Lavoro, imprese e finanza: una partita a tre sul Pil

Enrico D’Elia e Stefania Gabriele presentano i risultati di una stima originale della distribuzione funzionale del reddito in Italia basata sui conti dei settori istituzionali. I risultati raggiunti si differenzino sotto vari aspetti da quelli di altre stime. In particolare, D’Elia e Gabriele trovano che la quota del lavoro ha continuato a diminuire anche in anni recenti, che i redditi da capitale delle società hanno tenuto, che gli utili delle società non finanziarie sono diminuiti e sostengono che questi andamenti riflettono cambiamenti strutturali nell’economia italiana.

Il tema della disuguaglianza, delle sue origini e conseguenze sta finalmente tornando al centro del dibattito economico. L’attenzione, da tempo concentrata sulla distribuzione personale del reddito e della ricchezza (e da alcuni estesa agli aspetti multidimensionali del benessere), di recente sta tornando anche sulla distribuzione funzionale, ovvero la ripartizione del prodotto tra i fattori che partecipano alla produzione. Un tema approfondito dagli economisti “classici” e dalla letteratura che ne discende, che ha sottolineato l’aspetto conflittuale di tale distribuzione, in contrapposizione alla visione “marginalista”, secondo cui il semplice operare del mercato porta la remunerazione di tutti i fattori produttivi ad eguagliare il contributo fornito da ciascuno di essi alla produzione. Ciò garantirebbe l’uso più efficiente delle risorse disponibili, tranne che nei casi in cui la presenza di asimmetrie informative e rendite di posizione provochi distorsioni del sistema dei prezzi relativi e delle retribuzioni.

Quando la distribuzione operata dal mercato è molto sperequata, come è avvenuto negli ultimi decenni, le politiche redistributive non sono in grado di correggere gli squilibri ed è dunque necessario intervenire anche sulla distribuzione primaria, o pre-distribuzione, secondo un termine coniato di recente (J.S. Hacker,The Institutional Foundation of Middle-Class Democracy, 2011; cfr. anche, sul Menabò,FraGra, La pre-distribuzione e le sue ragioni, 2016).

Il dibattito economico sta anche riconsiderando gli effetti negativi di una eccessiva disuguaglianza sulla crescita economica, abbandonando la narrativa del trickle down, abbastanza diffusa fino a qualche tempo fa, secondo cui la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi individui più dotati e intraprendenti stimolerebbe l’attività economica e non pregiudicherebbe una successiva redistribuzione delle risorse (“sgocciolamento”) a favore degli individui meno fortunati; al contempo, si va diffondendo l’apprensione per un livello di sperequazione così elevato da indebolire la domanda aggregata e frenare la crescita.

Gli studi sulla distribuzione funzionale hanno evidenziato una riduzione di lungo periodo della quota attribuita al lavoro (comprensiva dei contributi sociali) sul valore aggiunto nelle economie avanzate (IMF, World Economic Outlook: Gaining Momentum, 2017), che in Italia inizia a cadere nella seconda metà degli anni settanta e raggiunge un minimo a inizio secolo – quando torna su livelli vicini a quelli del ’60 –, per lasciare il posto ad un andamento crescente negli anni 2000 (cfr. ad esempio R. Torrini, Labour, profit and housing rent shares in Italian GDP: long-run trends and recent patterns, 2016).

Tuttavia, questa evidenza empirica dipende molto da come si stimano i redditi degli autonomi e le procedure di calcolo finora utilizzate sono piuttosto insoddisfacenti, perché basate su ipotesi ad hoc più che sui dati disponibili. Mostreremo che utilizzando le informazioni contenute nei conti nazionali per settori istituzionali la distribuzione funzionale ha un diverso andamento, e l’analisi effettuata risulta utile anche per comprendere meglio l’evoluzione dell’economia italiana negli ultimi due decenni.

Un aspetto cruciale dell’evoluzione delle quote distributive è l’andamento dei redditi da lavoro indipendente. A differenza dai salari, una stima di tale componente non viene fornita direttamente dalla contabilità nazionale, che la incorpora nella voce “risultato lordo di gestione”, assieme ai redditi da capitale e impresa. Tuttavia la quota del lavoro, se fosse riferita esclusivamente ai dipendenti, rifletterebbe non soltanto il rapporto tra costo del lavoro e prodotto medio per lavoratore, ma anche quello tra lavoratori dipendenti e occupazione totale (A. Stirati, Come calcolare correttamente la riduzione dei salari, 2011,).

In letteratura, come nei principali database internazionali sulla produttività (OECD, ECOFIN), il problema viene spesso affrontato attribuendo ad ogni lavoratore autonomo lo stesso reddito medio pro-capite dei dipendenti, eventualmente distinto per settore produttivo. Tuttavia, questa convenzione fornisce indicazioni particolarmente distorte in paesi, come il nostro, in cui il lavoro indipendente ha finito per rappresentare una tra le componenti più sensibili al ciclo e alle trasformazioni strutturali dell’economia. Tra i redditi da lavoro dipendente forniti dalla contabilità nazionale non sono infatti incluse forme di lavoro subordinato più o meno “mascherate”, quali le “partite IVA mono-committente” e le collaborazioni coordinate e continuative. Un metodo di stima alternativo, adottato in un nostro studio in corso di elaborazione, consiste nel fare uso dei conti dei settori istituzionali prodotti dall’Istat, una fonte ancora poco sfruttata che consente di ricostruire con un certo dettaglio anche i redditi dei lavoratori indipendenti e da capitale e impresa. Un corretto utilizzo delle informazioni fornite dall’Istat mostra che il calo dei redditi da lavoro indipendente trascina verso il basso la quota complessiva del lavoro anche dopo l’inizio del secolo in corso.

