In Italia, ormai da anni, il dibattito sulle pensioni è molto acceso e trova difficilmente una sintesi nelle scelte della politica. Anzi, ad essere onesti, proprio la politica ha alimentato un dibattito sterile, spesso portato avanti con un unico obiettivo: ottenere con vari slogan il consenso degli elettori. In realtà, dovremmo affrontare il tema della previdenza con un altro obiettivo; quello di rendere il sistema più equo e sostenibile. Qualsiasi intervento sul sistema previdenziale non accompagnato da interventi strutturali nel mercato del lavoro rischia comunque di non dare alcun risultato.
Le trasformazioni dei processi produttivi e, più in generale, del mercato del lavoro, delineano una cornice sempre più critica, che impone ai decisori e ai diversi attori sociali precisi indirizzi normativi e di politica economica per orientare il cambiamento nella giusta direzione. Negli ultimi decenni, il lavoro è diventato sempre più povero, povero di diritti e con bassi salari. La crescente flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, progressivamente trasformatasi in precarizzazione e discontinuità lavorativa, è accompagnata da basse retribuzioni e mancanza di garanzie e tutele sociali.
A questo quadro va assolutamente aggiunto un altro fattore determinante: quello demografico. L’Istat rileva il continuo invecchiamento della popolazione. Se ne dessimo una rappresentazione grafica emergerebbe una piramide delle età rovesciata, con sempre più persone anziane e sempre meno bambini e giovani. L’indice di vecchiaia – cioè il numero di persone di 65 anni e più per ogni 100 giovani di 0-14 anni – cresce dal 187,6% del 2021 al 193,1% del 2022, ma solo dieci anni prima era pari al 148,7%.
Di anno in anno cresce anche la speranza di vita (a parte il periodo del Covid). Nel 2022 era pari a 80,6 anni per gli uomini e a 84,8 anni per le donne. Insieme, calo demografico e allungamento della speranza di vita, dovuto alle migliori condizioni in cui viviamo, mettono in crisi un sistema previdenziale pubblico basato sulla ripartizione. Le conseguenze sono immediatamente evidenti: le risorse per pagare le pensioni diminuiscono perché ci sono meno persone attive e più persone in età da pensione. Il rapporto tra attivi e pensionati, oggi all’1,4 rischia di scendere a 1 nel 2050. Per tutto ciò già oggi sarebbero necessarie politiche rivolte alla natalità con una prospettiva ultra-ventennale e politiche migratorie, vista l’inevitabile necessità di avere “nuovi lavoratori”.
Negli ultimi vent’anni, l’economia italiana ha ristagnato con ripercussioni profonde sui salari, sulla produttività e sul benessere delle famiglie. Dal 2000 al 2022 il PIL è cresciuto solo del 5,1%, significativamente meno di Spagna (34,5%), Francia (28,9%) e Germania (28,1%). La produttività, misurata come valore aggiunto per occupato, è aumentata solo dell’1,6%, mentre in Francia, Germania e Spagna è cresciuta rispettivamente del 24,1%, 14,9% e 14,6%. Questo ha comportato un impoverimento progressivo, con salari medi inferiori ai livelli del 2000 e le famiglie in povertà assoluta cresciute dal 3,6% del 2005 all’8,3% del 2022.
In un simile contesto l’adesione a una forma di previdenza complementare, come i fondi pensione negoziali, diventa una scelta importante per le lavoratrici e i lavoratori italiani, sempre più necessaria per tutelare il tenore di vita anche in età avanzata e il proprio futuro pensionistico.
Come si è detto, il nostro sistema previdenziale pubblico, di primo pilastro, si basa sulla ripartizione: le pensioni attualmente erogate vengono pagate utilizzando i contributi versati dai lavoratori in attività. Per poter funzionare in modo efficiente, questo meccanismo richiede crescita economica e crescita demografica, che nel nostro Paese sono in forte contrazione.
Tutti questi fattori concorrono in maniera diretta a determinare il tasso di sostituzione ovvero il rapporto – misurato in termini percentuali – tra l’ultimo stipendio percepito dal lavoratore e il suo primo assegno da pensionato. Il tasso di sostituzione, dunque, misura la contrazione del reddito percepito, che si va ampliando per le ragioni fin qui illustrate. Più basso è questo rapporto, maggiore sarà l’impatto dell’uscita dal mondo del lavoro sul tenore di vita dell’individuo.
