ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 188/2023

26 Febbraio 2023

Lavorare non basta

Marianna Filandri parte dalla considerazione che il lavoro occupa una posizione centrale nel dibattito pubblico per la sua influenza sia sul benessere individuale sia su quello collettivo. Sintetizzando le tesi contenute nel volume “Lavorare non basta”, da lei recentemente pubblicato per Laterza, Filandri illustra le ragioni per le quali occorre cautela nel considerare il contributo che il lavoro, in assenza di altre politiche, può dare alla soluzione di molti dei problemi del nostro paese.

Le notizie sul lavoro riempiono i nostri mezzi di informazione nelle sezioni dedicate all’economia e non solo. Regolarmente ci vengono comunicati i dati dell’Istituto di Statistica Nazionale sull’andamento dell’occupazione e della disoccupazione. Sono numerose le analisi di esperti che ci spiegano come sta funzionando il mercato del lavoro e ci prospettano l’evoluzione degli scenari futuri. Non mancano le interviste a imprenditori che cercano disperatamente dipendenti e a lavoratori che fanno grandi sacrifici in nome dell’ideale di essere occupati. Il lavoro gode di una posizione centrale nel dibattito pubblico per la sua indiscussa rilevanza nel benessere individuale e collettivo ed è visto come una condizione individuale necessaria, ma anche come un presupposto collettivamente imprescindibile – la piena occupazione – per garantire il benessere basato su una crescita economica stabile. Questo è il punto di partenza della riflessione contenuta nel volume Lavorare non basta, recentemente pubblicato da Laterza.

A livello collettivo per garantire benessere alla società è necessario che tutti si impegnino a lavorare e non vi siano parti non funzionanti o che rappresentino un peso per gli altri. A livello individuale, il benessere è garantito dall’impegno e dalla dedizione personale. Chi lavora tanto e duramente è ritenuto meritevole e come tale degno di molte ricompense.

La centralità del lavoro può, tuttavia, essere criticata – questa la tesi del libro – e vi sono tre importanti cautele da tenere presenti nel considerare il lavoro come la soluzione a tutti i problemi. 

La prima è relativa alla condizione di povertà dei lavoratori. Nonostante i dati sulla disoccupazione in Italia siano notoriamente preoccupanti, non si può considerare che gli occupati siano soggetti senza difficoltà economiche. Sempre più spesso si sente parlare di lavoratori poveri: uomini e donne che, pur occupati, si trovano a non avere abbastanza reddito per sostenere le spese necessarie per vivere. Sono i cosiddetti working poor, un fenomeno che in Europa negli ultimi anni interessa in media circa un lavoratore ogni dieci, in Italia uno ogni otto. È un fenomeno rilevante sia dal punto di vista statistico sia dal punto di vista sociale. Nonostante l’elevata incidenza del fenomeno lavorare ed essere poveri allo stesso tempo è spesso visto come un’assurdità, soprattutto nei paesi con generosi sistemi di welfare, dove un livello minimo di sopravvivenza è garantito anche a chi non lavora e dove il lavoro è interpretato come la strategia da perseguire per uscire dalla povertà. Quest’ultima condizione – con il conseguente ossimoro dell’essere poveri e occupati – non è affatto residuale in tutto il mondo: la maggior parte dei poveri nei paesi non europei lavora, ma ci si riferisce a loro solo in termini di poveri e non di lavoratori poveri, quasi a voler negare che il lavoro non è necessariamente la risposta alla povertà.

In generale si fa riferimento ai lavoratori poveri pensando a bassi salari, ma il reddito da lavoro complessivo è definito da tre elementi: il salario orario, il numero di ore lavorate e la continuità. Ci sono quindi occupati che sono pagati pochi euro all’ora, altri che lavorano un numero limitato di ore nella settimana e altri ancora che sono impegnati solo alcuni mesi nell’anno. Tutte queste condizioni possono essere causa di povertà lavorativa. Inoltre, la situazione di povertà da lavoro è definita anche dalla famiglia nella quale si vive. Se c’è un solo percettore di reddito nel nucleo, la presenza di figli o altri componenti a carico del lavoratore queste condizioni possono far si che le entrate non siano sufficienti alle necessità economiche di tutti. Oltre alle condizioni del lavoro e a quelle della famiglia vi è poi il contesto: la probabilità di essere lavoratori poveri cambia radicalmente se si vive e lavora in una regione ricca o povera e in un contesto urbano o non urbano. Da un lato, un lavoratore con un dato salario – per esempio un insegnate retribuito 1200 euro al mese – si trova ad affrontare spese molto differenti per gli stessi servizi in aree territoriali diverse. Dall’altro, la stessa condizione lavorativa può essere associata anche a costi diversi. Emblematiche sono le spese di trasporto che per alcuni possono essere gravose e per altri no. Mantenere un’automobile, pagare la benzina, il parcheggio sono costi da sostenere per recarsi al lavoro che rappresentano un grave carico su un bilancio familiare fragile. A parità di retribuzione la distanza e la facilità di raggiungere il luogo di lavoro possono fare la differenza. 

