ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 184/2022

18 Dicembre 2022

Le cause economiche della guerra

Riccardo Zolea ragiona sulle cause economiche della guerra in Ucraina, prendendo spunto da un recente libro di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli. Zolea focalizza l’attenzione sulla concentrazione dei capitali ed il conseguente conflitto tra capitali nazionali dei Paesi debitori (USA) e creditori (Cina e Russia) e rileva che il contrasto tra capitalismi nazionali ricorda il periodo precedente la Prima Guerra Mondiale. Studiare le cause economiche profonde di quel conflitto può essere utile per la costruzione della pace.

«Voi uomini l’avete distrutta! Maledetti, maledetti per l’eternità, tutti!»

In molte facoltà di economia a marzo 2022, con l’inizio dei corsi del secondo semestre, è stato probabilmente domandato ai docenti quali sarebbero state le conseguenze economiche dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Forse qualche studente ha chiesto anche quali fossero le cause del conflitto. Infatti, come insegna, tra gli altri, Keynes, le guerre scoppiano spesso per motivi economici (si pensi al celebre Le conseguenze economiche della pace, del 1919). Le risposte a questa domanda non sono facili e, soprattutto, il dibattito pubblico e anche accademico non ha fornito spiegazioni articolate e convincenti – e magari anche semplici quanto occorre per risultare comprensibili a studenti dei primi anni di economia – delle ragioni di fondo per le quali è esplosa questa guerra. 

Un passo avanti in questa direzione si può fare grazie a un libro di recente pubblicazione: La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista di E. Brancaccio, R. Giammetti e S: Lucarelli S. (2022). Il libro, infatti, pur toccando temi complessi in maniera rigorosa, è di facile assimilazione e può essere comprensibile anche per coloro che s’interessano alle questioni economiche senza lunghi e complessi studi pregressi.

Questo libro affronta una questione spinosa come la guerra con un approccio prettamente economico, di impostazione marxiana, che si caratterizza per un’analisi d’insieme del funzionamento del capitalismo globale contemporaneo. La discussione passa così finalmente dalla propaganda televisiva al dibattito scientifico,

Per Brancaccio e colleghi una delle funzioni principali dell’economia politica consiste nell’individuazione di tendenze di lungo periodo del sistema economico. La tendenza studiata dai tre autori è la concentrazione di capitali. Il primo capitolo del libro ripercorre oltre alle analisi neoclassiche sul tema quelle marxiste (di Marx, Hilferding, Luxemburg, Lenin e Sweezy per citare i principali autori), il secondo invece analizza i dati sulla centralizzazione del capitale nell’economia mondiale contemporanea. Infine, il terzo capitolo ospita alcune interviste a Brancaccio a proposito della guerra in Ucraina e del contesto economico e politico del sistema capitalistico mondiale.

La tesi principale del libro è che i capitali (e dunque i capitalisti) siano in un continuo contrasto tra loro con vincitori e vinti, dove i vinti vengono fagocitati dai vincitori. Il risultato è che la proprietà del capitale, cioè dei mezzi di produzione, è in mano a sempre meno persone sempre più ricche (tendenza evidenziata anche da T. Piketty nel Capitale nel XXI secolo, 2013, e da sempre discussa in ambito economico da prospettive anche diverse, da Marx a Schumpeter o Galbraith). Ovviamente, il sistema è soggetto anche a contro-tendenze che spingono in direzione opposta, complicando il quadro di analisi e dando adito a risultati complessi e contraddittori. Questa dinamica però conduce infine a due effetti oltremodo nefasti. 

Il primo è una perdita progressiva di significato e di peso al valore della democrazia “borghese”, ovvero ai valori democratici alla base dei sistemi politici occidentali e allo svuotamento dell’importanza di governi e parlamenti (si pensi all’astensionismo elettorale sempre maggiore nei Paesi occidentali, all’invasione di Capitol Hill nel 2021 in USA, alla cessione della politica monetaria ad autorità sovranazionali nell’Unione Europea, alla dottrina del “pilota automatico” sulle decisioni di politica fiscale ancora nell’Unione Europea, all’attuazione sempre più completa del “Piano di rinascita nazionale” della loggia segreta P2 in Italia…). Se infatti il potere reale (la proprietà dei mezzi di produzione) è sempre più accentrato, le decisioni sono prese, nei fatti, da un numero via via minore di persone nell’interesse di un numero sempre minore di persone. La seconda conseguenza è che il contrasto tra capitali nazionali porta alla guerra. 

