ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 185/2023

14 Gennaio 2023

La riforma delle regole fiscali

Giuseppe Pisauro considera la proposta della Commissione europea di riforma delle regole fiscali un importante passo avanti nella costruzione di un sistema di governo dell’economia della UE che tenga insieme le esigenze della stabilità finanziaria e il ruolo della politica fiscale a sostegno del livello di attività. In particolare, sono importanti l’adozione di un modello contrattuale tra Commissione e singoli paesi e la semplificazione degli indicatori di riferimento per le regole. Restano, tuttavia, questioni cruciali ancora da affrontare.

La proposta della Commissione europea di riforma delle regole fiscali del Patto di stabilità e crescita, di cui il Menabò si è già occupato, è un importante passo avanti, sebbene certamente non conclusivo, nella costruzione di un sistema di governo dell’economia della UE che tenga insieme le esigenze della stabilità finanziaria e il ruolo della politica fiscale. Si possono enucleare due punti fondamentali, uno di natura politica e l’altro più tecnico. Il primo è il passaggio da un sistema di regole rigide e uniformi a un approccio basato su un rapporto contrattuale tra singoli paesi e Commissione. Il secondo riguarda gli indicatori di riferimento delle regole: viene abbandonato l’armamentario basato su variabili non osservabili (prodotto potenziale, output gap e saldi strutturali), sostituito da un unico indicatore relativamente facile da misurare (la spesa primaria netta). 

I programmi fiscali strutturali di medio termine. Il sistema attuale (sospeso dal 2020 per far fronte ai riflessi economici della pandemia) è basato su un insieme di regole uniformi che fissano per tutti gli Stati membri obiettivi e percorsi di avvicinamento verso di essi. Ad esempio, l’obiettivo per il rapporto tra debito e PIL è il 60% (un valore fissato nel Trattato) e il percorso di avvicinamento per chi presenta valori superiori prevede una riduzione in ragione di 1/20 l’anno della distanza tra valore effettivo e obiettivo. Nei fatti questa regola è stata raramente rispettata ma ciò non ha mai portato all’apertura di procedure di infrazione perché la Commissione nella sua valutazione dei risultati può tener conto di una serie di “fattori rilevanti”. Insomma, ex ante un sistema di regole rigide e uguali per tutti ma una valutazione ex post nella quale entrano in gioco ampi margini di flessibilità e, in qualche misura, di arbitrarietà.

La proposta cambia radicalmente approccio. Sul debito si tende a tornare (ma, come vedremo non completamente) all’impostazione originaria del Trattato, per cui se si è oltre la soglia del 60% occorre che il debito diminuisca a “un ritmo soddisfacente”, senza fissarne a priori la misura. Viene riconosciuto esplicitamente – solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile – che l’applicazione della regola di 1/20 l’anno può essere controproducente per i paesi con debito elevato. Si tratta dell’abbandono del paradigma prevalente negli ultimi decenni che assegnava alla politica fiscale unicamente il compito di garantire la stabilità finanziaria, non riconoscendone l’efficacia come strumento per la stabilizzazione economica. 

Nella proposta il percorso di riduzione del debito dovrà basarsi su piani a quattro anni presentati dai singoli paesi e approvati da Commissione e Consiglio europeo. Non più quindi regole calate dall’esterno ma condivisione di un impegno politico del singolo stato nei confronti dei partner. Il più ampio margine di manovra garantito agli stati ha come contraltare una maggiore rigidità nella fase di applicazione: i piani dovranno essere rispettati lungo tutto l’orizzonte quadriennale e non potranno essere modificati se non a fronte di shock particolarmente rilevanti. In condizioni normali, deviazioni dal sentiero concordato comporteranno l’apertura automatica di una procedura di infrazione per disavanzo eccessivo. Dovrebbero così sparire le estenuanti trattative annuali e gli esercizi di fantasia per strappare nuovi margini di flessibilità. Interlocuzioni e trattative resteranno ma nella fase di predisposizione e approvazione del piano.