Oltre alle componenti economiche oggettive, il benessere dei lavoratori passa anche da condizioni soggettive. La seconda cautela ha infatti a che fare con i vissuti degli individui. Tra questi ha certamente un ruolo predominante la sicurezza lavorativa. Il lavoro stabile, a tempo pieno, continuativo è sempre meno diffuso, conseguenza di decenni di politiche di flessibilizzazione che miravano a favorire l’ingresso nel mercato del lavoro e la conseguente riduzione della disoccupazione, in particolare giovanile. Ciò ha reso sempre più frequente – in particolare per alcune categorie come i giovani e le donne – la situazione in cui si è impiegati in una posizione lavorativa temporanea. Essere occupati e magari anche con una buona retribuzione ma con un contratto a tempo determinato protegge dalla povertà economica in senso stretto, ma si rimane vulnerabili e soprattutto questo comporta rilevanti conseguenze sia per gli individui sia per la società nel suo insieme. 

I lavoratori a termine, infatti, ricevono meno formazione, dal momento che non c’è incentivo a investire su chi rimarrà nell’impresa solo temporaneamente. Al contrario spesso ci si aspetta che siano più produttivi in quando per loro è più conveniente darsi da fare per sperare in un rinnovo di contratto o in una stabilizzazione. Dal punto di vista del benessere non stupisce che, se confrontati con i colleghi con contratti stabili, gli occupati con contratti a tempo determinato siano più insoddisfatti; e lo sono anche a parità di stipendio, sebbene vada tenuto presente che solitamente sono meno pagati. Questo trattamento disuguale – condizioni lavorative diverse per svolgere la stessa mansione – porta alla percezione della disuguaglianza, con conseguenze negative per tutti, non solo per chi è assunto a tempo determinato. 

Una delle implicazioni più rilevanti riguarda i consumi. Indipendentemente dal reddito familiare effettivo, le decisioni sulle spese dei nuclei si basano sul reddito previsto nel lungo periodo, il cosiddetto reddito permanente, e non sul reddito attuale, detto corrente. In altre parole, un lavoratore con un contratto di sei mesi non modificherà di molto i suoi consumi. Se prima non lo faceva, difficilmente inizierà a mangiare fuori una volta alla settimana. Questo perché gli individui e le famiglie hanno solitamente alti livelli di avversione al rischio di fronte all’incertezza sul futuro che li spingono a mantenere gli stessi livelli di consumo fino a che non c’è certezza nel flusso di reddito nel medio-lungo periodo. Inoltre, al di là dell’effettiva situazione economica misurata dal reddito disponibile, gli occupati con un contratto a tempo determinato, specie se sono gli unici percettori nella famiglia, hanno molta più probabilità di sentirsi soggettivamente poveri. Questo li porta a contrarre il più possibile le spese e a risparmiare il più possibile per fronteggiare periodi di disoccupazione futura.

La terza cautela nell’affermare il predominio del lavoro fa riferimento alla disuguaglianza e ai suoi meccanismi di riproduzione tra le generazioni. Su questo punto va considerata la rilevanza di un’altra componente che insieme al lavoro che definisce le opportunità di vita delle persone e la disuguaglianza di una società, ossia la ricchezza. Quest’ultima è collegata al lavoro in modi che potremmo definire inattesi. Innanzitutto, non è il lavoro, o meglio il reddito da lavoro, la fonte principale della ricchezza, ma al contrario è la ricchezza che molto spesso influenza la partecipazione e le opportunità nel mercato del lavoro e consente ai più ricchi di accedere a posizioni lavorative meglio retribuite. Addirittura, in alcuni casi, ricevere una grande ricchezza, come una cospicua eredità, può portare a uscire dal mercato del lavoro. In secondo luogo, la ricchezza produce essa stessa ricchezza e rende quindi l’impegno e lo sforzo lavorativo molto meno rilevanti per accedere a maggiore benessere e sicurezza. Malgrado questa consapevolezza la tassazione dei redditi da lavoro è ampiamente superiore a quella dei redditi da patrimonio. Questa scelta è poco razionale se portata avanti dallo Stato per almeno tre ragioni. La prima è che non si premia il merito e quindi si ha una società meno efficiente. La seconda è che le rendite immobiliari o finanziarie sono improduttive, a differenza dell’attività lavorativa che per definizione rappresenta un’attività riconosciuta e volta alla produzione beni o servizi in cambio di una retribuzione. La terza è che contribuisce a riprodurre le disuguaglianze con conseguenze negative per tutta la società.

Dunque, le opportunità di lavoro insufficienti, spesso poco retribuite e instabili e il lavoro molto tassato mostrano come l’occupazione non può più essere considerata lo strumento primo di uscita dalla povertà, di sostegno dei consumi, e di definizione delle condizioni e delle opportunità di vita delle famiglie. In altri termini, il lavoro non è più in grado di reggere la centralità del funzionamento in salute della società. Ecco, allora che lavorare non basta, ma è necessario che le condizioni del mercato del lavoro e il ruolo delle politiche pubbliche cambino mettendo al centro il benessere degli individui e delle famiglie.

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