ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 186/2023

29 Gennaio 2023

La prospettiva del PNRR sull’università e i suoi limiti

Marino Regini esamina come il PNRR affronta i temi dell’Università e della ricerca. Dopo aver sostenuto che la Missione “Istruzione e ricerca” mira a fare dell’Università il motore di un modello di sviluppo basato su capitale umano e nuove conoscenze prodotte dalla ricerca, Regini indica due limiti principali del Piano: i) l’esclusiva concentrazione sul lato dell’offerta di formazione e ricerca; ii) la mancata considerazione che gli attori chiamati a elaborare e ad attuare le molte misure previste sono largamente impreparati al compito.

Il PNRR destina alla Missione 4 “Istruzione e Ricerca” ben 30,88 miliardi di euro, il 16% del totale dei fondi stanziati. All’interno di questa Missione gli investimenti relativi all’istruzione terziaria e alla ricerca in cui le università sono coinvolte pesano per circa il 45% (pari a circa il 7% di tutte le risorse del PNRR): un ammontare di risorse straordinarie che non ha precedenti in un Paese come l’Italia. Ma qual è l’idea di università implicita nel PNRR? Quali obiettivi si propone, e quali sono i limiti principali?

Diversamente da quanto indica il suo titolo, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza non si propone di favorire semplicemente la “ripresa e la resilienza” del tessuto economico italiano, ma di cambiare il modello di sviluppo nella direzione di quella knowledge-based economy proposta come obiettivo dall’agenda di Lisbona oltre 20 anni fa, ma mai perseguita in modo coerente in Italia. In una “economia della conoscenza”, università e ricerca svolgono un ruolo cruciale e vanno dunque modernizzate e adeguatamente finanziate. 

Non si tratta di un passaggio scontato né, come talvolta si sente dire, imposto dall’Europa, perché in realtà le tre grandi direttrici del Next Generation EU erano la transizione ecologica, la transizione digitale e la coesione sociale, non l’istruzione e la ricerca. Ma il nuovo modello di sviluppo che queste direttrici individuano ha come precondizione alti livelli di formazione di capitale umano e di produzione di nuova conoscenza, che possono essere garantiti solo da un sistema di istruzione e ricerca che superi i ritardi e le carenze storiche dell’università italiana. Dunque la visione dell’università implicita nel PNRR è quella di motore di un nuovo modello di sviluppo economico.

Si tratta di un’impostazione molto lontana da quella del tradizionale dibattito pubblico sul sistema universitario, tutto centrato sui suoi problemi interni e non sul tipo di contributo che l’università può dare allo sviluppo del Paese (Capano e Regini, in Politiche sociali, 2021). Con l’arrivo della pandemia e la conseguente crisi economica si diffonde infatti la consapevolezza che il superamento di questa crisi richiede anche di superare il modello di sviluppo perseguito in Italia negli ultimi decenni. Occorre puntare su prodotti a più elevato contenuto tecnologico e su servizi a più alto contenuto professionale, e tutto ciò implica forti investimenti in ricerca e una forza lavoro altamente qualificata. 

Possiamo perciò dire che il PNRR rappresenta una svolta radicale nel modo in cui in Italia si è tradizionalmente guardato all’università, e al tempo stesso un tentativo di superarne i ritardi storici. Infatti la visione dell’università implicita nel PNRR è sì quella di motore di un nuovo modello di sviluppo, ma di un motore che in Italia non è mai stato pienamente avviato, e che per poter funzionare ha bisogno di superare i suoi ritardi e le sue carenze storiche. Per questo la Missione 4 “Istruzione e Ricerca” si propone di partire proprio da quei ritardi: in maniera più specifica si propone di partire dal “riconoscimento delle criticità del nostro sistema di istruzione, formazione e ricerca”. 

Quali sono le criticità su cui il PNRR punta la propria attenzione? Sono soprattutto il basso tasso di laureati, a cui concorrono disuguaglianze sociali e territoriali molto più forti che nel resto d’Europa, e a cui si accompagnano alti tassi di abbandono; le difficoltà di inserimento dei laureati nel mercato del lavoro maggiori che altrove, nonostante che le indagini sulla domanda delle imprese mostrino una carenza di lavoro qualificato; il bassissimo tasso di dottori di ricerca sulla popolazione. Per quanto riguarda invece le criticità nella ricerca, l’ottima produttività e l’impatto dei ricercatori italiani non sembrano tradursi in una sufficiente competitività e attrattività internazionale delle nostre università, né tanto meno in una loro capacità di funzionare come motori dell’innovazione, trasferendo i risultati della ricerca al sistema economico. 