Questa descrizione racchiude la filosofia e il senso politico della proposta. Vediamola ora più in dettaglio. Innanzi tutto, i piani pluriennali non si limitano a disegnare una proiezione programmatica del bilancio pubblico, ma integrano obiettivi di riforme e di investimenti, da cui l’etichetta di national medium-term fiscal structural plans. Si ripropone così l’approccio seguito per Next Generation EU. L’enfasi sugli investimenti, in particolare, non comporta l’adozione di una golden rule, ma si traduce, come vedremo, in una sorta di clausola di flessibilità.

Per definire un ritmo soddisfacente di riduzione del rapporto tra debito e PIL, i paesi verrebbero divisi in tre gruppi, secondo l’intensità del problema di debito (debt challenge) che devono affrontare: sostanziale, moderata, bassa. Nel primo gruppo saranno classificati i paesi con debito elevato, probabilmente crescente a medio termine e/o con limitati margini di correzione. Per questi paesi, tra cui l’Italia, dopo al massimo quattro anni, la proiezione decennale a politiche invariate del debito dovrebbe collocarsi plausibilmente su un sentiero di diminuzione continua. I quattro anni possono essere estesi a sette se il piano include riforme e investimenti. Un programma di investimenti concordato comporterebbe quindi un ritmo più lento di riduzione del debito.

Il riferimento al medio termine invece che, come di fatto è avvenuto finora, al solo bilancio annuale è sicuramente opportuno. Si deve, tuttavia, essere consapevoli della grande incertezza di cui soffrono proiezioni decennali. Sarebbe forse preferibile limitarsi all’orizzonte quadriennale del piano che coincide con quello degli attuali programmi di stabilità (in Italia il Documento di economia e finanza). Tanto più che la valutazione dei percorsi di riduzione del debito verrebbe effettuata dalla Commissione sulla base di uno strumento, l’analisi di sostenibilità del debito (DSA, debt sustainability analysis), non particolarmente solido analiticamente, soprattutto per la forte sensibilità alle ipotesi di partenza. Il rischio è che, liberatisi finalmente di output gap e prodotto potenziale, la DSA, che tra gli ingredienti ha anche il prodotto potenziale, diventi la nuova “scatola nera” delle regole fiscali europee. 

Naturalmente c’è una grande differenza tra usare prodotto potenziale e output gap con finalità direttamente prescrittive (come avviene oggi) o, invece, come un elemento di valutazione insieme con altri (cosa del tutto legittima). E’ importante garantire, in ogni caso, che nel processo il ruolo di strumenti tecnici sofisticati ma poco robusti sia limitato. 

Valutazioni basate sulla DSA sono anche alla base del cosiddetto common framework: la pubblicazione da parte della Commissione, all’inizio del processo, di sentieri di riferimento compatibili con la sostenibilità del debito per i singoli paesi. Si sottolinea che si tratterà di indicazioni non vincolanti per i piani presentati dai paesi e per le successive discussioni bilaterali. Comunque è un aspetto – non presente in bozze precedenti della proposta – che rivela una tensione tra la novità di voler seguire un approccio “su misura” per i piani dei paesi e l’esigenza di mostrare uniformità di trattamento. 

Riguardo all’intenzione dichiarata con una certa enfasi (si veda la Figura 1 del documento della Commissione), di voler tener insieme le ragioni della sostenibilità del debito con quelle della crescita sostenibile, c’è ancora strada da percorrere. Si accenna alla necessità di affrontare in modo più incisivo di quanto non si sia fatto in passato gli squilibri macroeconomici, ammettendo esplicitamente, ad esempio, che l’Unione “ha avuto più successo nel ridurre i disavanzi delle partite correnti di quanto non sia riuscita per i persistenti e ampi surplus”. Ma da queste premesse non derivano conseguenze pratiche per il disegno del nuovo sistema, almeno nel Documento presentato.

