ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 187/2023

13 Febbraio 2023

La qualità del lavoro in Italia: un necessario legame tra imprese e lavoratori

Tiziana Canal e Matteo Luppi, utilizzando i dati dell’ultima (V) Indagine Inapp sulla qualità del lavoro, si concentrano su una tematica che, seppure di centrale importanza per lavoratori e imprese, riceve scarsa attenzione: la qualità del lavoro. Gli autori evidenziano un “doppio svantaggio” dei lavoratori italiani – rispetto al quale le imprese giocano un ruolo centrale - in termini sia di accesso al lavoro sia di sua qualità e sostengono che la qualità del lavoro può coincidere con una maggiore competitività delle imprese.

I dati diffusi dal Ministero del Lavoro sulle dimissioni registrate nel periodo gennaio-settembre 2022 hanno (ri)acceso il dibattito sul tema della great resignation anche in Italia. Il numero di rapporti di lavoro cessati per dimissioni (per giusta causa, durante il periodo di prova, giusta causa o giustificato motivo durante il periodo di formazione, recesso con preavviso al termine del periodo formativo) è raddoppiato dal 2018 raggiungendo nel 2021 i 3.243.489. Tuttavia, il fenomeno presenta ancora troppe luci e ombre per essere letto con la lente della resignation. Una lettura più convincente potrebbe forse essere quella della transition. Il mercato del lavoro italiano fra ripresa occupazionale e peggioramento delle condizioni lavorative, soprattutto per alcuni segmenti della popolazione, richiede analisi molteplici, differenziate e complementari. È necessario quindi uno sguardo più ampio, che tenti di “qualificare” oltre che quantificare, il tessuto produttivo italiano, per cogliere sia i cambiamenti strutturali in atto (sviluppo tecnologico e innovazione digitale, trasformazione dei modelli organizzativi, evoluzione della produttività e del costo del lavoro, ristrutturazioni e delocalizzazioni produttive, ecc.), sia per comprenderne gli effetti tra struttura produttiva, imprese e lavoro. Il complementare utilizzo fra gli indicatori di qualità del lavoro e quelli specificatamente di mercato (disoccupazione, occupabilità, retribuzione, ore lavorate, ecc.) può offrire, inoltre, una chiave di lettura in termini di policy advice, rispetto alle possibilità di crescita e sviluppo dei lavoratori nonché in relazione al ruolo delle imprese in termini di qualità del lavoro e quindi, indirettamente, anche riguardo al grado di attachment dei lavoratori. 

Recenti analisi Inapp realizzate utilizzando i dati della V indagine sulla qualità del lavoro in Italia (2021), rivolta ad un campione di 15.000 occupati (dai 18 anni) e 5.000 unità locali del settore privato extra-agricolo), possono offrire una chiave di lettura al riguardo. La misurazione dei livelli di qualità del lavoro della popolazione occupata, è stata sviluppata, in linea con quanto proposto in letteratura, in ottica multidimensionale. In particolare, attraverso un approccio concettuale che si rifà alle riflessioni sviluppate sul tema da Luciano Gallino e Michele la Rosa, utilizzando le cinque dimensioni della qualità del lavoro (economica, ergonomica, della complessità, dell’autonomia e del controllo), è stato caratterizzato il profilo dell’occupazione italiana rispetto a ciascuna dimensione, individuando quei segmenti che presentano bassi livelli di qualità e, all’opposto, quelle caratteristiche, dell’individuo e del suo profilo lavorativo, che ne fanno aumentare gli standard. I risultati evidenziano un crescente polarizzazione delle condizioni lavorative fra coloro che mostrano alti livelli di qualità del lavoro (uomini, altamente istruiti e qualificati, occupati nel Centro-Nord) e, all’opposto, donne, giovani e lavoratori del Mezzogiorno in posizione di svantaggio rispetto ai diversi aspetti che delineano la qualità del lavoro (retribuzioni, contratti, stabilità lavorativa, aspetti ergonomici, complessità del lavoro, possibilità di sviluppo e carriera, livelli di autonomia, etc.). Esiti che sottolineano il doppio svantaggio del mercato del lavoro italiano: ciò che determina le disuguaglianze generate dal mercato in termini di ingresso e mantenimento dell’occupazione è quasi interamente sovrapponibile a ciò che comporta differenti livelli di qualità del lavoro. 

