 se occupati in mansioni gravose). Gli addetti a una specifica lista di mansioni “usuranti o notturne” possono invece pensionarsi con 61 anni e 7 mesi di età e 35 di contribuzione. Fino al 2019 era poi offerta a tutti i lavoratori la possibilità di ritirarsi, a partire dai 63 anni d’età con almeno 20 di contribuzione, mediante l’APE volontaria, ovvero ricevendo da una banca un anticipo di parte dell’importo della pensione da rimborsare a rate durante il pensionamento.

Come evidente da questa sintesi, si tratta di un insieme di misure eterogeneo nella definizione della platea dei beneficiari e incapace di risolvere in modo permanente il problema di come offrire un’opzione di scelta a chi volesse ritirarsi prima di aver raggiunto i requisiti elevati (e crescenti nel tempo) stabiliti dalla riforma del 2011, senza al contempo aggravare i conti pubblici.

Da una parte, mentre alcune di queste misure (in primis l’APE sociale e le norme per gli “usuranti”) cercano di tutelare selettivamente le categorie di individui ritenute maggiormente bisognose, altre, in primis Quota 100, beneficiano tutti coloro che rispettano i requisiti di anzianità, indipendentemente dalle condizioni socio-economiche, finendo generalmente per avvantaggiare persone non particolarmente bisognose, poiché l’elevata anzianità contributiva richiesta tutela principalmente chi ha avuto vite lavorative relativamente continue.

Dall’altra parte, con l’eccezione dell’APE volontaria – che scaricava sui beneficiari il costo del pensionamento anticipato e parte dei costi di erogazione del prestito bancario – e di opzione donna – basata sul metodo contributivo – tutte queste misure comportano un esborso per il bilancio pubblico, sia in termini di cassa che di competenza. Per quanto riguarda il bilancio di cassa, ogni forma di pensionamento anticipato genera, infatti, un anticipo della spesa per pensioni erogate ai beneficiari (tralasciando eventuali variazioni delle entrate contributive). In termini di competenza, in assenza di una correzione attuariale dell’importo della pensione in base alla durata della sua erogazione (come nel contributivo), il pensionamento anticipato accresce l’ammontare complessivo che verrà erogato ai beneficiari (e agli eredi) nel corso della loro vita.

Ma è allora possibile, con questi vincoli, dare risposta alla domanda di flessibilità nel pensionamento senza al contempo gravare sul bilancio pubblico? Stando alle indiscrezioni di stampa, il Governo non sembra averla trovata dato che per superare Quota 100 – in scadenza fra poco più di 12 mesi – si pensa a uno strumento basato sullo stesso impianto, ma con requisiti più stringenti per ridurne l’impatto sul bilancio pubblico: si tratta della cosiddetta “Quota 102”, che consentirebbe un ritiro anticipato dai 64 anni con 38 di contribuzione, eventualmente accompagnata da una lieve riduzione dell’importo della prestazione. Quota 102, seppur meno costosa per il bilancio pubblico, presenta gli stessi limiti di Quota 100. A causa dei requisiti di età e, soprattutto, di anzianità molto elevati non risponderebbe alla domanda di flessibilità di chi (in primis donne), in virtù di una carriera meno favorevole (magari trascorsa in parte nel sommerso), non riesce a raggiungere i 38 anni di contribuzione. In altri termini, gli individui relativamente più bisognosi, già non tutelati da Quota 100 (con l’eccezione dei disoccupati anziani con lunga contribuzione che non erano riusciti a rispettare i requisiti previsti nei provvedimenti per gli esodati e per l’APE sociale) non sarebbero tutelati neanche da Quota 102.

Il dibattito sulle “quote” appare in realtà molto miope e viziato dalla mancata comprensione delle potenzialità del metodo contributivo, che è ormai la base di calcolo della maggior parte della prestazione delle coorti di individui vicine al pensionamento (chi nel 1995 aveva accumulato meno di 18 anni di contribuzione riceve, infatti, nel sistema misto una pensione contributiva per gli anni successivi al 1996).

Per dare una risposta definitiva e organica all’oggettiva esigenza di allentare i vincoli troppo rigidi ed uniformi della riforma Fornero si potrebbe permettere, a partire da una determinata età (ad esempio 62 o 63 anni e solo nel caso in cui la prestazione che si riceve non dia diritto a integrazioni di assistenza sociale), di ritirarsi ma con una riduzione della sola quota retributiva della pensione che compensi, in modo attuarialmente equo, il vantaggio della sua percezione per un numero maggiore di anni (non occorre correggere la parte contributiva della pensione che già risente dei meccanismi attuariali che legano l’importo all’età di ritiro). Per rispettare l’equilibrio intertemporale del bilancio previdenziale – ovvero per non aggravare il bilancio “per competenza” – si dovrebbe, dunque, seguire un principio di equivalenza attuariale e prevedere una riduzione all’incirca del 3,2% della prestazione erogata (come verificabile osservando la variazione dei coefficienti di trasformazione del contributivo da un’età all’altra) per ogni anno di anticipo rispetto all’età legale. Ad esempio, se la pensione fosse per il 40% retributiva, la perdita per il ritiro a 63 anni sarebbe pari a circa il 5% dell’importo della prestazione maturata fino a quel momento.