Un altro punto rilevante proposto dagli autori è l’interessante riflessione sul ruolo del tasso d’interesse fissato dalla banca centrale che, più che regolare il conflitto distributivo tra lavoratori e capitalisti (si veda per esempio, M. Pivetti, An Essay on Money and Distribution, 1991), regolerebbe il conflitto tra capitali. Un maggiore o minore tasso d’interesse corrisponderebbe a un maggiore o minore livello di fallimenti di imprese indebitate e dunque a un minore o maggiore livello di concentrazione capitalistica. Questa tesi è molto stimolante e potrebbe ben sposarsi con l’impostazione marxiana del tasso d’interesse come regolatore del conflitto tra capitale finanziario e produttivo. Per Marx infatti il tasso d’interesse è determinato dalla domanda e dall’offerta di capitale monetario, nonché dal contrasto tra sottoclassi di capitalisti, riferibili a due distinte figure: il capitalista produttivo, che gestisce e organizza la produzione, e il banchiere, che mette a disposizione del primo il capitale in forma monetaria (per una rassegna in materia si veda Zolea R., International Journal of Political Economy, 51 (2), 2022).

Tornando al legame tra centralizzazione dei capitali e scontro militare tra Paesi, la guerra in Ucraina è il principale conflitto armato in un più ampio contesto di conflitto economico tra gli interessi dei capitali “orientali” (Cina e Russia) e di quelli “occidentali” (USA), con l’Europa a rimorchio degli Stati Uniti. Infatti, la Cina e in misura minore la Russia sono paesi creditori, mentre gli USA sono debitori. Per anni gli Stati Uniti hanno compensato il disavanzo della bilancia dei pagamenti tramite guerre , ma questo sistema ha perso di efficacia dopo l’invasione dell’Afghanistan (2001-2021) e dell’Iraq (2003-2011), che si sono tramutate in debacle politico-militari. La risposta statunitense alla crisi della propria egemonia è consistita allora nel tentativo di evitare o quantomeno ridurre l’importazione di merci straniere, in particolare cinesi, con lo scopo di migliorare la propria bilancia dei pagamenti, riducendo le importazioni ed aumentando le esportazioni verso i Paesi amici. Questi ultimi, infatti, una volta condivise le limitazioni al libero commercio verso i Paesi terzi rivali, devono di conseguenza modificare la propria struttura produttiva, aumentando le importazioni dai Paesi alleati, e dunque spesso dagli USA (si pensi alla vicenda delle forniture di gas all’Europa da parte degli USA).Gli USA hanno quindi utilizzato misure protezionistiche, spesso mascherandole da sanzioni economiche dovute a motivi politici, come mostrato in una appendice del libro di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli, i quali ritengono infatti le sanzioni una causa della guerra e non una sua conseguenza ed evidenziano che la pratica delle sanzioni da parte degli USA a Paesi rivali dal punto di vista economico-commerciale è in vigore da molto prima dell’inizio della guerra in Ucraina (cominciata comunque nel 2014, seppure su una scala di gran lunga minore e senza il coinvolgimento diretto di potenze nucleari).Dopo aver costretto il mondo ad aprirsi al libero mercato (globalizzazione), l’Occidente si è visto sconfitto al suo stesso gioco, e ha optato per il protezionismo. E, dal punto di vista economico, questa è la causa ultima della guerra, cioè il conflitto tra capitali in forma armata per l’apertura di quei mercati preclusi dal protezionismo. 

