ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 220/2024

30 Luglio 2024

La politica dello struzzo e le sue alternative*

Eszter Kováts si occupa dell’approccio woke (del politicamente corretto, dello stare sempre all’erta di fronte alle domande di chi è stato ed è svantaggiato) e sostiene che la discussione pubblica polarizzata rivela i limiti sia della destra moralista sia della sinistra progressista. Occorre un approccio relazionale (diverso dalla ricerca di compromessi), consapevole dei limiti sia dei valori astratti di uguaglianza e libertà, sia dell’attribuzione di legittimità alle sole posizioni degli svantaggiati. Discutere le pretese e le ragioni di tutti e tutte è al cuore della democrazia.

Woke è solo l’ultimo slogan, dopo il “politicamente corretto”, la “politica dell’identità”, l'”ideologia di genere” e il “marxismo culturale” sul quale la destra lancia una sfida: non cadiamo nella loro trappola. Mentre gli attivisti per la giustizia sociale ricordano l’origine del termine, ossia, essere svegli e all’erta contro le ingiustizie sociali, razziali, di genere, i suoi oppositori ne criticano l’uso nelle attuali lotte di sinistra sottolineandone le tendenze autoritarie. 

Questa realtà dischiude un’altra importante verità: la destra conservatrice e illiberale non solo reagisce a sviluppi che considera spiacevoli, ma costruisce anche interpretazioni, spesso basate su rappresentazioni polarizzante e catastrofiste, per mobilitare il sostegno, aprirsi a nuovi elettori e collegarsi a reti ideologiche transnazionali. Io stessa ho già rilevato come liberali anti-woke, persone di sinistra e femministe occidentali stiano innamorandosi del leader ungherese Viktor Orbán, che persegue un forte programma anti-woke e cerca di ‘cancellare’, con la sua macchina di propaganda, coloro che considera sleali.

Nell’ultimo anno o due, in diversi Paesi dell’Europa occidentale, sembra che ogni settimana sia pubblicato un libro o un lungo articolo che denuncia i woke, per lo più con polemiche indignate e a buon mercato. Il rischio, è che queste polemiche aiutino la destra. Gli studiosi di attivismo parlano di “strani compagni di letto“, di “coalizioni che sembrano sorprendenti a prima vista“, di “confini sfumati” e “ponti discorsivi tra l’estrema destra e il mainstream civico” e dei sempreverdi “utili idioti della destra”. 

Ma, come le nuove voci femministe, liberali e di sinistra e, addirittura, della medicina non consentono più di liquidare come “contro il genere” le obiezioni più estreme dell’attivismo trans (quali il blocco della pubertà per i minori senza sufficienti ricerche sui potenziali effetti collaterali), così non si possono respingere tutte le critiche al woke come riflesso del mero desiderio di preservare i privilegi. David Paternotte e Martin Deleixhe, due studiosi belgi che hanno recentemente proposto un nuovo campo di ricerca sui movimenti contro il genere, ritengono che la nozione di wokecontribuisca a normalizzare il discorso conservatore e di estrema destra. Hanno, tuttavia, messo in guardia chi studia tali movimenti e, più complessivamente, i movimenti contro il woke dal rischio di adottare la terminologia dei protagonisti ossia, l’opposizione binaria (loro sono contro il woke, quindi noi dovremmo essere a favore). I progressisti hanno una pluralità di punti di vista e gli autori rifiutano l’identificazione acritica con un atteggiamento woke sostenendo che su diversi aspetti è necessaria una discussione più approfondita.

Status a basso costo. Per inquadrare questo fenomeno, compresa la sua dimensione di classe, è utile il concetto di “credenze di lusso” sviluppato da Rob Henderson, traendo ispirazione da Pierre Bourdieu e Thorsten Veblen. Le credenze di lusso (luxury beliefs) sono “idee e opinioni che conferiscono uno status alla classe superiore a un costo molto basso, mentre spesso infliggono costi alle classi inferiori” e che “minano la mobilità sociale”. Ne sono un esempio l’attacco al matrimonio o le richieste di definanziamento della polizia – che è sono frequenti tra le élite progressiste. Matrimonio e polizia sono istituzioni vitali per la protezione e la mobilità dei membri delle classi inferiori, mentre le classi alte possono permettersi di farne a meno.

