Lavorare meno lavorare tutti

Giuseppe Croce e Michele Faioli riflettono sulla riduzione degli orari di lavoro come politica per l’aumento dell’occupazione. I due autori indicano le condizioni necessarie affinché la riduzione dell’orario di lavoro accresca il benessere dei lavoratori senza aggravare i costi per le imprese, richiamano le tesi avanzate al riguardo da Ezio Tarantelli nel 1984 e concludono sostenendo che questa politica è poco coerente con l’odierno quadro macroeconomico italiano.

“In un articolo recente su queste colonne ho sostenuto che c’ è un solo modo per rilanciare nell’ immediato l’ occupazione e contenere la spesa pubblica: lavorare di meno per occupare di più”.

Così scriveva su Repubblica, in un articolo che aveva lo stesso titolo del nostro, Ezio Tarantelli, poco più di 9 mesi prima di essere barbaramente assassinato, precisamente il 17 giugno 1984. E continuava: così:

“ nella mia proposta lavorare meno non significa soltanto, nè significa in primo luogo, ridurre l’ orario di lavoro ma anche e soprattutto l’ estensione del part-time, giorni di riposo infrasettimanali, allungamento delle ferie e periodi sabbatici per l’ aggiornamento professionale. In una parola, maggiore flessibilità nell’ uso e nella divisione del lavoro in un quadro di decentramento contrattuale in cui il lavoratore possa liberamente chiedere, con almeno un anno di anticipo, di poter usufruire di uno o più degli istituti suddetti”.

E ancora

“ Il sindacato aziendale contratta con l’ azienda sul se e sul come l’ organizzazione del lavoro può essere adattata alla richiesta. Il lavoratore rinuncia a quote di salario, di accantonamenti pensionistici e di contributi sanitari uguali alla quota richiesta del tempo libero sul tempo di lavoro.”

Questa proposta di Tarantelli, sempre proiettato verso la ricerca di soluzioni praticabili ai problemi più pressanti del suo tempo, torna alla mente oggi che la questione della riduzione dell’orario di lavoro – su cui alcuni in verità insistono da tempo – torna sulle prime pagine dei giornali.

La riduzione di orario di lavoro di cui parla Tarantelli, e di cui ci occuperemo, può essere definita di tipo strutturale e va distinta da quella che è connessa a fenomeni di crisi settoriale o aziendale. La riduzione per crisi aziendale porta con sé alcuni elementi: l’accesso a schemi di sostegno al reddito (prestazioni collegate a cassa integrazione o fondi bilaterali di solidarietà), l’intervento della contrattazione aziendale gestionale che incide sulle posizioni professionali e sul tempo di lavoro e, in alcuni casi, sulla formazione o re-skilling professionale, in altri, persino sui licenziamenti collettivi. La riduzione di orario per crisi esiste in tutti paesi europei (si pensi, ad esempio, al Kurzarbeit tedesco).

La proposta (recentemente ripresa anche dal Commissario Inps, Pasquale Tridico, nella sua lezione inaugurale del Master in Economia Pubblica presso la Facoltà di Economia della Sapienza), che qui trattiamo è, invece, riferita alla riduzione dell’orario di tipo strutturale. Tale riduzione dell’orario e il (potenziale) aumento dell’occupazione sono certamente dei “beni” in sé che possono migliorare il benessere dei lavoratori e delle loro famiglie. La riduzione del tempo di lavoro di tipo strutturale può comportare benefici importanti in funzione delle molteplici forme che potrebbe assumere (al di là della semplice riduzione delle ore giornaliere, ad esempio aumento dei riposi settimanali o delle ferie nel corso dell’anno, o di periodi sabbatici, di congedi parentali o per la cura di familiari non autosufficienti, o per la formazione).

Ma tutto ciò non basta per comprendere bene di cosa stiamo trattando. Si deve tenere in considerazione il fatto che durante una fase di crescita economica, soprattutto se trainata da aumenti di produttività, la riduzione dell’orario di tipo strutturale serve a far arrivare ai lavoratori i frutti della crescita, non solo sotto forma di maggior reddito, ma anche di minore tempo di lavoro, e a dare una spinta aggiuntiva all’occupazione. Se osserviamo il trend storico di lungo periodo, dalla fine dell’Ottocento e per gran parte del Novecento i redditi da lavoro sono cresciuti di pari passo con la riduzione delle ore di lavoro. Al contrario, in fase di stagnazione, la riduzione di orario di tipo strutturale rappresenta una mera redistribuzione delle ore di lavoro totali, da realizzare assumendo che tale monte-ore sia una quantità data mentre, secondo buona parte degli economisti, potrebbe ridursi proprio nel momento in cui viene redistribuita se la riduzione provoca un aumento dei costi per le imprese.

A fronte dei benefici potenziali di questa politica, per poterne valutare appieno significato e effetti si pongono due questioni decisive: innanzitutto, chi decide se e come ridurre l’orario, e, poi, chi ne paga i costi.

