La scuola, il merito e la competizione: alcune considerazioni sulla (nuova) riforma della scuola

Stefania Gabriele si occupa di scuola, in relazione al progetto di riforma presentato dal governo Renzi. Gabriele ricorda i punti principali di questo progetto e si sofferma sulle assunzioni degli insegnanti e la riapertura dei concorsi, da un lato, e sul ruolo (decisamente problematico) che il governo sembra orientato ad assegnare al “merito” non solo nelle carriere degli insegnanti ma anche nella complessiva governance del sistema, dall’altro.

Il Rapporto contenente la proposta di riforma della scuola del Governo Renzi ha un titolo – “La buona scuola” – che riecheggia quello del Libro bianco (2009) dell’ex Ministro Sacconi, “La vita buona nella società attiva”, sul futuro del modello sociale secondo il centro-destra. Appare degno di attenzione l’uso ripetuto di un linguaggio volto a espungere qualunque traccia di scelta politica dall’operato del governo – qualsiasi governo –, come se si trattasse di materia sulla quale vi sono non profonde controversie ma piccole divergenze di carattere tecnico.

La proposta si articola in quattro filoni di intervento principali: la dichiarata intenzione di riprendere a investire risorse nella scuola, rompendo con le scelte del passato (riforma Gelmini); la revisione delle regole di reclutamento, formazione e remunerazione degli insegnanti e dei dirigenti, e in particolare il nuovo meccanismo di retribuzione degli insegnanti, volto a premiare il merito piuttosto che l’anzianità nella carriera, con l’obiettivo di attribuire uno scatto triennale solo ai due terzi degli insegnanti considerati più capaci; la rivisitazione dell’autonomia scolastica e l’apertura ai privati, nel finanziamento delle scuole, nell’uso pomeridiano degli stabili, nella gestione dell’alternanza scuola-lavoro; la revisione dei programmi, con un maggiore spazio per la storia dell’arte, la musica, l’educazione artistica, e il rafforzamento delle lingue, dell’informatica e dell’economia.

Queste note si soffermano sui primi due punti. Il terzo sarà trascurato anche perché il Rapporto non sembra discostarsi significativamente dalla discutibile impostazione della riforma Gelmini e del decreto legge 104/2013 del governo Letta [1. Sulla riforma Gelmini-Tremonti si rinvia a S. Gabriele, Le recenti riforme, la riduzione dei finanziamenti e i problemi irrisolti del sistema scolastico, in Rapporto sullo stato sociale 2011, a cura di F.R. Pizzuti, 2011]; converrà tuttavia seguire con attenzione il processo di valutazione delle scuole. Rispetto al quarto punto, in attesa delle considerazioni di chi ha maggiori competenze sui programmi, ci si può rallegrare per la decisione di rinforzare lo studio delle lingue e si può esprimere qualche perplessità rispetto all’enfasi posta sull’informatica alla primaria (sarebbe già molto se i bambini imparassero a leggere, scrivere, far di conto e magari a farsi un’idea su Garibaldi), anche ricordando come studenti e famiglie fatichino a comprendere la rilevanza attribuita alla tecnologia nelle secondarie inferiori, da quando l’insegnamento di questa materia è stato focalizzato sullo studio dettagliato delle caratteristiche dei materiali.

Venendo al primo punto, la considerazione iniziale riguarda le nuove risorse, che sarebbero principalmente destinate a un piano straordinario di assunzioni. Il Rapporto documenta l’uso dei finanziamenti stanziati nel 2013/2014 per l’edilizia scolastica e conta sui fondi strutturali, anche per attività extra-curriculari. Un impegno finanziario serio sulla scuola, se di questo si tratta, è certamente benvenuto visto che la spesa pubblica dell’Italia è non soltanto inferiore alla media OCSE, ma anche in calo tendenziale, come mostrato dai rapporti annuali “Education at a Glance” dell’OCSE. I dubbi principali riguardano, però, l’effettiva disponibilità delle risorse, e sono resi particolarmente acuti dall’attuale fase di recessione, dai vincoli europei e dai ritardi (e carenze) nella definizione dell’“Accordo di partenariato”, indispensabile per ottenere i fondi europei.

Il Rapporto è abbastanza chiaro sul piano di assunzioni da attuare nel settembre 2015; come risulta dalle tabelle e dai dati di cui è corredato esso dovrebbe riguardare circa 148.100 unità – i precari “storici” inseriti nelle graduatorie a esaurimento e i vincitori e gli idonei dell’ultimo concorso – e dovrebbe costare 3,1 miliardi nel primo anno scolastico (4,1 dopo 10 anni), al netto del risparmio sulle supplenze (che sarà di 300-350 milioni in più se i nuovi assunti coprissero anche parte delle supplenze brevi e saltuarie). I nuovi assunti occuperebbero principalmente cattedre scoperte (evitando le supplenze), aumenterebbero l’organico funzionale degli istituti (da adibire alla governance delle scuole, alle materie extra-curriculari, alla copertura parziale delle supplenze brevi), consentirebbero il rafforzamento di alcune materie, accrescerebbero l’offerta di tempo prolungato e tempo pieno alla primaria, fortemente sacrificata dalla riforma Gelmini e, infine, permetterebbero una maggiore fruizione dei laboratori, anch’essa ridimensionata per consentire i risparmi previsti dalla precedente riforma. Per garantire il turn-over nel triennio 2016-18 è previsto, poi, un nuovo concorso per gli abilitati di 40mila posti.

