La sfida di Obama alle disuguaglianze e… al Congresso

Ruggero Paladini esamina dal punto di vista della riduzione delle disuguaglianze la legge finanziaria per il 2016 proposta da Obama e mostra come essa preveda vari interventi popolari ai quali, in un periodo elettorale, non sarà facile per i repubblicani opporsi. Paladini considera che un ostacolo potrebbe essere rappresentato dalla già alta progressività del sistema fiscale USA, maggiore di quella europea, ma ritiene che la crescente concentrazione del reddito in atto negli USA non consentano di giustificare le eventuali reazioni dei più ricchi

Barack Obama, presentando la legge finanziaria per il 2016, che prevede una massiccia crescita di spese e entrate pubbliche, ha lanciato una sfida al Congresso, ora a maggioranza repubblicana in entrambi i rami. Le principali spese, secondo la sua proposta, sarebbero destinate: 1) per 478 miliardi di dollari a lavori pubblici; 2) per 320 miliardi a sostenere il reddito familiare delle classi medie attraverso sgravi fiscali; 3) per 80 miliardi a iniziative a favore dei bambini; 4) per 60 miliardi agli studenti che si iscrivono ai “community college” pubblici e, infine, 5) per 38 miliardi all’attività del Pentagono. Poiché il livello del deficit dovrebbe rimanere sostanzialmente invariato sotto i 500 miliardi, queste spese saranno finanziate con un insieme di prelievi.

Innanzitutto, Obama propone un prelievo una tantum del 14% sui profitti accumulati all’estero dalle società statunitensi (che si stima siano pari a circa 2000 miliardi di dollari) per i quali è prevista la possibilità di rimpatrio (al netto dell’imposta). Verrebbe poi applicata un’imposta del 19% sui futuri profitti all’estero, che è più favorevole di quella che grava sui profitti realizzati nel paese; quest’ultima sarebbe, comunque, ridotta dal 35% al 28%. Circa metà del costo dei lavori pubblici sarà, invece, finanziato da un’agenzia federale, l’ Highway Trust Fund, con una tassa sui carburanti.

Obama propone anche di applicare una tassa dello 0,07% su banche e compagnie finanziarie con attivi superiori a 50 miliardi (circa 100 società) e di elevare dal 23,8% al 28% l’imposta sui capital gain per le coppie con reddito superiore a 500mila dollari. Inoltre, prevede di colpire i capital gain maturati sulle attività ereditate, che riescono a sfuggire all’imposizione. Queste misure dovrebbero fornire circa 32 miliardi l’anno.

Tuttavia, per Obama sarà molto difficile dare concreta attuazione a queste proposte perché i repubblicani si opporranno, per principio, ad esse ed in particolare a quelle che consistono in un aumento del prelievo fiscale.

“So what” potrebbe dire Obama: il budget che propongo tiene sotto controllo il deficit, interviene in settori dove le infrastrutture sono carenti, sostiene il reddito della grande maggioranza delle famiglie americane e fa pagare un po’ più di imposte a quelle più ricche, ed in particolare alla parte del business (soprattutto finanziario) che ne paga poche o ne paga affatto, mentre riduce il peso fiscale sugli utili delle imprese che producono negli USA.

In realtà, su molti punti i repubblicani potranno trovarsi in imbarazzo. Infatti, tra le misure previste, ve ne sono molte che non sarà facile contestare: ad esempio, gli sgravi fiscali a favore delle famiglie con meno di 500mila dollari, i sussidi fino a 3.000 dollari per i figli minori di cinque anni, o uno schema di finanziamenti che diminuisce il costo delle iscrizioni all’università (coloro che hanno difficoltà a restituire i prestiti universitari sono ormai moltissimi e il fenomeno occupa le prime pagine dei giornali). Inoltre, Obama, accanto ad un stanziamento ad hoc per il Pentagono, ha eliminato il taglio automatico del 7% delle spese, noto come “sequester” (voluto proprio dai repubblicani) – e, come è noto, l’avversione dei repubblicani alle spese federali non si applica anche alle spese militari. Infine, sembra che molti lavori pubblici interesseranno i collegi elettorali di notabili repubblicani.

E’ anche possibile che su alcuni punti specifici saranno le stesse imprese interessate a suggerire compromessi ai repubblicani; le società che accumulano profitti all’estero sono disposte a pagare qualche cosa per le somme accumulate, ed anche per quelle future, seppure non nella misura proposta da Obama. I lobbisti potrebbero suggerire una riduzione delle aliquote, ma in questo caso il dibattito si sposterebbe su come evitare aumenti nel deficit, un terreno che può creare problemi ai repubblicani.