Per effetto delle riforme degli ultimi decenni – dalla Riforma Dini alla legge Monti-Fornero – il tasso di sostituzione garantito dalla previdenza pubblica obbligatoria è diminuito, generando incertezza sul futuro dei giovani, che più degli altri pagano il passaggio al sistema contributivo. In passato, prima della Riforma Dini del 1995, o comunque prima del 2012 quando gli assegni delle coorti più anziane erano calcolati esclusivamente con il retributivo, il sistema garantiva un reddito pensionistico all’incirca dell’80% degli ultimi stipendiin corrispondenza di 40 anni di contributi. L’aliquota di rendimento era, infatti, del 2% per ogni anno di contribuzione.
Il sistema contributivo ha, invece, legato il valore dell’assegno pensionistico alle retribuzioni percepite nell’arco dell’intera vita lavorativa. Per comprendere l’andamento nel tempo del tasso di sostituzione, sono utili le stime fatte dalla Ragioneria generale dello Stato. Analizzando quelle relative ai lavoratori dipendenti del settore privato con anzianità contributiva pari a 38 anni, risulta che il tasso di sostituzione netto (cioè al netto delle imposte) passerà dall’82,7% del 2010 al 67,2% del 2070.
Facciamo un esempio concreto, considerando uno stipendio di 1.500 euro. Se il tasso di sostituzione è pari al 67,2%, la pensione ammonterà a 1.008 euro. In questo quadro la previdenza complementare può essere una leva utile da affiancare alla previdenza del primo pilastro, già in questa fase, visto che attualmente accedono alla pensione lavoratrici e lavoratori che hanno più di due terzi delle posizioni liquidate con il sistema contributivo.
Sappiamo bene che, all’interno dello schema contributivo, il tasso di sostituzione potrebbe essere più alto per coloro che hanno oltre 40 anni di contribuzione e una retribuzione elevata. Bisognerebbe, però, ricordarsi che coloro che hanno carriere “piene” e lunghe sono un numero limitato. Alcuni studi mostrano, ad esempio, che circa la metà degli entrati in attività fra il 1996 e il 1998 ha accumulato nei primi 20 anni di carriera una quantità limitata di contributi, inferiori a quanto avrebbe accumulato nello stesso periodo un dipendente con retribuzione reale costantemente intorno ai 12.000 euro annui. E il quadro, come prevedibile, diventa ancora più fosco per le donne.
Se questa è la fotografia, forse avremmo bisogno di concentrarci sulle posizioni più fragili e su queste la previdenza complementare può giocare un ruolo funzionale.
Sottoscrivere una forma di previdenza complementare, come il fondo pensione negoziale, conviene per diversi motivi, a partire dal fatto che il datore di lavoro è tenuto a versare un contribuire contrattuale al fondo pensione del dipendente, incrementando il capitale accumulato. Importante soffermarsi sul contributo contrattuale, che da una parte è un “costo contrattuale”, e, dall’altra, un elemento di finanziamento del fondo pensione bilaterale chiamato a gestire la raccolta dei contributi per la previdenza complementare in base a contratti collettivi nazionali. Questa precisazione non è banale, visto l’interesse di diversi soggetti a smantellare queste regole proponendo la piena “portabilità” del contributo datoriale a qualsiasi tipo di fondo pensione, anche non negoziale, laddove l’attuale quadro normativo del secondo pilastro garantisce un sistema plurale, libero e concorrente, ma assegna a ciascun soggetto, in ragione delle sostanziali differenze (i Fondi Negoziali, istituiti dalla contrattazione, i Fondi Aperti ed i Piani Individuali Pensionistici, istituiti da SGR, SIM, Banche ed assicurazioni), un compito e una funzione precipua per favorire la raccolta del risparmio.
