La politica come scienza. L’esperienza di Frattocchie

Fulvio Lorefice si occupa della formazione della classe politica, una precondizione per quell’effettiva «centralità del parlamento» che queste elezioni temporaneamente ci consegnano. In particolare, l’autore si sofferma sull’esperienza del sistema educativo di scuole nazionali e regionali del Partito Comunista Italiano e quindi sul relativo processo di pedagogia politica delle masse. Nel ricordare la figura intellettuale di Luciano Gruppi, sostiene l’importanza per la sinistra odierna del linguaggio e della sua accessibilità.

1. L’esito delle ultime elezioni politiche ci consegna – temporaneamente – un dato molto interessante: la centralità del Parlamento. Trattandosi di uno dei più clamorosi unintended results della legge elettorale n. 165 del 3 novembre 2017, il cosiddetto Rosatellum bis, questo stato di cose corre il serio pericolo di avere vita breve. Nel cammino evolutivo delle nostre istituzioni, infatti, la questione della centralità dell’esecutivo, e quindi della rinuncia a porzioni rilevanti di rappresentanza in favore della decisione, si è via via affermata fino a divenire principio irrefutabile per destra e sinistra.

Le parole in merito pronunciate dal neo-presidente della Camera, Roberto Fico, nel discorso di insediamento, più che rappresentare l’improbabile approdo teorico del gruppo dirigente di una forza politica, originano dall’aritmetica constatazione della mancanza di una maggioranza politica in seno al Parlamento. Eppure il sillogismo in forza del quale si richiama la centralità del Parlamento, in un quadro istituzionale pur segnato dalla perdita di rappresentanza delle classi subalterne e dei relativi interessi, non va ignorato da quanti ad essa legano le sorti della democrazia costituzionale.

Pur consapevoli, quindi, che tale ritrovata centralità del Parlamento non è il frutto di un’«impresa titanica» della sinistra, cui da ultimo ci richiamava Azzariti, ma di una legge elettorale pasticciata e che quindi potrebbe presto lasciare il campo a nuove iniziative legislative ultra-maggioritarie, con buona pace della nostra Costituzione, vale la pena svolgere un esercizio ipotetico e ragionare attorno ad uno dei requisiti più peculiari che un Parlamento richieda per esercitare quella che Azzariti chiama la «virtù del confronto»: la formazione della classe politica.

2. Dell’edificio che un tempo ospitava la scuola di Frattocchie, al chilometro 22 della via Appia, non resta che una sorta di rudere. Eppure, nel discorso politico odierno, non si smette di evocare quella prestigiosa «scuola quadri» del Partito comunista italiano, ogni qual volta si assiste a una nuova e originale forma di degenerazione del costume politico. Frattocchie per contrapposto ha rappresentato, infatti, il simbolo di una politica posta al vertice delle attività umane: una scienza che nulla concedeva a faciloneria e dilettantismo, per la quale occorreva dedizione e spirito di sacrificio. I comunisti dovevano studiare, molti avevano iniziato a farlo al confino dove dal ’26 erano state allestite scuole e corsi, e all’«università del carcere». Chi guadagnava nuovamente la libertà, si scriverà di Cino Moscatelli, comandante partigiano e poi deputato alla Costituente – era «un rivoluzionario agguerrito e addestrato, non più un ragazzo di periferia temerario e senza istruzione» (Barbano, 1982).

Mitizzata e rimpianta da alcuni, demonizzata e maledetta da altri, a Frattocchie e all’intero sistema educativo di scuole nazionali e regionali del PCI è dedicato il volume di Anna Tonelli «A scuola di politica. Il modello comunista di Frattocchie (1994-1993)». Una ricerca preziosa, attraverso la quale si possono ripercorrere le tappe di quel poderoso processo di pedagogia politica delle masse promosso dai comunisti italiani.

