Lavoro precario e declino italiano

Gilberto Seravalli riprende l’idea alla base della teoria dei salari di efficienza – secondo cui l’efficienza dei lavoratori è positivamente influenzata dai salari e dalle condizioni di lavoro – e sostiene che la deludente dinamica della produttività totale dei fattori che da tempo caratterizza l’economia italiana sia da attribuire in buona parte alla de-regolazione del mercato del lavoro.

La teoria dei “salari di efficienza” considera che i datori di lavoro non hanno abbastanza informazioni per assumere i lavoratori più adatti alle loro esigenze e avere da essi il migliore impegno pagando salari di equilibrio. Perciò la teoria afferma che pagheranno salari più alti per attirare i migliori, ridurre il loro turnover, avere la massima collaborazione. In effetti la ricerca empirica ha trovato spesso correlazione tra produttività del lavoro e riconoscimento dell’impegno e del merito.

Nell’Italia degli ultimi 15 anni (dalla legge 24 giugno 1997 n. 196, alla legge 14 febbraio 2003 n. 30 al DL 20 marzo 2014 n. 34) vi è stata l’applicazione di una teoria opposta: non questa, della “carota”, ma quella del “bastone”. Smantellando le garanzie a difesa della stabilità dei rapporti di lavoro, non provvedendo nuovi ammortizzatori sociali e veri servizi per l’impiego, si è reso credibile e grave il deterrente della disoccupazione ed è crollato il potere contrattuale dei lavoratori. I conseguenti bassi salari, sotto quelli di equilibrio, dovrebbero compensare eventuali perdite di produttività.

Sostengo che è plausibile un nesso tra la questa precarizzazione dei rapporti di lavoro e il declino italiano.

Il declino. La crescita del Pil pro capite dipende dal numero di ore lavorate (influenzato, a sua volta, dalla congiuntura interna e internazionale) e dalla produttività oraria, che in parte dipende dalla congiuntura ma è determinata soprattutto dall’accumulazione di capitale fisico e umano, dalle tecnologie, dall’innovazione, dal sistema organizzativo e istituzionale.

Dal 2000 al 2013 l’Italia ha registrato crescita zero del Pil pro capite, il risultato peggiore nell’Europa a 27, e non a causa della riduzione delle ore lavorate. Le ore lavorate in Italia sono diminuite meno che in Irlanda, Regno Unito, Romania, Lituania, Portogallo, Ungheria, Spagna, Francia, Danimarca, tutti paesi che sono cresciuti più dell’Italia. Vi è stata in Italia la mancata crescita della produttività oraria. Il che costituisce nel panorama europeo una vera anomalia, tanto più che è stato soprattutto il settore industriale a determinare questo cattivo risultato. In altri paesi, come per esempio Francia, Olanda, Germania, Austria, l’industria ha dato il maggiore contributo positivo alla crescita della produttività oraria, compensando una crescita inferiore della produttività nei servizi, specie nei servizi pubblici. Solo in Italia la produttività dell’industria è cresciuta meno che nei servizi privati, ma anche meno che nei servizi pubblici [1. Si veda Van Ark, B., V. Chen, B. Colijn, K. Jaeger, W. Overmeer, M. Timmer (2013), Recent Changes in Europe’s Competitive Landscape and Medium-Term Perspectives: How the Sources of Demand and Supply Are Shaping Up, European Commission Economic Papers 485, April].

Il tasso di variazione della produttività oraria può essere scomposto in quattro fattori additivi: i) aumento dei livelli di istruzione; ii) accumulazione di capitale fisico tradizionale; iii) accumulazione di capitale in nuove tecnologie; iv) residuo (tfp), che si ritiene misuri efficienza e innovazione.

Con questa scomposizione, l’anomalia italiana diventa clamorosa.

Dal 2000 al 2013 la produttività oraria non è cresciuta specie nell’industria perché la tfp (efficienza e innovazione) ha avuto valore negativo; mentre vi sono stati contributi positivi per quanto modesti dell’accumulazione di capitale umano e fisico, sia tradizionale che in nuove tecnologie. Non vi è un altro paese industrializzato che abbia registrato una tfp negativa. Inoltre, questo anomalo valore negativo del residuo non è recente e non dipende dalla crisi internazionale; esso ha infatti cominciato ad emergere già nei primi anni del duemila.

Le spiegazioni. L’anomalia italiana richiederebbe azioni straordinarie per essere superata. Essa indica che è successo qualcosa di vasto e profondo, paragonabile – con il segno opposto – al miracolo economico che abbiamo avuto a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso.

Quali sono le ragioni di questo disastro? Fattori negativi non mancano in Italia dagli anni novanta, come l’enorme debito pubblico che impedisce politiche espansive per nostra responsabilità (ben oltre quelle dell’Europa o della Germania), e ha portato a tagli, talvolta insensati, a scuola, ricerca, sanità, trasporti. La perdita di legittimazione della politica con le sue conseguenze sull’amministrazione pubblica può essere stato un altro fattore negativo importante che ha agito sull’economia in modo diretto e indiretto (giustizia lentissima, evasione fiscale, corruzione, criminalità organizzata, procedure spesso stupidamente lunghe e complicate). Altri fattori di declino spesso indicati riguardano le piccole imprese, persistente struttura portante dell’industria italiana, che sarebbero incapaci di crescita e innovazione.

