La politica economica degli equilibristi ed illusionisti

Civil Servant si occupa delle critiche rivolte ai provvedimenti che anticipano l’età della pensione e garantiscono sussidi ai meno abbienti, sostenendo che tali critiche si basano largamente su modelli teorici ed empirici discutibili, in cui il principale freno allo sviluppo è rappresentato dalla disponibilità di forza lavoro. Secondo Civil Servant questa ipotesi è infondata in base all’esperienza storica e non considera il rischio concreto che nei prossimi decenni la tecnologia sostituisca gran parte del lavoro umano.

Molte delle previsioni catastrofiche sulle conseguenze del reddito di cittadinanza e di “quota 100” diffuse da vari organismi internazionali si basano su un uso piuttosto spregiudicato del paradigma dell’equilibrio economico generale, lo stesso che è stato impiegato negli ultimi anni per decantare le virtù delle riforme restrittive delle pensioni e della liberalizzazione del mercato del lavoro.

Un esempio di questa impostazione è il recentissimo rapporto dell’OCSE sull’Italia (OECD, Economic Surveys, Italy, aprile 2019), che suggerisce di perseguire la crescita economica, il benessere e l’inclusione sociale attraverso un programma di riforme dal lato dell’offerta, che aumenterebbero la capacità produttiva potenziale dell’economia. Secondo l’OCSE, queste misure sarebbero più che sufficienti a compensare gli effetti recessivi di un piano di riduzione del debito pubblico che prevede avanzi primari dal 2% al 3,3% del PIL ogni anno. Un cardine del programma di riforme proposto è il rafforzamento degli incentivi al lavoro, con l’abolizione di quota 100 e la riduzione dell’importo del reddito di cittadinanza al 70% della soglia di povertà relativa, combinata con politiche attive più energiche e con la riduzione del cuneo fiscale sui lavoratori a basso salario e sui secondi percettori di reddito del nucleo familiare.

Queste raccomandazioni discendono dall’uso di una classe di modelli denominati DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium), largamente utilizzati per simulare gli effetti complessivi dei provvedimenti di politica economica, basati sull’ipotesi che i mercati tendano spontaneamente verso una situazione di equilibrio che può essere favorita rendendo prezzi e salari più flessibili. Su questi modelli pesa lo scetticismo manifestato dal premio Nobel Robert Solow che, pur essendo un economista molto ortodosso, nel 2010 sostenne davanti ad una commissione del Congresso americano che i DSGE non superavano neanche lo “smell test”. Quest’ultima espressione, che in inglese equivale più o meno ad “un giudizio a lume di naso”, evoca inevitabilmente il cattivo odore che promanerebbe da questi modelli. Eppure per quasi tutti i centri di ricerca i DSGE e i loro risultati “non olent”, esattamente come i proventi di un’imposta istituita dall’imperatore Vespasiano ed antenata della TARI e della TASI.

In effetti, quasi tutti gli economisti delle ultime generazioni sono stati tirati su a pane ed equilibrio economico generale. Si è trattato probabilmente del contrappasso per quanti negli anni ’50 e ‘60 pronosticavano, ad ogni minima oscillazione dei mercati, l’imminente esplosione di tutte le contraddizioni del sistema capitalistico, con la conseguente rottura di qualsiasi equilibrio. Solo pochi intravedevano un futuro incerto in cui risultava ammissibile più di uno scenario sostenibile anche nel lungo andare, seguendo forse la suggestione della meccanica quantistica, in cui le particelle possono assumere molte configurazioni differenti, tutte più o meno stabili. Gli economisti hanno sempre guardato con sospetto agli equilibri multipli, considerandoli poco più che scherzi della matematica generati dalla complessità dei modelli dinamici utilizzati per descrivere l’economia, come fecero inizialmente anche i fisici davanti alla previsione dell’esistenza dei buchi neri. Eppure perfino Walras, che introdusse il concetto di equilibrio economico generale quasi 150 anni fa, riconosceva che, a rigore, le sue equazioni potevano avere pirandellianamente una, nessuna o centomila soluzioni diverse. Quello di un equilibrio unico era dunque solo un caso particolare che, per di più, era raggiunto solo “a tentoni” dagli operatori economici.