I fondi negoziali, in quanto associazioni senza scopo di lucro, hanno una struttura democratica, esercitano su mandato dei lavoratori e dei datori di lavoro le scelte migliori per garantire la più proficua gestione del capitale previdenziale. Proprio grazie a questo sistema ed alla concorrenza che ingenera tra le società di gestione del risparmio i Fondi Negoziali ed i lavoratori ad essi iscritti riescono a contenere i costi di gestione con vantaggio per gli aderenti.
Di contro, le forme di adesione individuale, Fondi pensione aperti e PIP, sono istituite da SGR, Sim, assicurazioni o banche ed il costo a carico dell’aderente contribuisce a remunerare la rete di promozione e vendita, a scapito del montante individuale e quindi, delle future prestazioni pensionistiche complementari.
Tornando ai vantaggi dell’iscrizione alla previdenza complementare, il fisco assume una certa rilevanza, in relazione sia ai contributi versati al fondo pensione, vista la loro deducibilità dal reddito imponibile fino a un massimo di 5.164,57 euro all’anno, sia alla tassazione delle prestazioni, la cui aliquota va dal 15% al 9% a seconda del numero di anni di adesione ai fondi.
I fondi pensione a loro volta investono i contributi raccolti, comprensivi dell’eventuale versamento del Tfr, in una serie di strumenti finanziari che, nel lungo periodo, possono offrire rendimenti superiori rispetto al Tfr o ad altre forme di risparmio. Nonostante i numerosi vantaggi, non tutti i lavoratori aderiscono a forme di previdenza complementare. Le ragioni possono essere molteplici: dalla scarsa informazione, ai costi percepiti alti, fino alla sfiducia nel sistema finanziario.
Per superare queste barriere è fondamentale promuovere un’adeguata educazione previdenziale che informi i lavoratori sui vantaggi della previdenza complementare e li aiuti a fare scelte consapevoli per il proprio futuro. In un contesto di crescente incertezza economica e demografica, l’adesione a un fondo pensione negoziale rappresenta una scelta strategica per garantire un futuro pensionistico dignitoso e tutelare il proprio tenore di vita anche in età avanzata.
I fondi negoziali rappresentano una parte vitale della previdenza complementare in Italia. Questi fondi hanno visto una crescita significativa negli ultimi anni, sia in termini di adesioni che di risorse ad essi destinate. Nel 2023, gli aderenti hanno raggiunto i 3,7 milioni e il valore delle risorse accumulate è stato di 67,9 miliardi di Euro. Nonostante ciò, la partecipazione complessiva alla previdenza complementare rimane bassa rispetto ad altri Paesi europei: solo il 36,2% dei lavoratori italiani sono iscritti, contro l’84% in Germania e il 93% nei Paesi Bassi.
Per mantenere un tasso di sostituzione adeguato, intorno al 80%, è essenziale aumentare la partecipazione alla previdenza complementare. Tuttavia, esistono ancora criticità, pochissimi giovani e donne risultano iscritti e vi sono interi comparti, come quelli della sicurezza e della difesa, che necessitano di interventi normativi per garantire l’attivazione della previdenza complementare.
In un contesto di stagnazione economica e di sfide demografiche, la previdenza complementare, dovrebbe essere rafforzata. A tal fine, sarebbe opportuno rilanciare le adesioni alla previdenza complementare negoziale, rendendola effettivamente accessibile anche a chi lavora nelle piccole imprese e ai giovani, attraverso la promozione di un Semestre di silenzio/assenso e una campagna informativa istituzionale specifica, come era stato fatto nel 2007. Altrettanto necessario è l’inserimento nella normativa di misure che tutelino la libertà di adesione, prevedendo che la scelta del lavoratore di trattenere il TFR in azienda avvenga in una sede che garantisca la libertà del lavoratore come i Patronati, le Organizzazioni sindacali, le sedi territoriali dell’Ispettorato del lavoro, gli Enti bilaterali e le Commissioni di certificazione. Sarebbe utile e un focus sugli investimenti dei fondi pensione, a partire da quelli nell’economia reale, ma occorrerebbe molto tempo per far comprendere il percorso che si sta portando avanti e i risultati che si stanno conseguendo attraverso il risparmio previdenziale delle lavoratrici e dei lavoratori che, come dimostrano i dati degli ultimi anni, hanno assicurato anche buoni rendimenti.