Gli obiettivi stabiliti dalla Piattaforma europea contro la povertà e l’emarginazione fissati nel 2010 puntavano a ridurre di 20 milioni il numero di poveri entro il 2020 in Europa. A questo fine era stato predisposto il monitoraggio, tra gli altri, di due indicatori: il rischio di povertà corrente e il rischio di povertà persistente. Il primo è definito come la percentuale di individui, sul totale della popolazione, con reddito familiare (corretto per le scale di equivalenza per tenere conto della dimensione dei nuclei) inferiore alla soglia di povertà, dove la soglia è fissata al 60% del reddito mediano equivalente. Il secondo è definito come la quota di popolazione che permane nello stato di povertà per almeno due anni consecutivi nei tre precedenti l’anno corrente.
L’obiettivo, però, anche a causa della lunga crisi, non è stato raggiunto e la povertà in Europa era e rimane alta. Nei dieci anni dal 2006 al 2016 il numero di individui a rischio di povertà nei paesi dell’Unione Europea (UE a 27 paesi, senza considerare la Croazia) è aumentato da 81 a 86 milioni, con un corrispondente aumento del rischio di povertà dal 16,5% al 17,3% (Figura 1). E soprattutto non si è ridotta la percentuale di poveri classificati come “a rischio di povertà persistente”, passata dall’8,7% nel 2008 (primo anno disponibile) al 10,9% nel 2015 (ultimo anno disponibile).
È evidente che i due fenomeni, essere in condizioni di povertà o esservi in modo continuativo, esprimono diversi gradi di gravità. Tuttavia, i due aspetti sono strettamente correlati: i paesi ove è maggiore il rischio di povertà corrente è anche maggiore il rischio di povertà persistente. In generale, i paesi mediterranei (Grecia, Italia, Spagna e Portogallo) mostrano percentuali di rischio di povertà corrente e persistente superiori della media europea. Nei paesi dell’Europa centrale e del nord (Austria, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Norvegia, Olanda, Regno Unito e Svezia) i valori sono inferiori alla media. In Italia, i due indicatori risultano pari rispettivamente al 20,6% e al 14,5% nel 2016, in aumento rispetto al 18,9% e 12,7% del 2008.
La Figura 1 riporta anche il rapporto tra il rischio di povertà persistente e quello corrente, vale a dire la percentuale di poveri che sperimentano la povertà in modo continuativo. Questo indicatore, particolarmente elevato per l’Italia (70,4% nel 2016 e 67,2% nel 2008), suggerisce l’esistenza di fattori che trasformano un evento spesso legato all’andamento dell’economia, quale è la situazione di povertà corrente, in un evento di elevata valenza sociale, per il quale una ampia percentuale della popolazione si trova nella impossibilità di uscire da una situazione di povertà. Anche altri paesi quali Danimarca, Germania, Grecia, Portogallo e Spagna hanno un rapporto superiore al 60% (ma comunque minore di quello dell’Italia), mentre Austria, Francia, Irlanda e Olanda hanno valori in media intorno al 58%, e infine Norvegia, Regno Unito e Svezia valori, in media, intorno al 41%.
Figura 1 Incidenza del rischio di povertà corrente e persistente, 2016 (valori %)
Ci sono fattori che spiegano la durata dei periodi di povertà, ovvero la persistenza di soggetti in tale stato? È possibile individuare elementi che determinano le differenze tra paesi? Una recente analisi svolta su dati EU-SILC (European Union Statistics on Income and Living Conditions) per quattro grandi paesi europei (Italia, Spagna, Francia e Regno Unito) per il periodo 2009-2012 consente di dare qualche risposta a questi interrogativi (E. Giarda e G. Moroni, in Social Indicators Research, 2017).