Purtroppo, le condizioni e le ipotesi particolari che determinano alcuni risultati passano progressivamente in secondo piano e sono date per scontate una volta che questi ultimi siano stati incorporati nella teoria comunemente accettata. È successo così anche con le condizioni per l’unicità della soluzione dei modelli di equilibrio economico generale, che sono talmente complicate e irrealistiche da essere sintetizzate in quello che è chiamato comunemente il “teorema del tutto va bene”, invece che col nome di chi lo ha faticosamente formulato nei primi anni ‘70, ossia Sonnenschein, Mantel e Debreu.

Una decina di crisi sistemiche si sono incaricate di far tornare d’attualità quelle “bolle” e quegli equilibri degeneri che vengono normalmente esclusi da qualsiasi modello più o meno artificiosamente. Così abbiamo visto alcuni governi pretendere una ricompensa (costituita dagli interessi negativi sul debito pubblico) da chi gli presta denaro; ruspe che distruggono frutta e animali che altrimenti avrebbero fatto crollare i prezzi agricoli; gas e petrolio ricacciati sotto terra pur di stabilizzarne le quotazioni; i corsi di titoli che oscillano senza nessuna relazione con i profitti degli emittenti o il valore degli asset sottostanti; ecc. In poche parole, abbiamo attraversato buchi neri che avrebbero dovuto rappresentare l’incubo di qualsiasi economista serio. Davanti a questa debacle della teoria economica prevalente perfino una regina si è chiesta come mai nessuno avesse previsto l’ultima crisi economica globale.

Nonostante ciò, un esercito di tecnici e ragionieri si ostina ad utilizzare modelli che prevedono l’immancabile raggiungimento di un equilibrio generale soddisfacente per tutti e senza troppi interventi pubblici. Invece di nascondersi nella jungla come alcuni superstiti dell’esercito nipponico dopo la seconda guerra mondiale, questi “equilibristi” recidivi continuano a fare pronostici sulle conseguenze delle varie politiche economiche senza apparente contraddittorio. Visti gli interessi in gioco, non si può escludere che tra questi virtuosi dell’equilibrio si nascondano anche parecchi “illusionisti”, pienamente consapevoli dei limiti dei propri modelli, ma ansiosi di convincere un pubblico non troppo attrezzato e critico che è indispensabile ridurre il ruolo dello stato nell’economia e il potere contrattuale dei lavoratori per rilanciare l’economia.

Un cavallo di battaglia di questi giocolieri dell’economia è la critica di qualsiasi provvedimento che riduca, seppure marginalmente, l’offerta di lavoro. In effetti, in un mondo in cui le oscillazioni dei prezzi finiscono per annullare qualsiasi divario tra domanda e offerta, almeno sul lungo periodo, limitare la disponibilità di un fattore produttivo essenziale come il lavoro o aumentarne il costo non può che determinare una contrazione della produzione potenziale. Quindi un sussidio di disoccupazione o assistenziale che non sia estremamente limitato nel tempo e nell’ammontare, oppure la possibilità di ritirarsi prima dal lavoro, sarebbero provvedimenti dissennati perché riducono l’ammontare di beni e servizi di cui può usufruire l’intera collettività. Al contrario, una maggiore flessibilità dell’impiego dei lavoratori e della loro retribuzione, al pari di quella di qualsiasi altro bene o servizio utilizzato nella produzione, non potrebbe che accelerare la convergenza verso una situazione ideale in cui tutti trovano una occupazione, seppure precaria, insoddisfacente e mal pagata anche nel lungo periodo. Non viene neanche considerata l’eventualità che questa occupazione aggiuntiva, proprio perché realizzata abbassando i salari marginali, sia creata in settori a basso valore aggiunto, destinati ad essere spiazzati nel giro di qualche anno da prodotti importati da paesi meno sviluppati, in una corsa al ribasso che probabilmente non ha fine. Uno dei possibili esiti di questa spirale è l’azzeramento dei salari, che è proprio una delle condizioni che viola il famoso teorema del tutto va bene. Forse anche questa è una forma di “equilibrio”, ma è sicuramente indesiderabile e instabile, se non altro perchè trascura le sue conseguenze negative sulla coesione sociale e sul benessere della collettività.

