Le notizie sul lavoro riempiono i nostri mezzi di informazione nelle sezioni dedicate all’economia e non solo. Regolarmente ci vengono comunicati i dati dell’Istituto di Statistica Nazionale sull’andamento dell’occupazione e della disoccupazione. Sono numerose le analisi di esperti che ci spiegano come sta funzionando il mercato del lavoro e ci prospettano l’evoluzione degli scenari futuri. Non mancano le interviste a imprenditori che cercano disperatamente dipendenti e a lavoratori che fanno grandi sacrifici in nome dell’ideale di essere occupati. Il lavoro gode di una posizione centrale nel dibattito pubblico per la sua indiscussa rilevanza nel benessere individuale e collettivo ed è visto come una condizione individuale necessaria, ma anche come un presupposto collettivamente imprescindibile – la piena occupazione – per garantire il benessere basato su una crescita economica stabile. Questo è il punto di partenza della riflessione contenuta nel volume Lavorare non basta, recentemente pubblicato da Laterza.
A livello collettivo per garantire benessere alla società è necessario che tutti si impegnino a lavorare e non vi siano parti non funzionanti o che rappresentino un peso per gli altri. A livello individuale, il benessere è garantito dall’impegno e dalla dedizione personale. Chi lavora tanto e duramente è ritenuto meritevole e come tale degno di molte ricompense.
La centralità del lavoro può, tuttavia, essere criticata – questa la tesi del libro – e vi sono tre importanti cautele da tenere presenti nel considerare il lavoro come la soluzione a tutti i problemi.
La prima è relativa alla condizione di povertà dei lavoratori. Nonostante i dati sulla disoccupazione in Italia siano notoriamente preoccupanti, non si può considerare che gli occupati siano soggetti senza difficoltà economiche. Sempre più spesso si sente parlare di lavoratori poveri: uomini e donne che, pur occupati, si trovano a non avere abbastanza reddito per sostenere le spese necessarie per vivere. Sono i cosiddetti working poor, un fenomeno che in Europa negli ultimi anni interessa in media circa un lavoratore ogni dieci, in Italia uno ogni otto. È un fenomeno rilevante sia dal punto di vista statistico sia dal punto di vista sociale. Nonostante l’elevata incidenza del fenomeno lavorare ed essere poveri allo stesso tempo è spesso visto come un’assurdità, soprattutto nei paesi con generosi sistemi di welfare, dove un livello minimo di sopravvivenza è garantito anche a chi non lavora e dove il lavoro è interpretato come la strategia da perseguire per uscire dalla povertà. Quest’ultima condizione – con il conseguente ossimoro dell’essere poveri e occupati – non è affatto residuale in tutto il mondo: la maggior parte dei poveri nei paesi non europei lavora, ma ci si riferisce a loro solo in termini di poveri e non di lavoratori poveri, quasi a voler negare che il lavoro non è necessariamente la risposta alla povertà.
In generale si fa riferimento ai lavoratori poveri pensando a bassi salari, ma il reddito da lavoro complessivo è definito da tre elementi: il salario orario, il numero di ore lavorate e la continuità. Ci sono quindi occupati che sono pagati pochi euro all’ora, altri che lavorano un numero limitato di ore nella settimana e altri ancora che sono impegnati solo alcuni mesi nell’anno. Tutte queste condizioni possono essere causa di povertà lavorativa. Inoltre, la situazione di povertà da lavoro è definita anche dalla famiglia nella quale si vive. Se c’è un solo percettore di reddito nel nucleo, la presenza di figli o altri componenti a carico del lavoratore queste condizioni possono far si che le entrate non siano sufficienti alle necessità economiche di tutti. Oltre alle condizioni del lavoro e a quelle della famiglia vi è poi il contesto: la probabilità di essere lavoratori poveri cambia radicalmente se si vive e lavora in una regione ricca o povera e in un contesto urbano o non urbano. Da un lato, un lavoratore con un dato salario – per esempio un insegnate retribuito 1200 euro al mese – si trova ad affrontare spese molto differenti per gli stessi servizi in aree territoriali diverse. Dall’altro, la stessa condizione lavorativa può essere associata anche a costi diversi. Emblematiche sono le spese di trasporto che per alcuni possono essere gravose e per altri no. Mantenere un’automobile, pagare la benzina, il parcheggio sono costi da sostenere per recarsi al lavoro che rappresentano un grave carico su un bilancio familiare fragile. A parità di retribuzione la distanza e la facilità di raggiungere il luogo di lavoro possono fare la differenza.