3. Se il teorico della scuola politica – sottolinea l’autrice, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Urbino – era stato Antonio Gramsci, fu soltanto al volgere della Seconda guerra mondiale che le federazioni provinciali del PCI iniziarono a ricevere le prime istruzioni dalla Direzione su come individuare il gruppo di allievi da indirizzare alla Scuola centrale. Le esperienze da alcuni maturate in carcere o al confino, notava Edoardo D’Onofrio, non risultavano, infatti, adeguate ai compiti nuovi che le circostanze storiche imponevano. In questa fase la formazione venne quindi intesa come «strumento di organizzazione e acculturazione delle classi popolari». Le divaricazioni socio-culturali manifestatesi tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta scossero nel profondo il partito, l’attività educativa venne quindi riformata estendendone la presenza a tutto il territorio nazionale, diversificando i corsi e attribuendo a ciascuna scuola una vocazione specifica. Nell’aprile ’74 gli Editori Riuniti diedero alle stampe il «Dizionario di politica economica», a cura di Luciano Barca. Il successo editoriale dell’opera segnò l’acme della pedagogia politica comunista: anche le nozioni economiche erano parte ormai del bagaglio culturale del quadro di partito.

4. L’affermazione politica del PCI schiuse in quel frangente le porte di moltissime amministrazioni locali, un numero crescente di quadri politici venne quindi investito di incarichi di responsabilità pubblica. Per rispondere alle problematiche connesse bisognava assimilare gli «strumenti e gli istituti del governare»: si trattava in altre parole di conoscere lo Stato, le sue leggi e le sue logiche.

Direttore della scuola veniva nominato Luciano Gruppi, il prototipo – a giudizio di Italo Calvino – di quella «serietà riflessiva», di quella «maturità» e di quella «chiarezza responsabile» propria dei quadri comunisti. Un intellettuale «organico», autore di moltissimi pregevoli studi sul pensiero politico, nonché formatore e divulgatore straordinario, due propensioni indispensabili per quell’attività assai peculiare di formazione dei gruppi dirigenti. La capacità di rivolgersi a tutti gli strati della popolazione con un linguaggio accessibile senza tuttavia perdere il rigore scientifico, contraddistinse il suo magistero. Si faceva «acuta» la «questione del linguaggio», come ebbe a definirla in un intervento su «l’Unità» del gennaio ’79. Le «astruserie» cui si ricorreva nel discorso politico generale già in quella fase – nel convincimento «che ciò che è chiaro e semplice è inevitabilmente superficiale, e solo ciò che è oscuro e arduo può essere profondo ed originale» – minavano il rapporto tra intellettuali e lavoratori e soprattutto tra partito e masse. Ci si sarebbe dovuti sforzare invece «di essere chiari sempre, facili il più che si può». Su questo delicato crinale si sarebbe osservato il declino di una sinistra, fattasi negli anni sempre più povera ed elitaria. La profondità del distacco tra sinistra e classi subalterne, oggi, può misurarsi anche sul terreno del linguaggio.

5. Ragionando dell’attualità è agevole constatare che le conoscenze e le competenze necessarie «alla costruzione di pubbliche decisioni che assicurino […] un buon governo», diversamente dal passato, sono disperse tra una moltitudine di individui (Barca, 2013). La concentrazione delle decisioni nelle mani di pochi, sulla scorta di un’illusione accentratrice, contraddice pertanto «non solo il principio democratico della rappresentanza, ma anche il principio di competenza» (Ibidem). Le decisioni pubbliche, è questa la tesi di Fabrizio Barca, non possono che scaturire dalla mobilitazione e interazione tra conoscenze e competenze diffuse. Il bandolo della matassa si trova quindi nei partiti, educatori e formatori e ad un tempo promotori della «mobilitazione cognitiva» (Ibidem). La funzione educativa delle organizzazioni politiche va pertanto ripensata ed aggiornata, salvaguardandone tuttavia il valore e la rilevanza. Tutto ciò, in conclusione, non potrà però verificarsi a prescindere dalla politica: dalla riaffermazione, cioè, di una progettualità in grado di esprimere una lettura della società ed una visione del cambiamento. Per rendere, nuovamente, la democrazia un esercizio di massa sarà necessario liberare la politica dai pesanti tentacoli di quelle élite economiche senza scrupoli, che non smettono di mortificarla.

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