Ovviamente quasi nessuno è così naïf da utilizzare modelli di questo tipo senza ipotizzare prezzi poco flessibili, fenomeni di isteresi, limiti inferiori alle retribuzioni reali e contribuenti solo in parte “ricardiani” (ossia che vedono il debito pubblico solo come una forma di tassazione dilazionata nel tempo), tutti fattori che rallentano il raggiungimento di un equilibrio economico completo, stabile e soddisfacente per tutti. Tuttavia, anche con questi correttivi, le proprietà fondamentali di questi modelli e le relative prescrizioni di policy restano più o meno le stesse: per accelerare lo sviluppo e diminuire la disoccupazione è indispensabile convincere più gente possibile a lavorare…ad ogni costo.

Un tipico esempio di illusionismo è contenuto nel Documento Economico Finanziario approvato dal governo all’indomani dell’introduzione del Jobs Act, che pronosticava una crescita del Pil dell’1,3% a regime dovuto alla sola liberalizzazione del mercato del lavoro, cui si sarebbe aggiunto un altro 0,4% per la riduzione del cuneo fiscale. Nel complesso, le riforme strutturali suggerite dagli equilibristi avrebbero fatto salire la produzione di 7,2 punti percentuali vedi DEF 2015, p. 101 della sezione III, parte I). Purtroppo nulla di tutto ciò sembra essersi verificato, a meno di immaginare che senza quelle misure il Pil italiano sarebbe andato in recessione dal 2015 ad oggi. La fallacia logica, prima che teorica, di queste ed altre bombastiche previsioni è che non basta stimolare la produzione potenziale per far crescere anche quella effettiva, esattamente come è inutile aumentare la potenza delle auto e togliere i limiti di velocità se poi si è costretti a viaggiare a passo d’uomo per il traffico e perché le strade sono tortuose e piene di buche.

Come se non bastasse, anche i modelli di equilibrio più sofisticati sembrano trascurare il fatto che il progresso tecnologico ha sempre condotto ad una riduzione dell’impiego del fattore lavoro, quindi l’ultimo dei problemi che ci troveremo a fronteggiare in un prossimo futuro dovrebbe essere proprio la scarsità di manodopera. Forse avremo problemi di disponibilità di terre fertili, risorse naturali, aria e acqua pulite, ma non di persone disposte a lavorare. Contrariamente a quanto raccomandato da chi crede nei DSGE, per limitare la disoccupazione, sarebbe dunque necessario ridurre le ore lavorate pro-capite, senza temere che questo taglio abbia alcun riflesso negativo sulla produzione potenziale. Anzi, solo il tempo sottratto al lavoro potrebbe favorire la domanda di beni e servizi in grado di assorbire tutta la produzione potenziale. A quel punto, il problema sarebbe solo quello di assicurare un’equa distribuzione delle risorse attraverso un aumento del salario orario, consentito peraltro dalla crescita della produttività. E qui tornerebbero in gioco proprio i vituperati sussidi e l’anticipo della pensione. Al contrario, sarebbero controproducenti gli inviti a perseguire progetti di vita basati sulla formula 9-9-6, che prescrive di lavorare dalle 9 di mattina alle 9 di sera, riposandosi al massimo la domenica, come ha suggerito recentemente Jack Ma, fondatore del gigante cinese dell’e-commerce Alibaba, (vedi https://forbes.it/2019/04/16/orario-di-lavoro-jack-ma-difende-il-metodo-996-12-ore-lavorative-per-sei-giorni-a-settimana/).

Naturalmente non si può pretendere che un semplice modello matematico possa essere così smart da tener conto di tutto questo, ma gli “illusionisti” che li usano dovrebbero farlo prima di formulare le loro “raccomandazioni” ai governi di tutto il mondo. Un atteggiamento pragmatico ed intellettualmente onesto suggerirebbe almeno di far precedere simili pronunciamenti da una avvertenza iniziale che suona più o meno come: “Queste raccomandazioni scontano il fatto che l’economia convergerà verso un’unica configurazione di equilibrio e che l’offerta di lavoro sarà sempre il principale limite allo sviluppo dell’economia”. Senza queste avvertenze si ricade nella pubblicità ingannevole e nell’abuso della credulità popolare.

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