Dati gli errori del passato, la scelta compiuta per superare il meccanismo perverso e autoriproduttivo delle graduatorie, della precarietà e della provvisorietà appare assennata, e rappresenta un passo preliminare per far ripartire subito dopo l’arruolamento secondo canali più efficienti. Infatti, sono poco convincenti le critiche mosse alla rinuncia a verificare le competenze di chi verrà assunto senza aver superato un concorso, visto che questi stessi insegnanti sono stati già utilizzati per anni nella scuola, senza che siano affiorate preoccupazioni per l’insufficiente verifica delle loro capacità. Peraltro, come mostrano i più recenti dati OCSE, relativi al 2011 e 2012, il numero dei nostri insegnanti, dopo anni di eccesso (ma, comunque, di retribuzioni inferiori nella comparazione internazionale) è oramai pressoché allineato alla media dell’UE21 e, d’altro canto, siamo sotto la media europea per quello che riguarda il costo per studente. Se l’operazione riuscisse a assicurare maggiore stabilità degli insegnanti nelle classi e queste ultime potessero essere formate più tempestivamente all’inizio dell’anno scolastico, si tratterebbe di un importante successo. Non è un caso che la “volatilità” degli insegnanti sia considerata da molti studenti e genitori come uno dei più gravi problemi della scuola. L’allungamento del tempo-scuola poi, soprattutto alla primaria, è uno strumento importante per favorire sia la partecipazione femminile al mercato del lavoro, sia la mobilità sociale.

La progressione di carriera per merito potrebbe rappresentare un cambiamento profondo del nostro sistema di istruzione. Ma, al riguardo, sono almeno due le questioni su cui riflettere. In primo luogo, dal Rapporto non si evince chiaramente chi compirà la valutazione e secondo quali criteri, almeno per quanto riguarda l’elemento essenziale, ovvero la qualità della didattica (gli altri elementi sarebbero costituiti dalla partecipazione ad attività di formazione e di organizzazione della scuola). Si vogliono adottare misure nazionali o, piuttosto, affidare la decisione ai dirigenti, coadiuvati da qualche insegnante impegnato sulla valutazione? Quest’ultima soluzione potrebbe essere attraente in virtù della rapidità di decisione che promette, ma questa rapidità deriverebbe dal fare a meno dei confronti tra scuole e comporterebbe il rischio di una maggiore discrezionalità nei giudizi. La questione è complessa e controversa, ma per una corretta attuazione della riforma appaiono indispensabili criteri di valutazione obiettivi, condivisi, uniformi a livello nazionale e concretamente applicabili. Criteri con queste caratteristiche non sono disponibili né sembra possibile apprestarli in tempi brevi. Prima di applicare la valutazione di merito a tutto il personale e basare su questa l’intero funzionamento del sistema scolastico sarebbe opportuno cominciare a mettere a punto criteri oggettivi e non discriminanti che consentano almeno di individuare quegli insegnanti (presumibilmente molto pochi) che, eventualmente anche a causa di circostanze transitorie, risultano del tutto inadeguati alla presenza in classe e potrebbero dare un migliore contributo se impegnati in altre attività della scuola.

Inoltre, si intende usare la valutazione del merito non soltanto per definire la remunerazione degli insegnanti, ma anche per decidere della loro mobilità, quindi come strumento di governance generale del sistema. Il Rapporto contempla la possibilità che i professori si spostino per individuare le scuole in cui hanno maggiori probabilità di ottenere una buona valutazione e che i dirigenti scelgano la propria squadra sulla base dei curricula degli insegnanti, che “serviranno alle scuole per la selezione degli organici funzionali e per la mobilità di tutti i docenti.” Non è chiaro chi, tra insegnanti e dirigenti, avrebbe l’ultima parola. Spingere l’autonomia scolastica fino al punto di attribuire ai dirigenti la possibilità di scegliere gli insegnanti significa adottare un modello imperniato su una forte competizione tra le scuole pubbliche. I rischi che presenta un modello con queste caratteristiche sembrano preoccupare anche l’OCSE: in una sua recente nota si legge che non vi è evidenza di un effetto positivo della competizione sulle performance delle scuole, mentre è provato che essa esercita un’influenza negativa sull’inclusione sociale.
In definitiva, non manca la materia sulla quale il governo farebbe bene a riflettere ancora, prima di prendere le sue definitive decisioni.

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