Sulle tendenze economiche di lungo periodo del capitalismo si innestano poi tante concause specifiche della guerra in Ucraina (come l’espansione della NATO a Est, su cui si veda questo articolo del Guardian; la paura atavica dei russi di un’invasione da Ovest; il trauma della caduta dell’URSS per gli ex cittadini sovietici; i conflitti etnici e nazionalistici europei mai del tutto sopiti…). D’altronde, come afferma E. Hobsbawm, (in L’Età degli imperi 1875-1914, 1987) fiumi di inchiostro e migliaia di pagine sono state scritte per identificare le cause della Prima Guerra Mondiale e ancora non si è arrivati a una conclusione condivisa da tutti, definitiva e inoppugnabile. Figurarsi dunque individuare con certezza e sicurezza le cause ultime di una guerra tutt’ora in corso. È però fondamentale l’analisi dei fattori economici di questa guerra, lasciando agli storici e ad altri studiosi gli aspetti storici, nazionalistici e geopolitici.

Il tema della centralizzazione dei capitali si presta a due ulteriori osservazioni. La prima riguarda il ruolo del crimine organizzato all’interno del sistema capitalistico mondiale. Il primo è infatti una potenza transnazionale che gestisce ingenti risorse e un gran volume di denaro liquido. È facile immaginare che la concentrazione di capitali passi anche da quelle mani. 

Un altro tema da approfondire potrebbe essere l’analisi dei sistemi economici differenti di alcuni Paesi dell’Oriente: bisogna infatti tenere presente che la Cina dichiara di essere un Paese socialista. Sicuramente la Cina è in conflitto con gli USA e sicuramente ha una bilancia dei pagamenti in credito verso l’Occidente, ma l’analisi politica e la valutazione del sistema economico-sociale cinese giocano un ruolo enorme nell’analisi del conflitto a livello mondiale (su questo si veda A: Gabriele , Enterprises, Industry And Innovation in the People’s Republic of China. Questioning Socialism from Deng to the Trade and Tech War, 2020;A. Gabriele e E. Jabbour., Socialist Economic Development in the 21st Century A Century after the Bolshevik Revolution, ).

La guerra in Ucraina ha aperto una nuova fase storica, politica e sociale per il mondo intero. Il conflitto in corso implica in maniera evidente rilevanti problemi economici per l’Unione Europea (si veda lo speciale di Moneta e Credito, 75 (298), 2022, nonché G. Celi, D. Guarascio, J. Reljic, A. Simonazzi e F. Zezza sul Menabò). Dall’altro lato, sullo scacchiere globale cercano di emergere la Russia, che ha lanciato la sfida alla NATO, e soprattutto la Cina, che da lontano guarda, misura e registra gli eventi, preparandosi per un eventuale conflitto futuro. Il risultato finale, i vincitori e i vinti di questa guerra, sono ancora difficili da determinare.

Siamo di fronte a un quadro molto fosco che ricorda l’epoca cupa della fine del lungo Ottocento, conclusosi con la Prima Guerra Mondiale. Per non ripetere gli stessi errori bisogna spezzare le dinamiche e le catene di eventi che portano alla guerra totale. L’analisi economica ha molto da dire sulle direzioni di sviluppo del sistema economico (capitalistico). Proprio studiando queste dinamiche e prevedendone gli eventuali sviluppi nefasti è possibile gettare le basi per creare un’alternativa pacifista. Senza un’analisi materiale, fredda, disincantata, disillusa e spietata delle leggi generali del sistema capitalistico è difficile uscire da propaganda e falsi miti. Scrive Hobsbawm (L’Età degli imperi 1875-1914, Bari: Laterza, 1987 [2005], p. 355) a proposito dello scoppio della Prima Guerra Mondiale: 

“Il massimo che si può dire è che a un certo punto, nella lenta scivolata verso l’abisso, la guerra sembrò oramai così inevitabile, che alcuni governi decisero che forse era meglio scegliere il momento più favorevole, o meno sfavorevole, per cominciare le ostilità.”.

Questa descrizione è particolarmente appropriata anche alla situazione attuale, sebbene oggi sia ancora possibile impedire questa lenta scivolata verso l’abisso, prima di trovarci in una spiaggia a contemplare la Statua della Libertà emergere dal mare in un mondo dominato da scimmie…

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