Riflettere sui rapporti tra Covid19 e disuguaglianze è tutt’altro che semplice. E’ così perché le dimensioni della disuguaglianza rilevanti sono molteplici, perché ugualmente molto numerosi sono i possibili nessi, perché la disuguaglianza può essere interpretata in vari modi (guardiamo a cosa capita a chi sta peggio? alle distanze che li separano da chi sta meglio o ad altro ancora?) e perché ancora si sa troppo poco per potersi esprimere con sufficiente precisione. Dunque, quelle che seguono sono riflessioni preliminari e parziali, certamente inadeguate rispetto alla complessità del problema, ma, si spera, utili per iniziare ad affrontare almeno alcune questioni e per mettere in guardia contro rischi di enorme gravità.
La prima riflessione riguarda l’influenza delle pre-esistenti disuguaglianze sul rischio di contagio e di restare vittima del virus. Si è detto che Covi19 non conosce confini geografici né barriere sociali: ricchi e poveri sono entrambi alla sua mercè. Se questo è vero, è anche vero che le svantaggiate condizioni economiche sono uno specifico fattore di rischio. I ricchi non sono al riparo – come forse è avvenuto in altre pandemie – ma sono più protetti. Le ragioni alla base di queste affermazioni sono diverse.
Una di esse è la forte correlazione tra condizioni economiche e condizioni di salute, messa in evidenza da numerose analisi (ad esempio, J.P. Mackenbach, Health Inequalities: Persistence and change in European welfare states, Oxford University Press, 2019). I “poveri” – e, soprattutto, i molto poveri – per varie ragioni (ad iniziare dallo scarso ricorso alla prevenzione) presentano peggiori condizioni di salute e, in particolare, contraggono in età più giovane (si stima 15 anni prima) quelle malattie croniche che accrescono enormemente la probabilità che l’esito del contagio sia la morte.
Ma le ragioni possono essere anche altre e anche i primi dati di cui disponiamo sembrano confermare la loro incidenza. Ad esempio, secondo stime effettuate nella prima settimana di aprile negli Stati Uniti, i neri e gli ispanici residenti in molte città hanno almeno il doppio delle probabilità di morire di Covid19 rispetto ai bianchi delle città; a Chicago quella dei neri è 5 volte superiore a quella dei bianchi. Difficilmente questo risultato può essere interamente spiegato dalle specificità del sistema sanitario americano. Essere poveri conta.
Le condizioni economiche di “partenza” incidono anche sui rischi economici derivanti dalle conseguenze della pandemia e, d’altro canto, le peculiari caratteristiche di questo devastante fenomeno sono tali che, in assenza di adeguate misure di protezione sociale, delle quali si è ampiamente trattato sul Menabò, molti possano trovarsi rapidamente in condizioni di povertà e di deprivazione anche se precedentemente vivevano in relativa agiatezza.
La questione a cui dedicherò il resto di queste note è, però, il probabile effetto della pandemia sulla disuguaglianza nel futuro più o meno lontano. Su questo tema la storia passata non ci è di molto aiuto. Diverse e pregevoli analisi delle passate pandemie giungono alla conclusione che esse hanno contribuito, nel tempo, a ridurre le disuguaglianze economiche. Questa è, ad esempio, la tesi enunciata con forza da W. Scheidel (La grande livellatrice. Violenza e disuguaglianza dalla preistoria a oggi, Il Mulino, 2019) e presente anche nel classico Miasmi ed umori. Ecologia e condizioni sanitarie in Toscana nel Seicento di C.M. Cipolla (Il Mulino, 1989).
Semplificando si può dire che il meccanismo principale, per allora, fu individuato nella “scarsità” di lavoratori determinato dal gran numero di morti, che ha favorito l’innalzamento dei salari ai danni, principalmente, delle rendite sulla terra. Si può, però, essere relativamente certi che questo meccanismo ora non sarà rilevante: il numero di morti (concentrati peraltro in segmenti di popolazione non più attiva) appare di dimensioni insufficienti per causare – soprattutto in un mondo globalizzato – una scarsità relativa di lavoro.
Vi sono, invece, varie indicazioni che l’esito potrà essere quello opposto, per ragioni connesse ai meccanismi di mercato e al disegno delle politiche.
Una prima indicazione si può trarre dagli studi sugli effetti di fenomeni naturali disastrosi (diversi dalle pandemie, ma che con esse condividono alcuni aspetti rilevanti) sulle disuguaglianze. Da tali studi emerge che dopo i disastri naturali le disuguaglianze sono aumentate. Ad esempio, risulta che sia stato così negli Stati Uniti con riferimento ai disastri naturali verificatisi tra il 1999 e il 2013, ma conferme in tal senso vengono anche dall’Australia e dalla Germania .
Se considerassimo la pandemia uno speciale disastro naturale che ha colpito il mondo intero ne potremmo desumere che questi studi prospettano un futuro di maggiore disuguaglianza a livello mondiale. Ma per considerare fondata una simile conclusione dovremmo avere chiari i meccanismi che hanno causato quel peggioramento. Gli studi appena citati offrono qualche utile elemento. In particolare, da essi emerge che le politiche di aiuto hanno aggravato e non alleviato le disuguaglianze. Si tratta di un risultato rilevante anche in relazione alle vicende contemporanee. Il rischio appare reale e per comprenderlo appieno occorre considerare che le disuguaglianze si possono ampliare anche se i “ricchi” retrocedono: è sufficiente che in termini relativi retrocedano meno dei “poveri”. Dunque le politiche compensative, di qualsivoglia natura, potrebbero compensare in modo diseguale aggravando le disuguaglianze.
