La politica antitrust e il contrasto alla disuguaglianza

Alessandra Tonazzi esamina il ruolo di contrasto alle disuguaglianze che l’antitrust può svolgere anche restando nel solco dei propri obiettivi tradizionali: benessere del consumatore, promozione dell’innovazione e della crescita. Tonazzi osserva, però, che la stessa concorrenza può essere percepita come fonte di disuguaglianza ed è perciò importante che l’azione dell’antitrust sia accompagnata da misure di welfare per consentire alla politica della concorrenza di svolgere virtuosamente una funzione pre-distributiva, contrastando la formazione o l’aumento di disuguaglianze.

Il ruolo della politica della concorrenza nella lotta alla disuguaglianza è entrato nel dibattito della comunità antitrust soltanto di recente, influenzato dalla nuova centralità che le questioni distributive hanno trovato nel dibattito economico più generale. In realtà, fino alla crisi finanziaria della seconda metà degli anni 2000, le questioni distributive e quelle di ordine macroeconomico hanno attratto in modo limitato l’attenzione delle autorità di concorrenza e, in genere, degli esperti antitrust. Negli anni novanta, in una fase espansiva, le politiche della concorrenza hanno accompagnato la transizione di molti paesi all’economia di mercato. L’attenzione si è accentrata sull’assicurare che i consumatori cogliessero appieno i benefici della concorrenza e che ostacoli creati da condotte delle imprese o restrizioni regolamentari non impedissero il conseguimento di tali benefici. La tutela della concorrenza si è pertanto focalizzata, oltre che sugli ambiti tradizionali di lotta ai cartelli e controllo delle concentrazioni, sulle condotte che ostacolavano l’ingresso di nuovi operatori reso possibile dalle liberalizzazioni in settori quali, ad esempio, telecomunicazioni e trasporti. In questa fase l’obiettivo è stato soprattutto quello di garantire, attraverso prezzi più bassi e ampliamento dell’offerta, il miglioramento del benessere del consumatore senza prestare attenzione alle implicazioni distributive o di natura macroeconomica.

La prospettiva si è almeno in parte modificata con la crisi economica, a fronte dell’emergere, tra l’altro, di un crescente scetticismo sulle virtù del mercato. In questa fase è iniziata una riflessione più profonda sul rapporto tra concorrenza e variabili macro e sul contributo che la concorrenza poteva offrire alla crescita economica. Molti studi hanno evidenziato effetti positivi della politica della concorrenza sulla crescita, soprattutto in termini di incremento della produttività dei mercati (si veda per una rassegna il lavoro dell’OCSE).

La discussione ha iniziato a affrontare anche aspetti distributivi con la progressiva introduzione e applicazione di leggi antitrust nei paesi in via di sviluppo. In particolare molti studi hanno sottolineato gli effetti positivi che la concorrenza poteva svolgere nella riduzione della povertà. Uno studio della Banca Mondiale mostra, ad esempio, come riforme pro-concorrenziali abbiano effetti benefici sulle famiglie più povere migliorando la distribuzione del reddito e della ricchezza (Begazo Gomez, Tania Priscilla, Nyman, Sara. 2016. Competition and poverty, note no. 350. Washington, D.C.).

Più di recente, negli Stati Uniti, il dibattito si è spostato dal contrasto alla povertà al contrasto alle disuguaglianze, sulla base delle evidenze relative al significativo aumento della concentrazione in molti settori e, soprattutto, all’incremento della quota dei profitti e alla loro persistenza. Il dibattito ha fortemente chiamato in causa le responsabilità e le potenzialità della politica della concorrenza. Alcuni contributi hanno sottolineato come il controllo sulle operazioni di concentrazione avrebbe potuto in passato, e potrebbe tuttora, essere più incisivo (Shapiro, Carl, Antitrust in a Time of Populism, 2017) nel contrastare l’eccessivo potere di mercato e la formazione di rendite monopolistiche. Altri studi hanno rivendicato un ruolo più ampio delle autorità antitrust nel contrasto alla disuguaglianza, non limitato al controllo sulle concentrazioni, ma esteso alla scelta settori in cui combattere cartelli e abusi (Baker e Salop, Antitrust, Competition Policy, and Inequality, Faculty publication, Georgetown University, 2015, tradotto in Mercato, Concorrenza e Regole n. 1, 2016).