Il riconoscimento delle identità non binarie e, in questo contesto, l’attenzione alle “femministe queer” in Occidente sembrano svolgere una funzione simile. Rappresentano un segno di distinzione, una via attraverso cui i più abbienti possono accrescere il proprio status. Si è così aperti da riconoscere tutti i generi, in contrasto con le masse imprigionate nei vecchi schemi di pensiero. Seguendo Bourdieu, Steffen Mau, Thomas Lux e Linus Westheuser per definire questo atteggiamento usano l’espressione “inclusività esclusiva”: semanticamente include, ma socialmente esclude.

Il filosofo morale Philipp Hübl ha dedicato un intero libro a questa lotta di status. La domanda umana di riconoscimento sociale comprende anche la ricerca di uno status sociale: oltre alla ricchezza, alle conoscenze, alle competenze, alle relazioni e all’attrattiva, di recente anche la moralità è entrata a far parte dei beni di status. I media digitali forniscono la piattaforma per un impegno costante nella gestione della reputazione.

Ma queste rivendicazioni morali non promettono alcun miglioramento per i problemi sociali di chi sta peggio.Quando la violenza contro le donne diventa violenza contro FLINTA (donne, lesbiche, intersessuali, non binarie, trans e agender), allora la cerchia delle persone colpite viene effettivamente definita in modo più ampio, ma la causa (le strutture patriarcali) rimane non identificata.

Oppure prendiamo la crisi dell’assistenza. Chi la soffre sono soprattutto le donne: non pagate a casa per i lavori di cura svolti e mal pagati e con pessime condizioni nel mercato del lavoro. In Occidente, poi, il peso della cura ricade in misura sproporzionata sulle donne migranti dal Sud globale e dall’Europa dell’Est. Se, però, in nome dell’inclusione, le donne privilegiate vengono definite cis, , e se due sessi non sono sufficienti a descrivere il problema insito nelle strutture patriarcali, allora viene meno il linguaggio necessario per articolare e affrontare adeguatamente questo sconvolgente stato di cose.

Meccanismi psicologici. Se, non ci si vuole accontentare di comode spiegazioni che confermino il proprio buonismo, ovvero che ogni resistenza alle richieste woke sia “inimicizia di gruppo” (sessismo, razzismo, transfobia e simili), un prodotto dell'” anormalizzazione della giustizia sociale” vale la pena esplorare anche le funzioni svolte dalle interpretazioni e dalle strategie woke in termini di psicologia individuale e di gruppo. Esther Bockwyt offre utili strumenti analitici. Non pretende che i woke “siano gli altri e noi normali possiamo individuarli”. Descrive i meccanismi psicologici presenti in tutti noi – anche in quelli che sono critici – favorendo una maggiore comprensione e auto-riflessione.

 Bockwyt riconosce certamente che ci sono disuguaglianze da combattere, ma riconosce anche che le lotte sociali sono talvolta utilizzate in modo improprio come strategie che offrono sollievo individuale. Il carattere oggettivo dell’offesa viene a perdersi e tutti dovrebbero seguire ciò che dà sollievo psicologico a se stessi e al proprio gruppo.

La negazione dei criteri intersoggettivi finalizzati a individuare le offese e la discriminazione comporta la scomparsa di una realtà condivisa. Inoltre, se si deve sempre credere a chi si sente svantaggiato, l’altro non può fare altro che rimanere in silenzio o affrontare la punizione collettiva. Questo è un aspetto sinistro del movimento woke – il suo potenziale repressivo, il bullismo e altre tecniche adottate per mettere a tacere gli oppositori.