La seconda indicazione riguarda, proprio la possibilità che i segmenti più ricchi della popolazione beneficino di favorevoli dinamiche di mercato. Il riferimento è, in particolare, al possibile rafforzamento di monopoli già esistente nel mercato, un fenomeno che almeno parzialmente è già in atto, come dimostrano i dati relativi ad Amazon – inclusi quelli sul forzato ritardo nelle consegne, che sta generando qualche malumore tra i suoi clienti. Il problema si pone, dunque, perché la peculiare riallocazione della domanda in presenza di pandemia sembra determinare benefici in settori già molto concentrati.
Le ricadute sulla disuguaglianza di queste tendenze sono molteplici. In particolare il valore della ricchezza dei già ricchissimi “proprietari” di quei giganti (e dei loro omologhi sulla più ridotta scala nazionale) può ulteriormente crescere. Questo, è quanto è accaduto al patrimonio di Jeff Bezos che dall’inizio dell’anno e fino a metà aprile era cresciuto di altri 6,8 miliardi di dollari, grazie anche – sembra – alla tempestività con la quale ha venduto proprie azioni prima del calo e le ha riacquistate prima della ripresa. Aumenti rilevanti si sono avuti anche nei patrimoni di molti altri, in particolare Zuckerberg (6,2 miliardi), Buffett (5 miliardi) e Gates (3,6 miliardi). Nel valutare le attitudini filantropiche di molti di questi miliardari è bene tenere presente anche il rapporto tra quelle donazioni e questi incrementi di valore patrimoniale. Ma, soprattutto, è degno di attenzione il fatto che, diversamente da altre crisi con origini strettamente economiche, l’andamento dei valori di borsa non sembra condurre a quella perdita di valore capitale che in passato ha fatto sì che fasi negative come questa portassero alla riduzione delle distanze tra i più ricchi e il resto della società.
Sul versante opposto si può osservare che la pandemia, di nuovo in modo non del tutto simile a quello di altre “normali” crisi, rischia di danneggiare molte piccole imprese mettendole, nei casi estremi, alla mercè della criminalità organizzata oppure favorendo il loro “assorbimento” da parte di imprese di maggiori dimensioni. Anche questo contribuisce alle preoccupazioni per l’aggravarsi delle disuguaglianze.
La terza indicazione riguarda gli effetti di aggravamento della disuguaglianza non nei redditi e nella ricchezza, ma nelle opportunità che questa pandemia potrebbe produrre. Il riferimento è alle maggiori difficoltà che incontrano i ragazzi provenienti da background svantaggiati nel seguire con profitto le lezioni impartite a distanza e ancora di più coloro che soffrono di qualche forma di disabilità; è anche al rischio che con i mutamenti nell’organizzazione del lavoro si amplino le differenze di genere. Circostanze nuove, considerabili come opportunità, potranno avere un peso rilevante nel generare nuove disuguaglianze. Si pensi alla diversa facilità di adottare nuove forme di organizzazione del lavoro, imperniate sullo smart work, che dal punto di vista dei lavoratori che ne beneficeranno costituiscono una favorevole opportunità. Se consideriamo i territori come opportunità, è difficile prevedere cosa accadrà alle disuguaglianze territoriali, a causa della concentrazione del contagio nelle regioni più ricche. Molto dipenderà, come in vari altri ambiti, dalle politiche che verranno adottate.
Numerosi altri aspetti meriterebbero di essere esaminati. Uno di essi è l’effetto che la pandemia può avere nel ridurre la frammentazione del lavoro, accrescendo la sua capacità contrattuale. Il riferimento è ad alcuni segnali di rafforzamento della percezione di un destino comune da parte dei lavoratori che sembrano emergere, alimentati dalla pandemia, in varie parti del mondo; gli effetti di una simile evoluzione potrebbero diffondersi, anche soltanto per meccanismi economici, al di là dei paesi in cui inizialmente si manifestano.
Un altro importante aspetto si riferisce alla qualità degli interventi di policy, rispetto ai quali la maggiore preoccupazione, ma non l’unica, è che essi continuino ad alimentare quel crony capitalism, o capitalismo clientelare, che è stato – oltre il cosiddetto neo-liberismo – uno dei tratti distintivi del recente passato e che stando a quanto ha sostenuto Naomi Klein mostra un’accresciuta aggressività proprio nelle fasi di uscita dalle crisi più gravi.
La speranza è che non sia così; che si presti attenzione, tra gli altri, ai problemi che sono stati sommariamente richiamati in queste note e che la pandemia favorisca importanti innovazioni sociali e politiche. E pensando al rapporto tra pandemie e innovazioni si può chiudere ricordando che forse dobbiamo la scoperta della legge della gravitazione universale anche alla peste, che nel 1664 costrinse Isaac Newton a tornare da Cambridge nel suo piccolo villaggio natale dove per giorni e giorni rimuginò, nel chiuso di una stanza, sulle idee che accuratamente archiviava nel suo commonplace book e che finalmente si incontrarono con la mela (cfr. J. Gleick, Isaac Newton, Vintage, 2004)