A questo riguardo, è utile il confronto con la proposta avanzata da Ezio Tarantelli 35 anni fa. In quella proposta, come emerge dalle citazioni riportate in apertura di articolo, la riduzione di orario ha tre caratteristiche significative: è su richiesta del lavoratore, è inserita nella contrattazione collettiva aziendale, non avviene a parità di salario. Primo: se si vuole aumentare il benessere dei lavoratori, tenendo conto delle loro esigenze, la riduzione non può che essere a richiesta individuale. In questo senso, essa rappresenta un aumento dei margini di scelta e una flessibilità “buona” per ciascun lavoratore. E’, con altre parole, uno spazio di autonomia individuale che si innesta, senza confliggere, in un sistema produttivo-aziendale già predisposto per accogliere tale decisione. Secondo: la decisione individuale – nella visione di Tarantelli – va regolata necessariamente dalla contrattazione collettiva aziendale. E’ in quella sede, nel negoziato tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali, che è possibile tener conto adeguatamente dei costi e dei benefici, individuali e collettivi, non sempre omogenei perché le imprese sono diverse l’una dall’altra, In questo modo, mediante il contratto aziendale, si gestisce l’effetto negativo della riduzione degli orari. Ridurre gli orari di lavoro, infatti, può comportare dei costi a causa di una non sempre facile sostituibilità tra lavoratori o dell’esistenza di costi fissi organizzativi o, ancora, della necessità di formare lavoratori neo-assunti. È evidente che, secondo Ezio Tarantelli, la sostenibilità dei costi rappresenta un vincolo di cui tener conto e da gestire mediante relazioni sindacali sane e mature. Il terzo elemento è coerente con questa preoccupazione. Tarantelli esclude che la riduzione di orario di lavoro possa essere attuata “a parità di salario”. Il salario mensile va ridotto in proporzione al taglio del tempo di lavoro. Ciò non toglie che eventuali incrementi di produttività oraria possano incrementare il salario orario e compensare (o addirittura più che compensare) il taglio delle ore, consentendo, di fatto, di mantenere (o aumentare) il livello del salario mensile. In questo senso è il lavoratore che “paga” con una minore crescita salariale il taglio di ore di lavoro. In caso contrario, il costo della riduzione di orario ricadrebbe sulle imprese e gli effetti sull’occupazione diventerebbero assai incerti e, molto probabilmente, negativi.

Seguendo questi criteri, ci si chiede quanto sia realistica e opportuna oggi la proposta di riduzione di tipo strutturale dell’orario di lavoro. Le nuove tecnologie e la profonda trasformazione in corso dell’organizzazione del lavoro pongono il tema della flessibilità interna, cioè quella dei tempi di lavoro e della relativa riduzione, in termini assai diversi da quelli nei quali si poneva nel rigido modello fordista del passato. La tecnologia 4.0 incide sul lavoro in modo profondo e chiede alla contrattazione collettiva (non alla legge) di mediare tra situazioni diverse e interessi spesso confliggenti. La contrattazione collettiva, in questo senso, può intervenire più efficacemente in materia di tempo di lavoro, classificazione del personale, mobilità, mansioni, polivalenza, retribuzione e premialità. Tale contrattazione, già da oggi, anche al fine di restare in linea con altre esperienze europee, necessiterebbe di una legge promozionale tesa a favorire un più efficace coordinamento tra contratto nazionale e contratto decentrato, una definizione più precisa dell’esclusività della rappresentanza dei lavoratori in azienda, il rafforzamento del vincolo contrattuale.

Quella proposta di riduzione strutturale pone, dunque, problemi non facilmente superabili. Dato che la nostra produttività oraria non cresce da un paio di decenni e, pertanto, non vi sono le condizioni più favorevoli per una riduzione dell’orario di lavoro finanziata dai guadagni di produttività, si verrebbe a determinare un taglio dei salari (oramai, dato il recente DEF, non più rimediabile con interventi di bilancio pubblico). Nella nostra lunga fase di stagnazione salariale sembra poco verosimile che una parte rilevante della forza lavoro possa accettare ulteriori tagli.

Grafico 1. – Forze di lavoro, occupati, unità di lavoro e ore lavorate, 2008-2018

Del resto, dopo dieci anni di crisi, l’economia italiana ha recuperato i livelli di occupazione del 2008 ma non ancora il volume di ore di lavoro, che sono ancora 5 punti percentuali sotto il livello pre-crisi, come mostrato dal grafico 1, tratto dal recente rapporto di Ministero del Lavoro, Istat, Inps, Inail, Anpal, Il mercato del lavoro nel 2018. Verso una lettura integrata. Nel corso di tale periodo i part-time (involontari) sono aumentati in Italia di oltre 1,4 milioni. In pratica, la crisi ha già ampiamente realizzato una “perversa” riduzione di orario, con redditi che decrescono.

Se è vero il quadro che abbiamo rappresentato, si pensa sul serio che sia questo il momento per andare a un’ulteriore riduzione di orario? E, in termini più strutturali, siamo sicuri che in Italia, con un tasso di occupazione dieci punti al di sotto di quello del resto d’Europa, ci si debba preoccupare di redistribuire il totale delle ore attualmente lavorate piuttosto che aumentarne il volume complessivo? È questa la sola risposta ai nostri problemi occupazionali? In particolare, puntiamo alla riduzione di orario per risolvere la sottoccupazione del Mezzogiorno? In altre parole, ci si deve rassegnare a credere che l’economia italiana abbia esaurito i margini di crescita dell’occupazione? E infine, l’eventuale riduzione dei salari su base annuale non finirebbe per aggravare le disuguaglianze nella parte bassa della distribuzione salariale annuale, già oggi nettamente maggiore di quella dei salari settimanali?

* Queste note riprendono temi trattati in un articolo pubblicato sul Foglio del 24 aprile 2019

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