Irrisolta è anche la questione dell’intonazione della politica fiscale per l’area nel suo complesso. Anche per i paesi con un problema di debito di intensità moderata o bassa resta la necessità di tendere, anche se più lentamente, verso l’obiettivo del 60%. Poiché il rapporto tra debito e PIL per l’euro zona è intorno al 90%, è plausibile attendersi un eccesso di prudenza della politica fiscale nel suo complesso. L’assenza di una significativa capacità fiscale centrale al livello del bilancio comune resta così il limite più importante del fiscal framework europeo. 

La regola sulla spesaIl secondo punto, di natura tecnica, riguarda lo strumento usato per verificare se il piano viene rispettato. Un risultato di bilancio diverso da quello fissato nel piano può dipendere semplicemente dall’andamento dell’economia. Il controllo della realizzazione del piano si deve quindi basare su un indicatore che non dipende dal ciclo. Nel sistema attuale l’indicatore utilizzato è il saldo strutturale, una misura del disavanzo corretta sulla base di variabili quali il prodotto potenziale e l’output gap, variabili non osservabili e soggette a revisioni infinite. Il loro utilizzo ha contribuito non poco al discredito delle regole attuali. Opportunamente la proposta della Commissione abbandona questo armamentario tecnico e affida la verifica a una “regola della spesa”, basata su un indicatore chiaro per tutti. 

La denominazione è per certi versi infelice e può generare confusione. Un equivoco in cui è caduto qualche commentatore, lamentando che essa costituisce un’indebita intromissione nella decisione sulla composizione del bilancio tra spese ed entrate e quindi sul perimetro stesso dell’intervento pubblico negli stati. In realtà, l’indicatore di spesa considerato è al netto non solo delle voci di spesa che risentono del ciclo (interessi e prestazioni di disoccupazione) ma anche delle misure discrezionali sulle entrate. In altre parole, nuove misure che aumentino voci di spesa non ciclica sono ammesse ma devono essere compensate da nuove misure sulle entrate (e viceversa per tagli di imposte). La “regola sulla spesa” proposta dalla Commissione è, insomma, una regola sulle voci non cicliche di entrata e di spesa del bilancio ovvero una regola sul saldo primario depurato dagli effetti del ciclo.

Va rimarcata, tuttavia, una questione trascurata nella proposta, maturata in un mondo senza inflazione. L’indicatore considera la spesa nominale e quindi errori di previsione sul tasso di inflazione su cui si basa la proiezione di bilancio comporterebbero variazioni non volute della spesa reale. Ad esempio, con un’inflazione più alta del previsto le entrate si aggiusterebbero automaticamente (le basi imponibili sono per lo più grandezze nominali) mentre voci di spesa come quella per consumi intermedi si ridurrebbero in termini reali. Per queste voci, l’indicatore dovrà essere aggiornato per neutralizzare l’effetto di errori di previsione sull’inflazione. 

Implicazioni per l’ItaliaQuali sarebbero? Innanzi tutto aumenterebbe il grado di condivisione nazionale delle regole fiscali, non più un oggetto misterioso imposto da Bruxelles ma, invece, la verifica del rispetto di un piano disegnato dal governo italiano. Ciò potrebbe finalmente portare parlamento e opinione pubblica a introiettare la nozione che, al di là dell’altezza su cui si pone l’asticella, esiste sempre un vincolo di bilancio. Avrebbe poi un valore pedagogico: costringerebbe a ragionare su un orizzonte ampio e non più soltanto annuale. I progetti di bilancio italiani sono sempre stati basati sul rinvio delle misure correttive nella tacita convinzione che poi sarebbe seguito un nuovo rinvio. Esemplare la vicenda della clausola IVA, un tormentone che ha segnato le leggi di bilancio per quasi dieci anni. Abbandonare questo schema, cui non si sottrae l’ultima NADEF, ci farebbe acquistare credibilità presso partner europei e mercati finanziari e, per questa via, ridurrebbe e stabilizzerebbe i tassi di interesse sul debito.

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