Tali considerazioni, tuttavia, non si applicano indistintamente a tutte le realtà produttive. Le analisi descrittive condotte sulle imprese hanno infatti evidenziato un legame virtuoso fra un profilo organizzativo incline all’investimento nelle risorse umane (contratti stabili, formazione, autonomia e coinvolgimento nelle attività, disponibilità al work life balance, propensione allo smart working, etc.), le scelte strategiche e gli ambiti d’innovazione intrapresi. Un primo elemento di interesse riguarda la dimensione delle imprese. Le realtà che appaiono più virtuose sia in termini di qualità del lavoro (osservando i modelli di gestione e valorizzazione delle risorse umane) sia di propensione all’innovazione, sono quelle con 50-249 addetti. Al contrario, le realtà in maggiore difficoltà risultano essere quelle di piccolissime dimensioni (con 6-9 addetti, ma in particolare quelle con sino a 5 addetti), aspetto rilevato nella maggior parte delle evidenze empiriche presentate, oltre che confermato direttamente dalle stesse. Inoltre, i dati evidenziano come l’investimento nelle risorse umane, e la propensione all’innovazione e alla flessibilità organizzativa possano costituire un duplice beneficio sia per le imprese che per i lavoratori. 

Al fine di approfondire tale relazione si è scelto di focalizzare l’analisi, in prima battuta, sull’identificazione dei diversi modelli organizzativi nella gestione delle risorse umane per ottenere categorie interpretative utili ad una lettura più chiara di come le imprese si caratterizzano in relazione sia ad aspetti strutturali che a scelte strategiche, performance e outcomes. L’applicazione di un’analisi cluster incentrata su tre aspetti centrali relativi ai diversi modelli di gestione delle risorse umane (inquadramento contrattuale dei lavoratori, la flessibilità e l’orientamento produttivo e il grado di partecipazione e autonomia del lavoratore) ha permesso l’identificazione di quattro modelli organizzativi rappresentativi delle unità locali analizzate:

  1. le imprese “tradizionali di qualità” (49,7% delle imprese italiane), caratterizzate da una quota elevata di lavoratori a tempo indeterminato, una bassa propensione allo smart working e un discreto livello sia nella propensione all’innovazione sia nel promuovere la partecipazione e l’autonomia lavorativa; 
  2. le imprese “ibride” (20,0% delle imprese italiane) caratterizzate da una quota elevata di lavoratori a tempo determinato e una bassa propensione al lavoro agile, ma una discreta attitudine all’innovazione e al cambiamento superiore alla media nazionale; 
  3. le imprese “resilienti” (15,7% delle imprese italiane), che si caratterizzano per essere poco inclini alla stabilizzazione delle risorse umane (elevato utilizzo di contratti atipici), così come al cambiamento e all’innovazione, ed inoltre si contraddistinguono per un limitato grado di autonomia concessa ai lavoratori; 
  4. infine, le imprese “smart” (8,2% delle imprese italiane) che presentano una gestione delle risorse umane di qualità sia sotto il profilo dell’inquadramento lavorativo sia in termini di autonomia e partecipazione del lavoratore, con una propensione all’innovazione, al cambiamento e alla flessibilità organizzativa decisamente più elevata rispetto al resto delle imprese. 

L’analisi dei modelli organizzativi rispetto alle caratteristiche strutturali, quali la dimensione dell’imprese (misurata in numero di addetti), il settore economico e la macroarea territoriale evidenzia che, fatto salvo per il primo aspetto, ossia l’ampiezza delle imprese, in cui i cluster tendono a differenziarsi in modo significativo, con le smart maggiormente orientate a imprese di medie dimensione e le resilienti di piccole, nei restanti due aspetti le differenze principali riguardano il cluster relativo alle imprese smart. Quest’ultime sono concentrate prevalentemente nel settore “altri servizi” e nel Nord-Est a discapito del Sud e Isole dove sono meno presenti. Sono, invece, soprattutto le differenze rispetto a cambiamenti organizzativi, innovazione, ed effetti negativi generati dalla recente crisi Covid a risultare di particolare interesse.