Il PNRR si propone di intervenire su queste criticità agendo sull’offerta, vale a dire sui modi in cui è strutturato e funziona il sistema dell’istruzione terziaria e della ricerca. La prima componente della Missione 4 prevede quindi riforme e investimenti per superare alcune delle tradizionali carenze nella formazione terziaria: cioè la debolezza del canale terziario professionalizzante, l’assenza di forme efficaci di orientamento, l’assoluta insufficienza del sostegno economico offerto a chi proviene da famiglie non benestanti, una formazione dottorale non adeguata a trovare sbocchi occupazionali al di fuori dell’accademia. 

La seconda componente si concentra invece sulla capacità della ricerca di diventare una leva dell’innovazione economica. Alla ricerca pura dedica relativamente poche risorse, mentre prevede investimenti rilevanti per creare alcuni “campioni nazionali” di R&S, “ecosistemi dell’innovazione” a livello territoriale, per finanziare partenariati estesi a università, centri di ricerca e imprese. Tutti strumenti che dovrebbero superare il problema della bassa capacità di circolazione delle conoscenze, ma che non affrontano il problema della scarsa competitività e attrattività internazionale delle università italiane, testimoniata dai bassi tassi di successo nei programmi di ricerca europei e dalla difficoltà di attrarre e di trattenere i migliori talenti. Problema che è almeno in parte dovuto a una dispersione dei migliori ricercatori di ciascuna area disciplinare fra i vari Atenei, che ostacola il formarsi di poli di ricerca molto attrattivi e competitivi internazionalmente, e la cui soluzione richiederebbe due condizioni: organi di governo dell’ateneo capaci di compiere scelte strategiche e selettive, e un Ministero in grado di operare una efficace “guida a distanza” del sistema, superando le resistenze corporative all’innovazione. Tornerò su questo punto nelle conclusioni.

Sintetizzati in questo modo la visione del ruolo dell’università implicita nel PNRR e gli obiettivi che ne discendono, resta ora da chiedersi se, anche all’interno di quella visione e di quegli obiettivi – che non intendo in questa sede mettere in discussione – non si manifestino limiti rilevanti che rischiano di comprometterne la realizzazione. Di seguito ne discuterò due.

Il primo limite si lega al fatto che il PNRR concentra gli interventi esclusivamente sul lato dell’offerta di formazione e ricerca, quasi si ritenesse che una maggiore offerta di capitale umano altamente qualificato e di collaborazione fra università e imprese sia di per sé sufficiente a creare anche una domanda di elevate competenze e di nuove conoscenze. Certamente le misure del PNRR relative alla digitalizzazione e alla transizione ecologica (le Missioni 1 e 2) potranno favorire l’aumento di tale domanda, ma non si pongono specificamente questo obiettivo. E’ difficile immaginare che, senza una precisa strategia di politica industriale, queste misure siano sufficienti a superare il modello di sviluppo economico tradizionalmente perseguito in Italia. È da questo modello, spesso definito una “via bassa” alla competitività (Burroni, Pavolini e Regini, Mediterranean Capitalism Revisited, 2021), che discendono sia il basso investimento in istruzione terziaria e in ricerca da parte dei governi, sia le scelte a lungo compiute dalle imprese.

Per quanto riguarda i governi, sappiamo che la spesa per istruzione terziaria in Italia è nettamente inferiore, in rapporto sia al numero degli studenti sia al PIL, a quella della maggior parte dei Paesi europei. Anche gli investimenti pubblici in R&S in Italia sono molto al di sotto di quelli della media dell’UE e meno della metà che in Germania. D’altro canto, quelli del settore privato sono poco più di un terzo. Il basso investimento in R&S è collegato al tipo di struttura produttiva italiana, caratterizzata da imprese piccole e piccolissime che spesso non sono propense a investire in attività di esplorazione sulle frontiere tecnologiche, che hanno meno probabilità di disporre di risorse interne per sostenere i rischi e i costi di progetti innovativi, e che possono anche mancare della capacità di assorbire le nuove tecnologie. 

