Lo scorso 10 luglio il G20 Finanze ha avallato politicamente l’accordo-quadro sulla riforma del sistema di tassazione internazionale d’impresa sottoscritto dieci giorni prima da 130 – saliti a 132 negli ultimi giorni – dei 139 paesi membri del BEPS Inclusive Framework dell’OCSE, il consesso multilaterale impegnato negli ultimi tre anni in un serrato sforzo negoziale volto a definire nuove regole fiscali per le multinazionali.
Poste le fondamenta dell’intesa, rimangono numerosi nodi tecnici da sciogliere entro l’ultima ministeriale finanze di ottobre.
Soffermiamoci criticamente sui due pilastri dell’accordo OCSE-G20 e valutiamone contestualmente il livello di ambizione e gli impatti redistributivi, aggiornando il recente intervento sul Menabò dedicato alla posizione negoziale comune ai paesi del G7 resa pubblica a inizio giugno scorso.
Il primo pilastro della riforma riguarda la riallocazione dei profitti delle multinazionali più grandi e redditizie tra diversi paesi e l’identificazione di un nesso tra la “presenza economica” di un gigante corporate spesso “fisicamente assente” da un paese e il diritto della giurisdizione di mercato (cioè di un paese diverso da quello di origine della multinazionale che per essa costituisce un ampio mercato) a tassarne i profitti.
L’accordo-quadro stabilisce l’applicazione di nuove regole di riallocazione degli utili societari – da confermare con uno strumento multilaterale nel 2022 e implementare a partire dal 2023 con possibili revisioni solo dopo sette anni – per multinazionali con un fatturato consolidato annuo superiore a 20 miliardi di euro e un margine di profitto globale superiore al 10%. Sono escluse dall’ambito soggettivo di applicazione di nuove regole le multinazionali che operano nel settore estrattivo e nel “settore finanziario regolato” (settore che necessita ancora di una definizione formale).
L’accordo prevede inoltre, in casi eccezionali – ancora da concordare – la possibilità di segmentazione dei conti finanziari consolidati con l’obiettivo di assoggettare alle nuove regole singole business units più redditizie di multinazionali che non superano, nel complesso, il margine di redditività del 10%. E’ ad esempio il caso della divisione di cloud computing di Amazon con un margine di profitto di oltre il 30% nel 2020 a fronte del margine di appena il 6,3% per l’intero colosso di Bezos.
Soggetta alla ridistribuzione è una quota, compresa tra il 20% e il 30%, di profitti residuali a bilancio consolidato nel paese di residenza di una multinazionale in scope, eccedente il margine del 10%.
Una giurisdizione di mercato sarà assegnataria di nuovi diritti fiscali, in proporzione alla quota di ricavi derivanti da vendite di beni e servizi a clienti/consumatori finali ad essa riconducibili, a condizione che i ricavi giurisdizionali superino 1 milione di euro all’anno. Soglia ridotta a 250.000 euro per non penalizzare le economie più piccole con un PIL inferiore a 40 miliardi di euro.
Un tetto ai profitti riallocati, con particolare riguardo agli utili derivanti da attività di marketing e distribuzione giurisdizionali, è previsto nei casi in cui i profitti ridistribuiti siano già soggetti a tassazione nella giurisdizione di mercato. Sono inoltre previsti meccanismi (come esenzioni o crediti d’imposta), ancora da dettagliare a livello tecnico, volti ad evitare la doppia tassazione delle multinazionali nel paese di residenza e nel paese recipient di nuovi diritti fiscali.
Passiamo al giudizio di merito. In primo luogo, l’entità degli utili soggetti a redistribuzione appare fin qui particolarmente modesta. Nel recente policy brief dello European Network for Economic and Fiscal Policy Research Michael Devereux e Martin Simmler stimano che i profitti “ceduti” dalle 78-100 multinazionali passibili di nuove regole possano attestarsi – nell’ipotesi più restrittiva di riallocazione del 20% di utili eccedenti il margine del 10% – a circa 87 miliardi di dollari, appena il 3% del profitto complessivo a bilancio delle compagnie Fortune Global 500 nell’anno finanziario conclusosi ad aprile 2020.
Un ammontare che potrebbe raddoppiare se le nuove regole si applicassero anche al settore finanziario e lievitare ulteriormente se si abbassassero le soglie di ricavi e profittabilità globali per multinazionali in scope e si redistribuisse una percentuale più marcata degli utili in eccesso.
La richiesta di una redistribuzione più sostanziosa, perorata da molti paesi in via di sviluppo, appare ragionevole agli occhi di chi, come il Premio Nobel Joseph Stiglitz, ha lungamente contestato la distinzione concettuale avanzata dall’OCSE tra profitti di routine (non soggetti a riallocazione) e residuali (soggetti a parziale riallocazione). In un recente blog su Project Syndicate Stiglitz ha puntualmente ricordato come il reddito d’impresa nel rendiconto finanziario consolidato di una multinazionale in scope – punto di partenza per la redistribuzione – rappresenti già una rendita o “profitto puro”, scontando la deduzione di tutti i costi di produzione, incluso il costo del capitale. Tale accorgimento rende discutibile la distinzione sopramenzionata tra le due categorie di redditi d’impresa e incoraggia semmai la scelta di modelli di “tassazione unitaria” delle multinazionali, cui in parte l’accordo OCSE-G20 si ispira. Modelli che prevedono la ripartizione di tutti gli utili a bilancio consolidato delle multinazionali fra diversi paesi secondo formule di apporzionamento che tengono proporzionalmente conto di fattori come vendite, asset, forza lavoro impiegata, fattori digitali, ecc.