Innanzitutto le matrici di transizione mostrano che lo stato di povertà dipende in modo significativo dallo stato di povertà dell’anno precedente. Ad esempio, in Italia il 68,5% di individui che erano poveri al tempo t-1 rimangono poveri al tempo t, valore superiore a Spagna (66,5%), Francia (61,8%) e Regno Unito (49,8%). Le percentuali di individui che riescono ad uscire dalla povertà sono, quindi, del 31,5%, 33,5%, 38,2% e 50,2% rispettivamente in Italia, Spagna, Francia e Regno Unito. Una prima indicazione è di una maggiore persistenza della povertà nel nostro paese rispetto agli altri analizzati, mentre il Regno Unito si distingue per una maggiore mobilità. Questo risultato è confermato dalla stima di un modello econometrico dinamico nel quale l’essere (o non essere) in povertà è espresso come funzione dell’essere o meno in povertà nell’anno precedente e di una varietà di fattori che caratterizzano i singoli individui e i nuclei familiari ai quali essi appartengono. L’Italia risulta essere il paese dove la persistenza della povertà è più elevata, cioè dove lo stato precedente influisce maggiormente sullo stato corrente: essere stati poveri nell’anno precedente aumenta di 15,9 punti percentuali la probabilità di essere poveri nell’anno corrente. I valori per Spagna, Francia e Regno Unito sono inferiori e pari a 12,6, 11,0 e 4,5 punti percentuali, rispettivamente.
Tuttavia, i paesi analizzati si caratterizzano per diversi livelli di disparità territoriali. In particolare l’Italia è il paese con il più forte grado di divergenza regionale rispetto a vari indicatori, tra i quali tasso di disoccupazione, PIL pro-capite e rischio di povertà. Ad esempio, il coefficiente di variazione (rapporto tra deviazione standard e valore medio) del tasso di disoccupazione regionale nel periodo 2009-2012 in Italia è intorno al 43%, mentre negli altri paesi analizzati è inferiore al 30%. Il PIL pro-capite per macro area fornisce indicazioni simili: nel Mezzogiorno l’indicatore è inferiore del 33% rispetto alla media dell’Italia. L’entità del divario tra l’area più povera e la media nazionale scende al 29% nel Regno Unito, al 23% in Spagna e al 19% in Francia. Anche le disparità nel rischio di povertà sono molto più rilevanti in Italia, con differenziali che raggiungono i 26 punti percentuali confrontando ad esempio il Mezzogiorno e il Nord-Est, al contrario della Spagna dove il divario massimo tra aree è di 18 punti e di Francia e Regno Unito che presentano un differenziale massimo di 9 punti. È dunque assai probabile che le disparità territoriali abbiano una rilevanza diversa nello spiegare il grado di persistenza della povertà nei paesi.
Sulla base di queste indicazioni, è stata stimata una nuova formulazione del modello che tiene in considerazione i divari territoriali. La stima della persistenza della povertà in Italia scende ed uguaglia quella della Spagna (12,1 punti percentuali), avvicinandosi a quella della Francia (10,9 punti), ma rimanendo comunque superiore al valore del Regno Unito (4,4 punti). Questo risultato suggerisce che le difficoltà sperimentate dall’Italia nel contenere il grado di persistenza della povertà evidenziate dalla Figura 1 siano in prima battuta imputabili all’ampio divario nord-sud del paese. In particolare, un possibile canale attraverso il quale le disparità regionali esercitano un effetto sulla persistenza della povertà è rappresentato dai divari territoriali del tasso di disoccupazione. In tutti i paesi, altri fattori che esercitano un effetto significativo sulla probabilità di cadere in povertà sono le condizioni lavorative dei componenti familiari e il grado di istruzione, in altre parole tutti quei fattori che incidono sulla capacità dei componenti del nucleo di generare reddito. Per quanto riguarda l’Italia, si evidenzia che l’investimento in capitale umano contribuisce a ridurre il rischio di povertà in misura inferiore rispetto agli altri paesi.
In sintesi, in tutti i paesi analizzati la persistenza della povertà è un fenomeno rilevante, sebbene con diversi gradi di incidenza. Le politiche economico-sociali dovrebbero cercare di evitare che il reddito cada al di sotto della soglia di povertà, in quanto, una volta che questo accade, la probabilità di sperimentare periodi di povertà negli anni successivi aumenta. Sono quindi auspicabili due livelli di intervento per contenere la povertà. Da un lato politiche di sostegno al reddito per ridurre il rischio che gli individui cadano in una condizione di povertà, dall’altro politiche di tipo strutturale per sostenere gli investimenti in capitale umano e rafforzare la stabilità lavorativa di ciascun componente all’interno della famiglia che permettano di rimanere fuori dalla povertà. Infine, in particolare per quanto riguarda l’Italia, sono necessarie politiche che riducano i divari territoriali o per lo meno politiche anti povertà differenziate per territorio. Quindi, ben vengano indicazioni da parte delle istituzioni europee con linee guida nazionali per il contenimento della povertà, ma per la loro realizzazione si tenga anche conto delle specificità nazionali.