La tassazione della previdenza complementare

Ruggero Paladini interviene sulla proposta avanzata da Luigi Marattin di tassare le prestazioni dei fondi pensione complementari come rendite finanziarie. Rilevato che il sistema vigente è un pasticcio di due diverse logiche tributarie, Paladini critica la proposta di Marattin in quanto considerare le prestazioni pensionistiche nel loro complesso come redditi da capitale è errato e, inoltre, crea una illogica differenziazione rispetto alla trattamento fiscale della previdenza obbligatoria.

1. Nel documento conclusivo della Commissione bicamerale per la riforma fiscale, a proposito della tassazione della previdenza complementare (ovvero dei fondi pensione), viene avanzata la proposta di attuare un sistema impositivo che preveda la deducibilità dei versamenti, la detassazione dei rendimenti dei capitali (attualmente tassati al 20%, cioè con aliquota più bassa del 26% per le altre rendite finanziarie) e la tassazione delle prestazioni pensionistiche “secondo il regime ordinario”.

Alla lettura di questo documento, il presidente di Itinerari Previdenziali, Alberto Brambilla, si allarma (L’economia del Corriere della Sera, 23 agosto): il regime ordinario dell’Irpef prevede aliquote dal 23% al 43%, più alte di quella del 15% vigente (che può scendere fino al 9%, come vedremo tra poco). Luigi Marattin, co-presidente della Commissione, è quindi intervenuto (L’economia 30 agosto) per precisare che con l’espressione “regime ordinario” non ci si riferisce alle aliquote progressive Irpef (dal 23% al 43%), ma al “nuovo regime duale proposto dalle Commissioni”, in cui le rendite finanziarie, così come i redditi da capitale, verrebbero tassate “in maniera proporzionale con un aliquota tendenzialmente vicina all’aliquota più bassa dei redditi da lavoro”. Se poi questa rimanga al 23% o diminuisca, è cosa che sarà oggetto del previsto intervento del governo sulla tassazione diretta.

Sembrerebbe che Brambilla non si sia sentito rassicurato, visto che ha sollecitato il governo a lasciare la tassazione della previdenza complementare così come è adesso. Ma vediamo meglio come si articola ad oggi il regime impositivo. In teoria sono possibili principalmente due sistemi di tassazione che fanno riferimento uno al concetto di reddito-entrata e l’altro a quello di reddito-spesa. Il primo prevede la tassazione dei versamenti al fondo pensione (cioè niente deduzione), la tassazione con regime normale dei rendimenti conseguiti sui contributi accumulati, e la detassazione delle prestazioni, cioè il sistema TTE (tassato-tassato-esente). Il secondo invece permette la deduzione dei versamenti, detassa i rendimenti, e tassa “normalmente” (cioè secondo le normali definizioni di reddito imponibile) le prestazioni (sia in forma di capitale o di rendita vitalizia); è, dunque, il sistema EET (esente-esente-tassato).

Attualmente i criteri italiani sono uno strano mix dei due modelli teorici. La deduzione è piena fino a 5146,57 euro, e il fatto che venga fissato un limite è normale, anche perché le eventuali somme versate e non dedotte verranno poi esentate dalla tassazione in sede di prestazioni pensionistiche. I rendimenti, come si è accennato, subiscono un prelievo un po’ più basso, ma anche questo prelievo viene poi esentato da imposta al momento della tassazione delle prestazioni. Infine le prestazioni pensionistiche sono soggette ad un’aliquota del 15%, molto più bassa di quelle Irpef; non solo, ma dopo il quindicesimo anno di partecipazione ad un fondo pensione l’aliquota viene ridotta di un 0,3 punti percentuali, per ogni anno, fino ad un’aliquota minima del 9%. Quindi un iscritto che abbia versato per 35 anni sa che la sua pensione (complementare) verrà tassata con un’aliquota ulteriormente più bassa di quella che si applica sulla obbligatoria (cioè le pensioni erogate dall’INPS). In sostanza il trattamento complessivo è più “incasinato” del sistema EET, ma non è meno generoso, anzi lo è di più.