Più in dettaglio (figura 1), la quota del lavoro (sia dipendente che autonomo) sul valore aggiunto al costo dei fattori aumenta lievemente nella seconda parte degli anni novanta, ma poi si riduce tendenzialmente fino alla fine del periodo, perdendo complessivamente più di 3 punti rispetto al 1995. Il suo complemento, rappresentato dai redditi complessivi lordi da capitale e impresa, presenta ovviamente un andamento specularmente crescente.

La parte dei redditi da lavoro dipendente, che rappresenta il 42,9% del valore aggiunto a inizio periodo, dopo una piccola gobba nella seconda metà degli anni novanta si riduce fino al 2001 (-0,6 punti rispetto al 1995); va ricordato che questi anni rappresentano la fase finale di un periodo di caduta in corso dalla metà degli anni settanta. In seguito la quota risale fino al 2009 (+3,4 punti), per poi sostanzialmente stabilizzarsi, collocandosi a fine periodo al 45,6%.

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Sull’andamento della quota complessiva del lavoro incidono tuttavia, come si è visto, anche i redditi dei lavoratori indipendenti (autonomi, professionisti, piccoli imprenditori, oltre a “finte” partite IVA e lavoratori parasubordinati), che sono stati desunti sommando tre voci riportate nei conti dei settori istituzionali: la quota del reddito misto trasferita dalle famiglie produttrici, i redditi prelevati dai membri delle quasi società e gli altri utili distribuiti dalle società (che escludono i dividendi, ma includono gli utili delle società non quotate a controllo familiare). In base a questa stima analitica, i redditi degli indipendenti, aumentati molto lievemente nella seconda metà degli anni novanta rispetto al valore aggiunto, cominciano a ridursi dal 2000, perdendo ben 6,1 punti nell’intero periodo (dal 28,4%del 1995 al 22,3% del 2015). Questi andamenti riflettono tra l’altro sia il passaggio, nella fase di aumento dell’occupazione che precede la crisi, dal lavoro autonomo a quello dipendente, sia gli effetti della crisi e delle trasformazioni tecnologiche e organizzative sul lavoro autonomo e su quello precario, più immediati e relativamente più intensi di quelli sul lavoro dipendente.

La quota dei redditi lordi da capitale e impresa (ossia il risultato lordo di gestione al netto dei proventi dei lavoratori autonomi) è la sintesi di andamenti contrapposti delle sue componenti (figura 2). Il risultato lordo di gestione delle famiglie consumatrici, che rappresenta principalmente il valore (puramente virtuale) dei fitti figurativi degli immobili abitati dai proprietari, o fitti imputati, presenta un andamento quasi sempre crescente nel periodo di osservazione, e solo negli ultimi anni (2012 e 2014) mostra alcune limitate riduzioni. Il risultato lordo di gestione delle società, invece, oscilla intorno al 16-18% del valore aggiunto in tutto il periodo (era pari al 17,4% nel 1995 e ha raggiunto il 17,5% nel 2016), con un picco negativo (15,7%) in occasione della grande recessione nel 2009 e una risalita in seguito.

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L’andamento del risultato di gestione appare ancora meno favorevole se considerato al netto degli ammortamenti. Come mostra la figura 2, la quota di questi ultimi aumenta di quasi 3 punti tra il 1995 e il 2012, arrivando al 12%, per poi diminuire lievemente, mentre i redditi netti da capitale delle società presentano un andamento ciclico, interrotto da una caduta tendenziale della durata di dieci anni che si intensifica con l’arrivo della Grande Recessione, fino al minimo nel 2012 (4,1% del valore aggiunto, contro l’8,3% del 1995), e poi recuperano 2 punti.

Emerge dunque che i redditi complessivi da capitale e impresa sono stati sostenuti essenzialmente da due componenti in larga misura “virtuali”: gli ammortamenti (stimati in base a varie ipotesi sul consumo dei beni capitali) e i fitti imputati (che non aumentano gli introiti effettivi delle famiglie e il cui andamento, assai difficile da stimare, riflette soprattutto l’evoluzione dei valori di mercato delle abitazioni).

Da ultimo, si è distinto il risultato netto di gestione delle società finanziarie da quello delle altre società. La figura 3 mostra che i redditi da capitale netti delle società finanziarie, di importo limitato, crescono tendenzialmente in tutto il periodo, tranne che nei primi e negli ultimi anni, guadagnando complessivamente un punto, mentre i redditi delle società non finanziarie presentano un andamento simile a quello dei redditi da capitale complessivi, ma ancora più sfavorevole, collocandosi nel 2012 e 2013 più in basso, rispetto a inizio periodo, di quasi 5 punti, e recuperandone in seguito 1,8. Si osservi l’andamento quasi speculare delle due variabili, con uno sfasamento temporale di uno/due anni tra il punto di minimo del risultato netto di gestione delle società non finanziarie e quello di massimo delle società finanziarie.

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I dati esaminati evidenziano alcuni “fatti stilizzati” poco rassicuranti sul tipo di sviluppo realizzato in Italia negli ultimi vent’anni. Dall’esame delle quote dei fattori produttivi emergono: 1) un calo del peso complessivo del lavoro ed una sostanziale tenuta dei redditi da capitale lordi delle società; 2) una riduzione degli utili delle società non finanziarie, al netto degli ammortamenti, fino al 2013, seguita da un recupero non trascurabile, ma ancora parziale; 3) un aumento del risultato di gestione delle società finanziarie, anche al netto degli ammortamenti, e nonostante l’ultima crisi; 4) una stabile crescita della quota dei fitti figurativi, ossia di una componente puramente virtuale dei redditi delle famiglie.

* Le opinioni espresse in questo articolo sono personali e non coinvolgono le istituzioni di appartenenza degli Autori.

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