Le ricerche che vanno in una diversa direzione sono poche ma non mancano. Esse mostrano come la componente tfp italiana negativa sia dovuta non soltanto alla bassa spesa in ricerca e innovazione, ma anche all’ insicurezza del lavoro introdotta a dosi massicce, fino a fare del mercato del lavoro italiano il più deregolato d’Europa.

Prendendo in seria considerazione questa diversa linea interpretativa si potrebbe proporre la seguente ipotesi.

Vi sono sempre stati in Italia due modi diversi di considerare le piccole imprese industriali. In base al primo, esse erano e – soprattutto sono ora -non competitive. Secondo questo modo di vedere, per sostenere le piccole imprese, le politiche di svalutazione della lira a lungo adottate in Italia erano indispensabili, e dovevano essere accoppiate ad altre misure per trasferire l’aumento del costo delle importazioni su altri settori e soggetti. Il secondo modo di pensare ha considerato invece le piccole imprese in grado di competere e ha concepito la svalutazione come una politica finalizzata a sostenerne i profitti, dato il peso politico e sociale dei piccoli imprenditori. Guardando i dati, sembra difficile scartare la seconda interpretazione. La crescita dell’occupazione nelle piccole imprese dell’industria manifatturiera in Italia è durata trent’anni, un lungo arco di tempo finito solo dieci anni fa. Tra il 1971 e il 2001 le imprese manifatturiere con meno di 50 addetti hanno incrementato l’occupazione di 760 mila lavoratori bilanciando buona parte della perdita di 960 mila lavoratori delle imprese con più di 50 addetti. L’aumento del peso dell’occupazione delle piccole imprese (in Italia dal 42% nel 1971 al 59% del 2001) è stato un processo generale in quel trentennio in molti paesi; ma da noi, caso unico nei paesi industrializzati, vi è stata una crescita anche dei valori assoluti dell’occupazione delle piccole imprese tra il 1971 e il 1981.

Per entrambi i due modi di pensare, l’Euro, impedendo le svalutazioni, ha richiesto interventi dal lato dei costi. Se il tasso di cambio è fisso, la sopravvivenza o gli extraprofitti della piccola impresa prima ottenuti con la svalutazione adesso richiedono una riduzione dei costi. Ma non vi è un solo modo di agire sui costi. Si può agire riducendo quello che si spende, ma si può agire anche aumentando la produttività. In Italia è stata adottata la prima via. E’ stato deciso che le piccole imprese dovevano essere sostenute con una “svalutazione interna”: rendere, cioè, il lavoro precario per avere una drastica riduzione del potere contrattuale dei lavoratori e quindi dei salari.

La ricetta non sembra aver funzionato. Le piccole imprese hanno perso 748 mila posti di lavoro dal 2001 al 2011 su una riduzione complessiva di un milione di occupati nell’industria manifatturiera. La ragione dipende probabilmente dal legame funzionale tra condizioni di lavoro e qualità produttiva. Le piccole imprese manifatturiere erano in grado di sostenere la concorrenza interna e internazionale realizzando prodotti singolarmente capaci di rispondere alle esigenze dei clienti per quanto specifiche. Questa flessibilità e capacità innovativa (per quanto di prodotto e incrementale) era possibile grazie alla lealtà e dedizione dei lavoratori a cui erano garantite stabilità del posto di lavoro e buone paghe. Pagando meno i lavoratori e non garantendo loro più nulla, le imprese non hanno potuto più contare sulla loro fedeltà e dedizione e i prodotti sono peggiorati (o non hanno continuato a migliorare relativamente alla qualità, ai tempi di consegna e ai servizi) rispetto a quelli offerti dai concorrenti più avanzati. E, per quanto ridotti, i loro costi non hanno potuto (ovviamente) ridursi al livello di quelli dei produttori emergenti.

Conclusioni. Questa ipotesi suggerisce che la tfp dipenda dalla sicurezza del lavoro e dalla sua qualità. Una conferma, anche se da verificare ulteriormente, viene da un esercizio econometrico condotto, relativamente al periodo 2005-2011, su 13 paesi europei, tra cui l’Italia dal quale risulta che la quota di occupati poveri (intesi come coloro che percepiscono un reddito inferiore al 60% di quello mediano) è negativamente correlata con la tfp e probabilmente è una delle sue cause.
Vi sono, dunque, indizi consistenti che permettono di ritenere non infondata questa ipotesi, che ha il merito di collegare l’eccezionale e anomalo declino italiano con una causa altrettanto eccezionale e anomala come la de-regolazione del mercato del lavoro, che non ha paragoni e che ha degradato la situazione sociale e morale del nostro paese in maniera straordinariamente vasta e profonda.

Schede e storico autori