Se ben definita, una misura di questo tipo offrirebbe un’opportunità in più a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro carriera pregressa, senza problemi per il bilancio pubblico nel lungo periodo. Rimarrebbero due principali criticità: l’impatto sul bilancio pubblico di breve periodo (“di cassa”) dovuto al più elevato flusso di uscite nell’immediato e l’esigenza di tutelare in modo selettivo (e senza penalizzazioni dell’importo) i più svantaggiati.

La prima criticità è, a mio avviso, enormemente sovrastimata a causa della tendenza a ipotizzare, anche nelle stime ufficiali di finanza pubblica, che tutti si ritirino appena raggiunti i requisiti minimi. Ma è plausibile che non sia così. Trattandosi di un comportamento ancora non osservato, non possiamo avere certezze. Potrebbe, quindi, essere utile un’indagine campionaria per verificare le propensioni dei lavoratori anziani, anche se le scelte degli occupati italiani negli anni più recenti inducono a ritenere che, con buona probabilità, al pensionamento anticipato farebbe ricorso quasi soltanto chi, per vincoli o preferenze, non può farne a meno, malgrado la penalizzazione monetaria.

Alcuni dati sembrano corroborare questa ipotesi. Quota 100 – pur non prevedendo alcuna penalizzazione dell’importo ma solo una riduzione della pensione potenziale rispetto a quella percepibile all’età legale di pensionamento –  è stata finora richiesta da poco più di 200.000 individui (1/3 dei quali disoccupati) a fronte di oltre 600.000 domande stimate dal DEF per il biennio 2019-2020 (il minor numero di domande ha infatti consentito un risparmio cospicuo delle somme messe a bilancio). L’APE volontaria, che offriva la possibilità di pensionarsi in cambio di una penalizzazione monetaria (anche se maggiore di quella qui immaginata, a causa dei costi di funzionamento bancari), è stata richiesta nei 30 mesi di attivazione da poco più di 30.000 individui, mentre “opzione donna”, che, basandosi su un ricalcolo contributivo, genera per chi sta nel sistema misto effetti simili alla penalizzazione sulla quota retributiva, ha interessato nel 2019 circa 18.000 lavoratrici.

In tutta probabilità, quindi, l’impatto di cassa per il bilancio pubblico di una misura congegnata lungo le linee qui esposte sarebbe limitato, a fronte di un sicuro miglioramento del benessere dei lavoratori (e delle stesse imprese) che si vedrebbero offerta una ben più ampia opportunità di scelta. In coerenza con questo impianto, bisognerebbe poi anche cancellare le norme, completamente immotivate (e anche in questo caso dettate, in tutta probabilità, da una sovrastima degli effetti di cassa del pensionamento anticipato, pure all’interno di uno schema attuariale) che nel contributivo limitano la possibilità del pensionamento anticipato fino a 3 anni rispetto all’età legale solo a chi ha diritto a una prestazione di importo relativamente elevato (pari a 2,8 volte l’assegno sociale).

Rimarrebbe la seconda delle criticità prima richiamate, ovvero come offrire agli individui in condizioni di maggior svantaggio una tutela che non riduca l’importo di prestazioni non generose e che non sia limitata alle sole poche categorie che svolgono lavori “gravosi” individuate dalle norme del 2016-2017 (si consideri che, complessivamente, nel 2019 circa 8.500 individui ha usufruito dell’APE sociale). In linea con quanto già argomentato sul Menabò, su questo tema bisognerebbe avviare una riflessione, trasparente e scientificamente fondata, sulla gravosità delle varie mansioni, soprattutto per gli occupati più anziani, e su come le diverse mansioni influiscano sulla stessa aspettativa di vita degli individui, così superando la logica di scambio fra le parti sociali con cui – fissato il vincolo delle risorse messe a disposizione dall’allora Governo – furono individuate le 15 mansioni gravose.

Una strategia di intervento che, da una parte, offrisse un’opportunità di scelta in più a tutti i lavoratori e le lavoratrici senza impattare sul bilancio pubblico e, dall’altra, tutelasse le categorie che, in modo trasparente e motivato, si ritenessero le più bisognose potrebbe finalmente porre fine a un dibattito sui requisiti di accesso al pensionamento che si protrae senza interruzioni sin dal 1992, lasciando così spazio a una riflessione su temi altrettanto cruciali come la tutela dei futuri pensionati poveri di cui più volte si è ragionato sul Menabò.

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