In psicologia, un processo terapeutico è nel migliore dei casi un processo aperto: non può risolversi in una “affermazione”. Il terapeuta deve aiutare il paziente a riconoscere e mettere in discussione i propri vicoli ciechi e le narrazioni ricorrenti che non aiutano. I nostri sentimenti non sempre sono i migliori consiglieri, eppure il movimento progressista sembra spesso affermare che i sentimenti non solo sono legittimi, ma vanno sempre creduti – se si proviene da una posizione di minoranza. I sostenitori di questa “epistemologia del punto di vista”, tuttavia, potrebbero tornare a una delle sue madri fondatrici, Donna Haraway, che nel suo testo classico dichiarava che i posizionamenti degli assoggettati non erano esenti dalla necessità di un riesame critico, di una decodificazione, di una decostruzione e di una interpretazione – non erano posizioni “innocenti”.

Bockwyt trae dalla psicologia sociale anche la dinamica “ingroup-outgroup”, in cui l’outgroup viene presentato come omogeneo e costruito sulla base di uno schema amico-nemico. Cosa serve, invece, è il “groupthink”. L’osservazione non è certo limitata al movimento woke, in quest’ultimo, però, la dinamica appena indicata è diffusa. Spesso porta a studi “noi contro loro” nel mondo accademico, come dimostra questo articolo ampiamente citato che identifica qualsiasi opposizione al movimento woke come un discorso contro-egemonico a danno di chi vuole “combattere il fascismo, condannare la discriminazione e contestare i discorsi d’odio”.

Approccio relazionale. Ondřej Slačálek ha riconosciuto che le richieste dei “progressisti” sono spesso presentate come se non fossero altro che l’applicazione di principi liberali di base, come l’uguaglianza, che non possono avere alcun legittimo oppositore: “questa rivoluzione non vuole essere una rivoluzione; è una rivoluzione che si autodenuncia”. Tuttavia, il bisogno umano di riconoscimento può arrivare a un vero e proprio ricatto emotivo: posso esistere solo se gli altri convalidano la mia identità. È qualcosa di completamente diverso voler essere visti come uguali e trattati allo stesso modo come donne o lesbiche o persone appartenenti a una minoranza etnica.

Se tutti devono non solo trattarmi allo stesso modo, ma anche percepirmi nel modo in cui voglio (come uomo o persona non binaria in un corpo femminile, per esempio), gli altri esseri umani sono chiamati a rinunciare alle loro percezioni. 

Slačálek propone un approccio relazionale: invece di opporre “noi contro loro”, dovremmo analizzare le discussioni su woke e cancel culture come dibattiti e lotte. Il campo discorsivo è complesso, con posizioni diverse, e ci possono essere anche interconnessioni. Per questo motivo, è meglio non cadere nelle trappole degli imprenditori della polarizzazione(siano essi di destra o progressisti), sia dal punto di vista analitico che da quello politico.

Molti, tra i liberali e le persone di sinistra che criticano i fenomeni woke, invocano un ritorno a una concezione positivista della scienza e a una concezione razionale della sfera pubblica che delegittima gli affetti. Sebbene la completa negazione dei fatti o la loro messa tra virgolette, cui si dedicano alcuni scienziati sociali critici, non abbia certo giovato alla reputazione della disciplina, non si può rimettere il dentifricio nel tubetto.

La ricerca in questo campo o, più in generale, il pensiero critico, non dovrebbero né difendere gli attuali movimenti emancipatori, con tutti i loro obiettivi e le loro strategie, come se fossero al di là della critica, né desiderare i “bei tempi andati”, sia del conservatorismo che del positivismo. Sembra più promettente riconoscere il nucleo emancipatorio e, proprio per salvarlo, esaminare criticamente gli sviluppi attuali, che non possono essere compressi in una logica dicotomica.

Negli ultimi decenni, le teorie critiche hanno fatto molto per comprendere come le istanze emancipatorie abbiano offerto false diagnosi o false cure, si siano trasformate nel loro contrario o abbiano legittimato uno status quo iniquo. Possono essere usate ancora per questo. Dopo tutto, anche i movimenti progressisti sono un prodotto del loro tempo e dei loro contesti.


* Questo articolo è stato originariamente pubblicato in inglese su Social Europe (www.socialeurope.eu) il 15 luglio 2024.

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