Figura 1: Cambiamenti, innovazione e impatto percepito crisi Covid nei cluster di imprese identificati (Differenze relative rispetto alla totalità dell’UL analizzate – 0= valore medio nazionale) (anno 2021)

Le imprese smart, infatti, sono in quota minore fra quelle che hanno registrato elevati impatti negativi a seguito della crisi Covid. Inoltre, sono quelle che presentano l’incidenza maggiore fra le unità locali che hanno introdotto cambiamenti sia nell’organizzazione del lavoro che nei processi produttivi e ugualmente in termini di innovazione organizzative. Anche riguardo agli effetti generati da cambiamenti e innovazioni sono soprattutto le imprese smart a presentare l’incidenza maggiore per quanto riguarda gli effetti in termini di motivazione dei lavoratori, fatturato e produttività. Inoltre, queste imprese presentano le percentuali maggiori fra le unità locali che ritengono che il work-life balance sia una responsabilità dell’impresa e sono anche quelle che formano maggiormente i propri lavoratori.

Figura 2: Effetti generati da cambiamenti e innovazioni di processo, di prodotto e di modalità produttive nei cluster di imprese identificati. (Differenze relative rispetto alla totalità dell’UL analizzate – 0= valore medio nazionale) (anno 2021)

Gli esiti dei modelli di regressione logistica confermano il reciproco beneficio per lavoratori e imprese quando quest’ultime adottano un’orientamento attento alla qualità del lavoro. Al netto degli aspetti strutturali considerati (ossia: macroarea territoriale, settore economico, dimensione, anzianità, presenza Rsa/Rsu,  contrattazione di II° livello, quota lavoratori in formazione, modello organizzativo, così come delle innovazioni e cambiamenti introdotti e di ulteriore elementi che possono avere un impatto sulla qualità del lavoro, i risultati confermano che le imprese smart risultano meno esposte all’aver subuto impatti elevati dalla recente crisi e si caratterizzano per una maggior probabilità di valutare la propria performance finanziaria e la propria produttività del lavoro nettamente superiore rispetto alle imprese concorrenti operanti nello stesso settore economico.

Figura 3: Probabilità predette outcomes autopercepiti

La lettura congiunta di queste tipologie d’impresa rispetto all’impatto della crisi evidenzia che le imprese “smart”, capaci di coniugare condivisione e partecipazione organizzativa, elevata flessibilità organizzativa, propensione allo smart working e forte orientamento verso innovazione e cambiamento, sono quelle che hanno pagato meno lo scotto della recente crisi e che tendendo a considerare la propria produttività del lavoro e performance finanziare nettamente superiore ai competitors. Al contrario, le imprese rientranti nel modello ibrido, che presentano una quota di innovazione e cambiamento organizzativo superiore alla media, ma anche forti tratti di precariato strutturale, ridotta flessibilità di organizzazione lavorativa e limitata compartecipazione alla gestione organizzativa, hanno subito gli effetti più pesanti a seguito della recente crisi sanitaria. Questo dato indica che è una visione innovativa complessiva, sia organizzativa sia di prodotto, la strada da seguire per migliorare la qualità e la competitività delle imprese italiane. 

Occorre, pertanto, mantenere alta l’attenzione sulla qualità del lavoro tenendo conto del ruolo che decisori politici, imprese e parti sociali possono svolgere al riguardo, con l’auspicio che i futuri investimenti sul lavoro siano orientati dal duplice obiettivo di favorire il benessere organizzativo e gli interessi economici delle imprese, per investire in modelli di sviluppo meno fragili e più sostenibili, in grado di favorire le scelte di mobilità del lavoratore ed evitare fenomeni (tutti da verificare) quali la ‘great resignation’.

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