Ovviamente, i repubblicani ritireranno fuori il classico argomento che i prelievi sui ricchi e sul business hanno effetti negativi su tutta l’economia, ma nel complesso è molto probabile che una piattaforma come quella delineata da Obama metterà in seria difficoltà il candidato repubblicano alle prossime presidenziali. Peraltro, se questo sarà come sembra Jeb Bush, le difficoltà potrebbero essere maggiori considerando che, in contrasto con il tradizionale disinteresse dei repubblicani per le disuguaglianze, egli di recente ha parlato di crescita della diseguaglianza e d’impoverimento della classe media.

Per inquadrare meglio la politica di bilancio di Obama conviene ricordare che la struttura del prelievo obbligatorio degli Stati Uniti è significativamente diversa da quella europea. Ponendo pari a 100 il prelievo complessivo, nel 2013 negli Stati Uniti e nell’Eurozona, la sua composizione, distinguendo tra imposte dirette (sul reddito delle persone fisiche, su quelle giuridiche e sul patrimonio), imposte indirette (sui consumi e sugli oli minerali, più accise varie), e contributi sociali, era quella riportata nella Tab. 1

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Ovviamente, il peso complessivo è più alto in Europa di circa 8-9 punti, principalmente a causa del fatto che il sistema sanitario negli Stati Uniti è finanziato in gran parte da premi assicurativi che non rientrano nel prelievo fiscale. Come si può facilmente notare, il prelievo degli Stati Uniti è essenzialmente basato sulle imposte dirette e, quindi, presenta strutturalmente caratteristiche di maggiore progressività. Anche se le aliquote marginali vicine al 100%, definite da Piketty une invention américaine, sono terminate negli anni ottanta, con la riforma di Reagan del 1986, va detto che Obama ha elevato dal 35% al 39,6% l’aliquota più alta dell’imposta sul reddito (riportandola al livello fissato da Clinton) ed ha aggiunto un prelievo sui redditi finanziari (superiori a 12mila dollari) per finanziare la riforma sanitaria. Se aggiungiamo le imposte dirette statali (le cui aliquote oscillano tra il 5 e l’8%) l’aliquota più alta complessiva si avvicina al 50%, cioè al livello delle aliquote europee. Inoltre, va ricordato che nell’imposta sul reddito statunitense, a differenza di quello che accade (con limitate eccezioni) in Europa, rientrano tutti i redditi da attività finanziaria (con un trattamento migliore per gli incrementi di valore patrimoniale, sui quali, però, ora interviene la proposta di Obama).

Dal lato del prelievo, quindi, il grado di progressività del sistema americano è maggiore di quello europeo (eccezion fatta per il Regno Unito, tradizionalmente più simile agli USA); bisogna poi ricordare che l’Earned Income Tax Credit (EITC, ovvero il credito d’imposta sui redditi guadagnati) si presenta come una detrazione fiscale sui redditi da lavoro, ma si tratta di una detrazione “non wastable”, che cioè, non si perde a danno degli incapienti, trasformandosi in un sussidio monetario per i lavoratori con redditi bassi e a imposta zero. Nel 2013, l’EITC ha raggiunto i 56 miliardi di dollari; una buona metà dell’EITC consiste in trasferimenti monetari, quindi va considerata come spesa sociale, più che come riduzione di imposta.

Quando i ricchi americani (che si consideri il top 5% o il top 1%) dicono che su di loro grava buona parte delle imposte dirette degli Stati Uniti e che sono “taxed enough already” (da cui il TEA Party) non dicono una bugia. Certo, trascurano il fatto che manovre come quella proposta da Obama hanno un effetto espansivo sull’economia, come insegnano i buoni manuali di macroeconomia.

Ma soprattutto tacciono su quello che è successo dal lato della distribuzione primaria del reddito negli ultimi trentacinque anni. Su questo tema ha riportato l’attenzione il libro di Piketty, e forse non è un caso che proprio negli Stati Uniti il libro abbia avuto un enorme successo a livello di media (e di vendite). Agli ideologhi della destra statunitense si potrebbe consigliare di leggere o rileggere quello che scriveva negli anni trenta Henry Simons, un noto esponente della scuola di Chicago. Simons era un liberista a 24 carati, molto preoccupato per le propensioni interventiste del New Deal e convinto che il sistema di libero mercato fosse il migliore possibile, purché la concorrenza fosse tutelata da regole severe. Simons sapeva, però, che il capitalismo ha la tendenza a generare una distribuzione dei redditi molto diseguale e che per correggerla occorrevano imposte (in particolare l’imposta personale sui redditi, ma anche l’imposta di successione) fortemente redistributive.

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