Non ho avuto, per ragioni generazionali, l’opportunità di conoscere di persona Luciano Barca e di seguirne l’attività politica nel suo svolgersi. Il mio punto di vista non può dunque che essere in parte diverso da quello di molti degli altri importanti autori che contribuiscono a questo numero del Menabò. Mi sono avvicinato alla sua vita e al suo pensiero attraverso gli scritti, a partire dalle memorie (Barca, Cronache dall’interno del vertice del PCI, 2005). La prima impressione che ne ho ricavato è quella di una figura affascinante, ricca, complessa, che, attraverso un percorso peculiare e ricoprendo una posizione autonoma («per sentieri anomali» o «ritenuti tali», scrive lui stesso) si è spesso trovata vicino al cuore degli eventi per lunghe stagioni della storia del nostro Paese. Di fronte a vicende come quella di Barca, profondamente intrecciate alla storia del Novecento, chi si è formato in un periodo successivo può forse trarre una duplice impressione. La prima è certamente quella di un mondo – politico, culturale, di relazioni, di saperi condivisi, di conflitto ma anche di codici trasversali e di riconoscimento reciproco – che non esiste più in quella forma. Ma la seconda è quella di una ricchezza di pensiero, di elaborazione e di progettualità da cui forse possiamo trarre spunti ancora oggi. Evitando gli estremi opposti dell’esecrazione e della nostalgia, va ricercato uno sguardo verso il passato che, nella distanza, ne valorizzi anche la ricchezza e sappia fare tesoro di tutti gli stimoli che esso ci consegna per il pensiero e per l’azione nel presente. Cercherò dunque in questo articolo di sottolineare, a partire dal leitmotiv delle “politiche”, alcune delle idee che, nella lettura degli scritti di Barca, attraversano la sua riflessione e possono rivestire un particolare significato.
Un primo punto da sottolineare riguarda il nesso necessario tra il discorso sulle politiche e quello sulla politica, intesa non tanto come insieme delle vicende contingenti, quanto come azione delle forze sociali, come loro dinamica di organizzazione e conflitto. La politica è qui intesa come in nessun modo riducibile alla sola dinamica istituzionale. Questo implica da un lato il rifiuto di una concezione tecnocratica delle politiche, dall’altro una sottolineatura dell’importanza delle «autonomie».
Questo emerge nel dibattito sulla programmazione, al quale Barca fornisce un contributo importante da una prospettiva parzialmente critica. Riserve sono espresse, ad esempio, sulla politica dei redditi, nel timore che questa «diventi la politica di un solo reddito e cioè del salario», compromettendo il ruolo del sindacato. Una «autonomia del momento sindacale» è vista come «garanzia di efficienza ed economicità delle soluzioni adottate» ma anche come «garanzia di libertà, come garanzia di affermazione di valori diversi da quelli che un processo ordinato all’accumulazione tenderebbe, altrimenti, ad esprimere ed imporre» (Barca, Due linee di politica economica. Relazione di minoranza sul bilancio di previsione dello Stato per il periodo 1 luglio – 31 dicembre 1964, 1964).
Intorno all’idea di questa possibilità di affermare «valori diversi» e soprattutto di costruire un «nuovo modello di sviluppo» in grado di fornire risposte a bisogni, aspirazioni e potenzialità non realizzate nel quadro del sistema esistente, si sviluppa una riflessione complessa e di lungo periodo. È una riflessione che si intreccia con il dibattito interno del PCI, talvolta lo innesca e lo promuove – nella diversità delle funzioni ricoperte Barca ha a lungo avuto un importante ruolo di elaborazione in materia economica – ma presenta anche tratti propri e autonomi. Questo si lega ad una specifica attitudine – che è parte del fascino che la figura emana e che ha contribuito a determinarne il peculiare ruolo nella storia del PCI – ad un costante confronto e dialogo con persone, idee e culture politiche differenti, mantenendo al tempo stesso una forte autonomia di elaborazione.
Certamente importante è il dialogo con la cultura liberale, come testimonia ad esempio il dibattito che Barca, da direttore dell’Unità di Torino, promuove a partire dalla proposta sulle 36 ore di lavoro avanzata dal Senatore Frassati, rievocando nel suo intervento un dibattito tra Giovanni Agnelli e Luigi Einaudi del 1933 sulla riduzione dell’orario di lavoro (Le 36 ore. Dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro, 1954). È poi presente un confronto, spesso critico, con Franco Rodano, a partire dall’esperienza della sinistra cristiana. Su alcuni dei temi che confluiranno nell’esperienza della Rivista Trimestrale esiste però una significativa consonanza. Infine, come ricordato, è intensa la discussione con interlocutori socialisti e democristiani sul tema della programmazione e del programma economico del centrosinistra.
Un tratto di lungo periodo del pensiero di Barca, che forse può avere un significato rispetto a diversi dibattiti odierni, è il rifiuto di ogni prospettiva che si fondi su una semplicistica contrapposizione di Stato e mercato. Non si tratta di scegliere tra l’uno o l’altro elemento, ma piuttosto di riflettere sui diversi possibili equilibri, sui modelli di sviluppo in cui queste istanze agiscono. Sulla base della distinzione teorica tra capitalismo e mercato, fortemente affermata anche in polemica con posizioni diffuse nel PCI, il problema diventa l’individuazione delle strade – delle politiche e della strategia – che possano promuovere un equilibrio differente. La riflessione su questi temi – sullo sfondo delle profonde trasformazioni dell’economia italiana e mondiale – è al centro del convegno del 1962 sulle Tendenze del capitalismo italiano e della battaglia culturale e politica che ad esso segue negli anni successivi.