Se questi interventi si muovono nel solco tradizionale della politica antitrust, sebbene con connotazioni diverse, c’è anche chi si è spinto più in là sostenendo che l’antitrust debba abbandonare come obiettivo unico il benessere del consumatore e includere nella propria azione altri obiettivi che contrasterebbero la disuguaglianza, quali la protezione delle piccole imprese e/o dei lavoratori (Khan, Lina, Amazon’s Antitrust Paradox, January 31, 2017,Yale Law Journal, Vol. 126, 2017). Si è parlato, in questo caso, di una riscoperta dell’antitrust delle origini (in particolare dell’approccio del giudice Brandeis, preoccupato delle implicazioni, anche per il sistema democratico, del potere dei grandi monopoli) ovvero di “hipster antitrust” riferendosi ad un approccio alternativo che identifica nella dimensione delle imprese (particolarmente nell’ambito dell’economia digitale) aspetti problematici dal punto di vista antitrust non sempre sostenuti da un’analisi economica sufficientemente solida e attenta alle esigenze di certezza giuridica.

Ma l’antitrust può davvero ridurre le disuguaglianze? È giusto che la politica della concorrenza abbia altri obiettivi oltre quello di far funzionare i mercati in modo più efficiente e garantire il benessere dei consumatori? L’opinione di chi scrive è che – sebbene il concetto di benessere del consumatore possa essere ragionevolmente arricchito fino a includere considerazioni che riguardino l’equità – può essere molto rischioso attribuire alla disciplina antitrust obiettivi diversi dalla tutela della concorrenza (quali ad esempio la difesa dell’occupazione, la protezione delle piccole imprese, la redistribuzione) per i quali altri strumenti possono essere più adeguati. Esiste, tuttavia, un ruolo di contrasto alle disuguaglianze che l’antitrust può svolgere anche restando nel solco dei propri obiettivi tradizionali: benessere del consumatore, incremento della produttività e promozione dell’innovazione.

Quando si parla del contributo che la politica della concorrenza può offrire nel contrastare le disuguaglianze è forse utile chiarire che la disciplina antitrust è costituita, in primo luogo, dalla tutela della concorrenza, vale a dire dall’applicazione del diritto antitrust ad alcuni comportamenti d’impresa (i cartelli, gli abusi di posizione dominante) che aumentano le rendite delle imprese a danno dei consumatori. In questo senso il margine di manovra delle autorità antitrust risiede, soprattutto, nella scelta delle priorità. Concentrare l’attenzione su determinati settori (ad esempio sui casi che riguardano prodotti alimentari, prodotti farmaceutici, trasporti) può incidere in modo significativo sul potere d’acquisto delle fasce di consumatori più svantaggiati comportando una ricaduta in termini distributivi. Allo stesso tempo la tutela della concorrenza, attraverso un controllo stringente sulle operazioni di concentrazione, può assicurare un contrasto alle rendite, impedendo che si formino posizioni di potere di mercato non determinate dalla capacità imprenditoriale e dall’innovazione ma basate sull’eliminazione dei concorrenti.

Se questo tipo di azioni è di diretta pertinenza delle autorità antitrust, il concetto più ampio di politica della concorrenza comprende anche l’azione di altri soggetti (legislatore, governo) nel rimuovere le restrizioni ingiustificate che derivano dalla regolazione. In questo senso non va dimenticato che l’erosione delle rendite passa anche attraverso la rimozione degli ostacoli – a volte di natura amministrativa – che impediscono l’accesso al mercato di nuove imprese o delle nuove generazioni. Le autorità antitrust possono contribuire alla promozione della concorrenza, con i loro poteri di segnalazione, individuando, tra l’altro, i settori in cui la rimozione delle restrizioni concorrenziali produce maggiori vantaggi per i consumatori delle fasce di reddito più basse. Esemplificative, al riguardo, sono le raccomandazioni per introdurre la concorrenza possibile nel trasporto pubblico locale i cui beneficiari sono prevalentemente i cittadini più poveri.

La stessa concorrenza, tuttavia, può essere percepita come fonte di disuguaglianza. Il processo concorrenziale, infatti, comporta inevitabilmente vincitori e perdenti. In altri termini, il risultato di questo processo, almeno nel breve periodo, può apparire iniquo. È importante, pertanto, che l’azione volta a tutelare “l’equità” del processo sia accompagnata da misure di welfare volte ad attenuare le asprezze del suo risultato. Solo la complementarietà tra welfare e mercato può consentire alla politica della concorrenza di svolgere virtuosamente, insieme ad altre politiche, una preziosa funzione pre-distributiva, contrastando la formazione o l’aumento di inaccettabili disuguaglianze.

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