2. La logica dietro l’ipotesi di Marattin è quella della dual income tax (DIT), un sistema di imposizione nato nei paesi scandinavi a cominciare dalla fine degli anni Ottanta. Nella forma pura i redditi da lavoro vengono tassati con imposta progressiva, mentre ai redditi da capitale si applica un’imposta proporzionale pari alla prima aliquota dell’imposta progressiva. Le ragioni a favore di questo metodo vanno dal problema della concorrenza fiscale, in paesi perfettamente aperti ai movimenti di capitale, alla doppia tassazione del risparmio e alla necessità di attenuarla. Ma l’ormai lunga esperienza di applicazione della DIT ha mostrato che vi sono evidenti difficoltà nel distinguere i redditi da lavoro e quelli da capitale nelle piccole imprese, il che porta a soluzioni in qualche modo, arbitrarie, spesso salomoniche (nel senso originario della decisione del famoso re).

Accettiamo per un attimo la logica della DIT. Consideriamo un caso tipico: un lavoratore decide di iscriversi ad un fondo pensione per integrare la sua pensione obbligatoria (che, essendo di tipo contributivo, a parità di carriera, sarà più bassa, di regola, rispetto a quella che si aveva ai tempi del retributivo). Le somme versate, in esenzione dall’imposta progressiva, al fondo vengono investite e generano dei rendimenti anch’essi esenti. Alla fine si avrà un capitale, che ha due componenti: la sommatoria dei versamenti del reddito da lavoro, e la sommatoria, capitalizzata, dei rendimenti ottenuti dagli investimenti effettuati dal fondo. Solo la seconda componente è data dagli investimenti finanziari, e quindi andrebbe tassata con l’aliquota proporzionale; la prima, che è stata esente da imposta progressiva, quindi risparmiando le aliquote marginali dei vari anni, andrebbe tassata in sede di imposta progressiva.

A questo punto confrontiamo questo trattamento con quello che riceve la pensione obbligatoria del nostro lavoratore; questa viene interamente tassata con imposta progressiva. Eppure il sistema a capitalizzazione virtuale (il nostro contributivo, nel quale i contributi ricevono un tasso di remunerazione annuo figurativo ancorato alla media quinquennale della crescita del PIL nominale) permetterebbe di distinguere tra le due componenti: la sommatoria dei versamenti contributivi e il rendimento capitalizzato. Il fatto che questo rendimento – comunque incerto – sia virtuale e non effettivo (ovvero nel sistema pubblico a ripartizione i contributi non sono effettivamente investiti) può giustificare la diversità di trattamento? Ovviamente no. Pertanto, seguendo la logica del ragionamento di Marattin (che non si è espresso però sulla previdenza pubblica), dovremmo concludere che il lavoratore, ora divenuto pensionato, dovrebbe vedere sommati assieme i versamenti alla previdenza obbligatoria e a quella complementare, da tassare con imposta progressiva, e tassati invece con aliquota proporzionale la parte derivante dai rendimenti, virtuali o reali che siano.

Tutto molto complicato, mentre in sede europea l’orientamento, anche della Commissione, va verso l’applicazione del sistema EET, che oltre tutto ha il vantaggio della semplicità.

3. Il criterio di tassazione duale si contrappone a quello della comprehensive income tax, che si ispira al concetto di reddito-entrata, elaborato da alcuni autori, tra cui il più noto è Henry Simons, un economista di Chicago della prima metà del Novecento, liberista convinto, ma altresì sostenitore della necessità di una forte imposta progressiva che tassasse tutte le forme di reddito. Nell’imposta comprehensive ovviamente tutti i trattamenti pensionistici dovrebbero confluire in un’unica base imponibile, che vengano dalla previdenza obbligatoria o da quella complementare. Ma qualora ci si orienti verso un sistema duale, da questo non ne discende automaticamente che le prestazioni pensionistiche della previdenza complementare debbano essere tassate come rendite finanziarie. E soprattutto non ne discende necessariamente che l’imposizione dei redditi finanziari debba essere proporzionale (come nella DIT scandinava).