Un altro cardine importante dell’insieme di idee che Barca elabora in questi anni risiede nell’idea dell’insufficienza di una prospettiva meramente redistributiva per sanare ex post le fratture generate dallo sviluppo economico italiano. Appare invece necessario ai suoi occhi intervenire per modificare il meccanismo stesso dell’accumulazione rispetto ad una «società dei consumi» – la riflessione sulla quale rimanda appunto alle discussioni sulla «società opulenta» rilanciate anche dalla Rivista Trimestrale – contrassegnata da sprechi, peso eccessivo della rendita, impossibilità di soddisfare una vasta gamma di bisogni umani «di formazione, di ricerca, di sanità, di sicurezza» -. Occorre immaginare un «tipo diverso di sviluppo economico» improntato ad una sorta di programmazione democratica. A questo fine sono necessarie politiche che inneschino un «circolo virtuoso» in cui l’offerta sia trascinata da quegli stessi bisogni «espressi in modo forte sul mercato» attraverso la creazione di nuclei di domanda espressi anche «attraverso le articolazioni periferiche dello Stato». Da un lato, quindi, al mercato deve essere affidato, per Barca, «il compito di conseguire, in funzione degli obiettivi fissati, le soluzioni più efficienti ed economiche», dall’altro la «soddisfazione di alcuni grandi bisogni popolari – casa, scuola, sanità -» deve divenire il «motore» del processo. Viene posto, cioè, un problema di «qualità dello sviluppo». Questo obiettivo può essere perseguito da un lato attraverso un patto contro la rendita che leghi salari e profitti, con l’obiettivo di un incremento della produttività complessiva del sistema – su questo si svilupperà nel tempo il dialogo con La Malfa -. Al tempo stesso, come accennato, questo non implica una rinuncia o una moderazione delle rivendicazioni sindacali, viste come stimolo al superamento dei limiti del sistema. In generale la partecipazione e la mobilitazione democratica può essere considerata come il motore della trasformazione, come l’energia che consente di spostare l’asse del sistema su cardini differenti.
Questo insieme di riflessioni – elaborate tra gli anni Cinquanta e Sessanta – precipita negli anni Settanta e nella stagione berlingueriana. Da un lato la realtà politica e le riforme promosse – dall’attuazione delle Regioni alla costruzione del sistema sanitario nazionale – sembrano andare parzialmente nella direzione indicata. Dall’altro, nella prospettiva del compromesso storico, Berlinguer fa propri diversi elementi di questa elaborazione. Scrive Barca il 18 ottobre 1976: «Per la prima volta in modo netto, Berlinguer pone il problema di intervenire dal lato della domanda per cambiarne la qualità. La gestazione è stata faticosa, ma alla fine il tema risulta posto con chiarezza: “agire come istituzioni, come governo e come cittadini perché sia finalmente avviato su basi nuove e per fini diversi da quelli del passato lo sviluppo economico, sociale e civile”». La stessa riflessione sull’austerità viene vista in questa ottica, «non come ridimensionamento e ristagno produttivo, ma come “occasione e condizione per un assetto più giusto, più razionale ed efficiente dell’intera struttura dell’economia e della società”».
In questo giro di riflessioni di Berlinguer, che prendono in parte le mosse da una certa percezione del declino morale del Paese, sono anche contenuti i presupposti della formulazione della questione morale. Quando però la proposta politica sarà formulata in quei termini, apparirà in parte svuotata dalla carica trasformativa e di progettualità politica che appare avere negli anni Settanta.
Non è questa la sede per una riflessione sulla strategia del compromesso storico – rispetto alla ricostruzione della quale comunque la lettura delle memorie di Barca risulta essenziale -. C’è però un tema che ritorna spesso, su cui vale la pena soffermarsi. Si tratta del rapporto tra contingenza e lungo periodo. È proprio questo il nodo sul quale, ancor prima che si consumi il rapimento di Moro, la strategia di Berlinguer entra in difficoltà. La difficoltà – abilmente sfruttata politicamente da parti della Democrazia Cristiana – appare cioè quella di articolare l’ampio respiro della prospettiva e la contingenza della crisi, con le misure emergenziali che sollecita. Su questo punto si consuma il progressivo logoramento della situazione politica. Ed è su questo terreno che avvengono molti fraintendimenti e interpretazioni divergenti della proposta politica berlingueriana, anche all’interno del suo stesso partito.
Tutto ciò avviene nel contesto della crisi degli anni Settanta, in cui maturano processi – solo in parte compresi dalla politica italiana – che finiranno per chiudere una finestra di opportunità e avviare un nuovo ciclo storico che vedrà un forte aumento delle disuguaglianze e delle fratture nelle società occidentali.
E questo ci riporta al nostro presente e ai dilemmi con cui siamo chiamati a confrontarci, che, in un contesto profondamente mutato e differente, mantengono però un legame con quelli di fronte a cui si trovava Barca. La riflessione sulle crisi è per noi, dal 2007-2008 e oggi nel contesto della pandemia, una preoccupazione centrale. La sfida è ancora oggi quella di trovare una strategia che articoli contingenza e prospettiva. Che, agendo nell’emergenza, sappia aprire lo spazio per un futuro differente. E – anche qui la lezione di Barca può parlarci – non esiste un’unica leva che possa innescare il cambiamento. Questo può scaturire solo da un agire congiunto a livelli e in ambiti differenti. Ma allora – sia per definire i contenuti del cambiamento stesso che per costruire “ponti” tra mondi diversi – diventa strategico il ruolo della cultura, della ricostruzione di un tessuto connettivo e di un’intellettualità diffusa che restituisca profondità alla visione e all’agire. Anche per l’attenzione che Luciano Barca sempre riservò a questi aspetti, rileggerne gli scritti è oggi per noi un esercizio prezioso.