Tuttavia, anche sul versante delle politiche pubbliche si registrano segnali di debolezza. Lo Stato italiano non solo spende poco, ma adotta interventi frammentari. Il contesto politico-economico post-pandemico in cui è stato varato il Next Generation Eu, e conseguentemente il PNRR, è caratterizzato da un superamento ancora molto timido e parziale della convinzione neoliberista che occorra lasciare alle forze di mercato la piena responsabilità e la direzione dello sviluppo, mettendole in condizione di operare senza troppi vincoli. L’idea prevalente è ancora che lo Stato finanzia e detta alcune regole generali ma non interviene con una politica industriale che espliciti gli obiettivi a cui legare la possibilità dei soggetti che agiscono nel mercato di accedere alle risorse pubbliche, e che sia quindi in grado di condizionarne le strategie. Da questo punto di vista la Missione “Istruzione e ricerca” del PNRR, con il suo obiettivo di colmare alcune carenze storiche del sistema universitario, pone quindi le condizioni necessarie ma non sufficienti affinché l’università e la ricerca possano diventare effettivamente il motore per un salto di qualità nello sviluppo economico e sociale del Paese. Senza l’avvio di una politica industriale che miri a riqualificare la domanda di elevate competenze e di nuove conoscenze da parte del sistema economico è assai difficile che questo salto di qualità si realizzi.

Il secondo limite è quello di non avere preso in considerazione il fatto che gli attori chiamati a elaborare e ad attuare la mole enorme di misure previste erano largamente impreparati a farlo, perché legati a modalità d’azione tradizionali, non adeguate ai nuovi compiti. In particolare, la mancanza di adeguati strumenti di indirizzo strategico da parte del MUR, quali ad esempio la mai istituita Agenzia Nazionale della Ricerca, lascia le università libere di seguire la tradizionale logica distributiva, vanificando gli obiettivi innovativi contenuti nel PNRR (v. i saggi contenuti nel volume Quale università dopo il PNRR? a cura di Regini e Ghio, 2022). Certo, non tutti gli atenei si stanno comportando in questo modo: molto dipende dalla leadership, dalle risorse amministrative preesistenti e dalla capacità di coinvolgere una pluralità di attori, e questo implica che gli esiti saranno per definizione variabili e nient’affatto scontati. Tuttavia, oggi più che mai occorrerebbe una svolta nella governance del sistema universitario, in grado di allineare su un’unica lunghezza d’onda il centro del sistema (cioè il Ministero), gli enti territoriali interessati e i singoli atenei, al fine di realizzare quelle condizioni a cui si è accennato in precedenza a proposito della creazione di poli di attrazione scientifica. 

In un libro di qualche anno fa (Capano, Regini e Turri, Salvare l’università italiana, 2017) si proponeva di raggiungere questo obiettivo mediante uno strumento che possiamo definire “programmazione negoziata”. Un termine con cui si intende un contratto tra il centro del sistema e ogni singolo ateneo con il quale ogni università accetta, in cambio di risorse finanziarie, di darsi un profilo chiaro e definito e obiettivi specifici da raggiungere. Questo richiede naturalmente un cambiamento culturale e un nuovo rapporto di fiducia reciproca, oltre che nuove competenze, in tutte le parti coinvolte. Gli atenei dovrebbero interpretare la loro autonomia non come libertà da ogni vincolo ma come un processo di elaborazione dal basso di obiettivi e strumenti specifici ma congruenti con quelli nazionali o territoriali. Il Ministero dovrebbe arricchire le competenze e le professionalità operanti al suo interno per indirizzarle non verso un semplice controllo di conformità delle azioni degli atenei con le direttive centrali, ma verso un processo dialettico di ascolto delle proposte che arrivano dalla periferia, di valutazione della loro congruenza con gli obiettivi di sistema, di negoziazione orientata non all’omogeneità degli interventi ma alla valorizzazione delle differenze.

Il non avere previsto uno strumento di questo genere costituisce forse il limite maggiore del PNRR rispetto alla possibilità di raggiungere gli obiettivi che si pone e alla sua stessa idea di università.

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