Oltre alle componenti economiche oggettive, il benessere dei lavoratori passa anche da condizioni soggettive. La seconda cautela ha infatti a che fare con i vissuti degli individui. Tra questi ha certamente un ruolo predominante la sicurezza lavorativa. Il lavoro stabile, a tempo pieno, continuativo è sempre meno diffuso, conseguenza di decenni di politiche di flessibilizzazione che miravano a favorire l’ingresso nel mercato del lavoro e la conseguente riduzione della disoccupazione, in particolare giovanile. Ciò ha reso sempre più frequente – in particolare per alcune categorie come i giovani e le donne – la situazione in cui si è impiegati in una posizione lavorativa temporanea. Essere occupati e magari anche con una buona retribuzione ma con un contratto a tempo determinato protegge dalla povertà economica in senso stretto, ma si rimane vulnerabili e soprattutto questo comporta rilevanti conseguenze sia per gli individui sia per la società nel suo insieme.
I lavoratori a termine, infatti, ricevono meno formazione, dal momento che non c’è incentivo a investire su chi rimarrà nell’impresa solo temporaneamente. Al contrario spesso ci si aspetta che siano più produttivi in quando per loro è più conveniente darsi da fare per sperare in un rinnovo di contratto o in una stabilizzazione. Dal punto di vista del benessere non stupisce che, se confrontati con i colleghi con contratti stabili, gli occupati con contratti a tempo determinato siano più insoddisfatti; e lo sono anche a parità di stipendio, sebbene vada tenuto presente che solitamente sono meno pagati. Questo trattamento disuguale – condizioni lavorative diverse per svolgere la stessa mansione – porta alla percezione della disuguaglianza, con conseguenze negative per tutti, non solo per chi è assunto a tempo determinato.
Una delle implicazioni più rilevanti riguarda i consumi. Indipendentemente dal reddito familiare effettivo, le decisioni sulle spese dei nuclei si basano sul reddito previsto nel lungo periodo, il cosiddetto reddito permanente, e non sul reddito attuale, detto corrente. In altre parole, un lavoratore con un contratto di sei mesi non modificherà di molto i suoi consumi. Se prima non lo faceva, difficilmente inizierà a mangiare fuori una volta alla settimana. Questo perché gli individui e le famiglie hanno solitamente alti livelli di avversione al rischio di fronte all’incertezza sul futuro che li spingono a mantenere gli stessi livelli di consumo fino a che non c’è certezza nel flusso di reddito nel medio-lungo periodo. Inoltre, al di là dell’effettiva situazione economica misurata dal reddito disponibile, gli occupati con un contratto a tempo determinato, specie se sono gli unici percettori nella famiglia, hanno molta più probabilità di sentirsi soggettivamente poveri. Questo li porta a contrarre il più possibile le spese e a risparmiare il più possibile per fronteggiare periodi di disoccupazione futura.
La terza cautela nell’affermare il predominio del lavoro fa riferimento alla disuguaglianza e ai suoi meccanismi di riproduzione tra le generazioni. Su questo punto va considerata la rilevanza di un’altra componente che insieme al lavoro che definisce le opportunità di vita delle persone e la disuguaglianza di una società, ossia la ricchezza. Quest’ultima è collegata al lavoro in modi che potremmo definire inattesi. Innanzitutto, non è il lavoro, o meglio il reddito da lavoro, la fonte principale della ricchezza, ma al contrario è la ricchezza che molto spesso influenza la partecipazione e le opportunità nel mercato del lavoro e consente ai più ricchi di accedere a posizioni lavorative meglio retribuite. Addirittura, in alcuni casi, ricevere una grande ricchezza, come una cospicua eredità, può portare a uscire dal mercato del lavoro. In secondo luogo, la ricchezza produce essa stessa ricchezza e rende quindi l’impegno e lo sforzo lavorativo molto meno rilevanti per accedere a maggiore benessere e sicurezza. Malgrado questa consapevolezza la tassazione dei redditi da lavoro è ampiamente superiore a quella dei redditi da patrimonio. Questa scelta è poco razionale se portata avanti dallo Stato per almeno tre ragioni. La prima è che non si premia il merito e quindi si ha una società meno efficiente. La seconda è che le rendite immobiliari o finanziarie sono improduttive, a differenza dell’attività lavorativa che per definizione rappresenta un’attività riconosciuta e volta alla produzione beni o servizi in cambio di una retribuzione. La terza è che contribuisce a riprodurre le disuguaglianze con conseguenze negative per tutta la società.
Dunque, le opportunità di lavoro insufficienti, spesso poco retribuite e instabili e il lavoro molto tassato mostrano come l’occupazione non può più essere considerata lo strumento primo di uscita dalla povertà, di sostegno dei consumi, e di definizione delle condizioni e delle opportunità di vita delle famiglie. In altri termini, il lavoro non è più in grado di reggere la centralità del funzionamento in salute della società. Ecco, allora che lavorare non basta, ma è necessario che le condizioni del mercato del lavoro e il ruolo delle politiche pubbliche cambino mettendo al centro il benessere degli individui e delle famiglie.