Come accennato, le ragioni a favore del regime duale alla scandinava infatti sono due, la concorrenza fiscale, con il connesso rischio di deflusso di capitali, e la c.d. doppia tassazione del risparmio. Questa seconda è però una tesi ormai obsoleta. In breve l’idea è la seguente: io ottengo un reddito (da lavoro), ne risparmio una parte che investo ottenendo un reddito (da capitale); se vengo tassato su questo secondo reddito, frutto del primo, subisco una doppia tassazione. Il primo a parlare, in un contesto diverso, di double taxation of saving fu John Stuart Mill, che a mio parere era miglior filosofo che non economista. Nella prima metà del Novecento la discussione tra gli economisti esperti di tassazione fu estremamente animata, anche perché da noi contrappose le due figure più rilevanti, Luigi Einaudi da un lato, a favore della tesi, e Antonio De Viti De Marco, contrario. Nella seconda metà del Novecento si è capito che non si poteva ragionare separatamente sul comportamento del lavoratore, poi del risparmiatore, ma che si doveva considerare complessivamente gli eventuali effetti distorsivi (disincentivo all’offerta del lavoro o del risparmio). Inoltre le analisi empiriche e statistiche hanno mostrato delle sorprese; ad esempio, è risultato che le alte aliquote marginali hanno ben poco effetto sulle scelte dei percettori di alti redditi, a parte i casi di abbandono della residenza, mentre invece sono quelli a basso reddito, in particolare le donne, che sono più sensibili, ma per le decisioni di queste conta più l’aliquota media di imposta piuttosto che quella marginale.

La questione della concorrenza fiscale tra paesi, dove vige la piena mobilità dei capitali (come è il caso dell’UE), è più seria e concreta. Va detto che il clima è notevolmente cambiato, rispetto a quando gli organismi internazionali, dal FMI all’OECD, la consideravano buona e giusta, per limitare la crescita della spesa pubblica. Recentemente il tema ha riguardato le grandi multinazionali del web, ma passi notevoli sono stati compiuti, già con Obama, per l’eliminazione dei segreti bancari e quindi con la possibilità di scovare i detentori di patrimoni non dichiarati. Certo l’esportatore di capitali, spesso evasore fiscale, ha ancora delle possibilità, ma i rischi sono aumentati.

Un’imposta progressiva e personale sui redditi da capitale è quindi possibile. Si può discutere se sia preferibile sotto forma di tassazione dei valori patrimoniali o dei redditi. Non è neppure obbligatorio imporre la dichiarazione da parte di ciascun contribuente; imponendo una aliquota uniforme e dando una deduzione fissa a coloro che effettuano la dichiarazione personale si crea una progressività per deduzione e un notevole incentivo alla dichiarazione stessa (che ovviamente dovrebbe essere controllata).

Un ultimo punto; il sistema duale parte dall’ipotesi che il sistema dell’imposta sui redditi abbia una progressività attuata con il sistema degli scaglioni; per cui l’aliquota dell’imposizione sui redditi da capitale sia l’aliquota del primo scaglione. Ma pensiamo alla Germania; in questo paese da tempo per la maggior parte dei contribuenti vi è un’imposta continua (ottenuta da due funzioni collegate). Attualmente in quel paese dopo i 54.000 euro si passa a due tradizionali scaglioni, uno al 42% ed uno a 45%. La prima aliquota marginale è del 14%, poco dopo i 9.000 euro. Dovrebbe essere questa l’aliquota per i redditi di capitale? Ma questa vale solo per il primo euro, perché poi incomincia a crescere ed arriva fino al 42%. L’aliquota proporzionale dovrebbe quindi essere fissata secondo un criterio comunque arbitrario. Questo problema si porrebbe anche in Italia, qualora si optasse per l’introduzione di una funzione continua per la nuova Irpef; Marattin non è favorevole a questa ipotesi, perché ritiene che l’imposta continua implichi una eccessiva progressività. Ma questo è un altro discorso.

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