In secondo luogo, destano preoccupazione le condizionalità richieste ai firmatari dell’accordo. L’allocazione, con ampi profili di incertezza, di nuovi diritti fiscali alle giurisdizioni di mercato è concessa infatti a condizione che vengano soppresse tutte le imposte sui servizi digitali – a carico tra l’altro di una platea di soggetti più ampia delle solo multinazionali in scope – nonché ogni altra misura con cui alcuni Paesi hanno finora cercato unilateralmente di intercettare fiscalmente i proventi dell’attività economica “immateriale” delle multinazionali nei loro mercati. Una condizione che potrebbe causare ammanchi erariali netti e che ha verosimilmente inciso sulla decisione del Kenya, dotata di una web tax dal gettito non trascurabile, di non aderire all’accordo OCSE.
Una recente simulazione di Tax Watch ha rilevato inoltre come le nuove regole, con la contestuale rimozione della web tax UK, permetterebbero a Google, Ebay, Amazon e Facebook di versare meno imposte in un’economia avanzata come il Regno Unito di quante ne corrispondano oggi.
I paesi firmatati dell’accordo sono inoltre obbligati – in barba a rischi futuri, di difficile previsione, di erosione della base fiscale nazionale – a non introdurre simili misure unilaterali in futuro.
A garanzia della certezza del diritto tributario ai paesi che aderiscono alle nuove regole è inoltre richiesto di confermare, in modo vincolante, l’adesione a meccanismi di prevenzione di possibili dispute tramite arbitrati internazionali. Una condizionalità ritenuta, legittimamente, come eccessivamente forte, anche con deroghe, dai paesi in via di sviluppo, alla luce degli esiti sfavorevoli nei recenti arbitrati in materia di investimenti.
Il secondo pilastro della riforma mira ad assoggettare le corporation con un fatturato consolidato annuo di almeno 750 milioni di euro a un livello minimo di tassazione effettiva in ciascun paese in cui operano. Un intervento volto a scoraggiare il profit shifting dalle giurisdizioni a fiscalità societaria medio-alta verso paradisi fiscali per i redditi d’impresa e a imporre una battuta d’arresto alla pluriennale corsa globale al ribasso in materia di fisco societario.
La misura è apprezzabile nelle intenzioni, ambendo a restringere le opportunità di concorrenza fiscale dannosa e a spostare la competizione tra paesi su altri fattori come la qualità delle infrastrutture, gli investimenti nel capitale umano, l’efficienza della giustizia civile. Ma l’intervento potrebbe essere più ambizioso. Fissando l’aliquota minima di tassazione effettiva ad almeno il 15% vengono di fatto “normalizzate” le aliquote esistenti in alcune giurisdizioni “paradisiache” come Singapore e Svizzera e, più in generale, si corre il rischio di vedere trasformata l’attuale race to the bottom in una corsa verso il nuovo minimo.
La scelta del 15% costituisce un compromesso politico per venire incontro ad alcune delle economie più grandi – la cui adesione è indispensabile per garantire un’ampia copertura geografica e l’efficacia della misura – riluttanti di fronte a rischi di depotenziamento delle proprie policy domestiche, spesso discutibili, di incentivazione fiscale degli investimenti diretti esteri.
Giova precisare che il livello minimo di tassazione effettiva giurisdizionale è destinato a essere più basso di quello concordato: la base imponibile da assoggettare a tassazione minima beneficerà infatti di una generosa deduzione, il 5% a regime e il 7,5% nel periodo transitorio dei primi 5 anni di implementazione – del valore contabile degli asset tangibili e delle spese per il costo del personale.
Sarebbe auspicabile evitare deduzioni e attestarsi su un minimo più elevato, tra il 21% e il 25%, in linea con il livello di tassazione effettiva media dei redditi d’impresa nell’area OCSE. Il 21% rappresenta tra l’altro l’aliquota a cui l’Amministrazione Biden dichiara di voler portare, a prescindere dai risvolti negoziali, il proprio regime di tassazione minima e un simile orientamento al rialzo è stato espresso anche, in seno al G20, dalla Francia e dall’Argentina e avallato dal Forum delle Amministrazioni Fiscali Africane (ATAF), organo consultivo dell’Unione Africana.
Gli ultimi mesi negoziali dovranno chiarire le modalità di calcolo del livello di tassazione effettiva giurisdizionale e i dettagli sulle regole di top-up fiscale sugli “utili esteri” che risulteranno sottotassati e di cui beneficeranno in misura prevalente, in termini di extra-gettito, i paesi di residenza delle multinazionali. Ai paesi in via di sviluppo, che hanno un peso negoziale ridotto, è stato riconosciuto – attraverso la concessione di revisioni delle convenzioni bilaterali contro la doppia imposizione in essere con altri membri dell’Inclusive Framework – il diritto di tassare più cospicuamente i pagamenti in uscita (come gli interessi e le royalties) verso paesi con tassazione nominale ridotta, ma con un’aliquota minima, compresa, piuttosto timidamente, tra il 7,5% e il 9%.
In conclusione, senza disconoscere lo sforzo pluriennale di una cooperazione fiscale multilaterale, e con la consapevolezza degli interessi divergenti degli stakeholder negoziali e le conseguenti “soluzioni di compromesso”, è auspicabile che nell’ultimo miglio negoziale i residui, e numerosi, nodi tecnici vengano sciolti adottando misure definitive più ambiziose ed eque. La “correzione di rotta” dovrebbe prevedere de minimis la redistribuzione alle giurisdizioni di mercato di una maggiore quota di profitti a bilancio delle multinazionali nei paesi di residenza, ammorbidendo le condizionalità e non minacciando ritorsioni ai paesi “resistenti”, e la convergenza su un’aliquota della tassazione minima effettiva di almeno il 21%. Solo così l’accordo OCSE-G20 potrà meritare, nella visione di chi scrive, la qualifica di “intesa storica”.