Le tante ragioni per continuare a preoccuparsi delle disuguaglianze

Elena Granaglia si confronta con la diffusa tesi secondo cui i veri problemi del nostro paese sono povertà, impoverimento e bassa crescita ma non le disuguaglianze. Dopo una breve disamina dell’andamento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza in Italia, Granaglia sostiene che una politica contro le disuguaglianze è necessaria, in particolare perché può, da un lato, contrastare proprio la povertà e l’impoverimento con effetti benefici sulla crescita (e non solo) e, dall’altro, dare risposta a problemi etici, cruciali per la giustizia sociale.

Il tema del contrasto alle disuguaglianze continua a suscitare perplessità nel nostro paese. Perché occuparsi delle disuguaglianze quando queste sarebbero sostanzialmente stabili? I veri problemi non sono forse povertà, impoverimento e bassa crescita anziché ciò che capita nella parte medio-alta e alta della distribuzione? Se così, di questi problemi dovremmo occuparci, nella consapevolezza delle differenze fra le politiche contro la povertà/l’impoverimento e a favore della crescita, da un lato e le politiche contro le disuguaglianze, dall’altro. Paradigmatico, al riguardo, è l’articolo di Borga su Il Foglio del 26 agosto c.a.

La posizione che vorrei argomentare è che certamente ci sono stati periodi nella nostra storia recente in cui le disuguaglianze sono aumentate di più di quanto stia avvenendo oggi. Come rileva Atkinson (Disuguaglianza. Che cosa si può fare, Raffaello Cortina, 2016), se analizziamo l’evoluzione della disuguaglianza, ciò che osserviamo, oltre all’eterogeneità fra paesi, è il peso degli episodi. La crescita della disuguaglianza, in altri termini, non sembra seguire una tendenza continua. Al contrario, si concentra in determinati momenti. Per l’Italia, centrale è stato l’incremento realizzatosi all’inizio degli anni ‘90. Al contempo, l’Italia è, nel complesso, meno disuguale dei paesi anglosassoni e i super-ricchi detengono una quota assai più bassa di reddito nazionale. In questo senso, vanno abbandonate anche la retorica delle disuguaglianze costantemente crescenti e la tendenza a fare di tutta l’erba un fascio, estendendo automaticamente all’Italia considerazioni che valgono per altri paesi.

Certamente povertà, impoverimento, bassa/assente crescita sono un grave problema per il nostro paese. I poveri assoluti erano nel 2018, l’8,4% della popolazione, di cui 1.260.000 minori. Seppure stabile rispetto agli anni precedenti, il dato si attesta ai livelli massimi dal 2005, con un incremento di poco meno del 145%. Inoltre, il PIL reale pro capite è ancora oggi inferiore al valore pre-crisi: era 28.200 euro nel 2008 ed è sceso a 26.700 euro nel 2018, con una diminuzione di circa 5,5 punti. Rispetto al PIL medio della UE a 28, ciò significa una diminuzione da 107,2% a circa 95%. Considerando il 2007, la perdita è addirittura di circa 7 punti. Questa riduzione del PIL pro capite si è riversata anche sui redditi disponibili e, come sottolineano Brandolini, Gambacorta e Rosolia (2019), essa “ha riguardato tutta la popolazione: il crescente impoverimento nella parte inferiore della distribuzione si è associato a un calo generalizzato dei redditi”. In questo contesto, la disuguaglianza non è cambiata molto e, comunque, anche il lieve cambiamento avrebbe a che fare più con un peggioramento nella parte bassa che con un miglioramento nella parte alta. Come rileva Baldini (https://www.lavoce.info/archives/52760/perche-aumenta-la-disuguaglianza-in-italia/), infatti, i soggetti che hanno perso di più dalla crisi sono coloro che si collocano nei primi decili della distribuzione del reddito.

Anche altri dati, però, vanno presi in considerazione. Ad esempio, se si osserva la disuguaglianza di mercato, ossia la disuguaglianza prima dell’intervento pubblico in materia di tassazione e integrazione dei redditi, l’Italia si colloca a un livello fra i più elevati nei paesi OCSE, con un valore simile a quello degli Usa. Rispetto ai redditi disponibili (i redditi detenuti dopo l’intervento impositivo e i trasferimenti), la disuguaglianza è, invece, inferiore a quella degli Stati Uniti, dove è minore incidenza dell’intervento redistributivo. Anche rispetto ai redditi disponibili, la disuguaglianza resta, tuttavia, elevata quando confrontata con quella di molti altri paesi europei. Se è poi vero che la disuguaglianza nei redditi disponibili non ha subito cambiamenti rilevanti negli ultimi tempi – il valore odierno dell’indice Gini è simile a quello di quindici anni fa -, altrettanto è vero che era un po’ diminuita prima della crisi, ma ha ricominciato a crescere dopo di essa, passando da circa 0,31 a 0,33.

Se si considerano poi i redditi da lavoro, l’ultimo rapporto dell’INPS focalizzato sui lavoratori dipendenti privati, rileva l’aumento, negli ultimi quaranta anni, delle soglie per accedere all’ultimo decile e, all’interno di tale decile, la concentrazione dell’aumento sulla quota più ricca. Più in particolare, considerando l’intervallo 1978-2017, la soglia per entrare nel top 0,01% è più che raddoppiata, passando da 220.000 euro a 533.000; quella per entrare nel top 0,1% è quasi raddoppiata, passando da 122.000 euro a 217.000; quella per entrare nel top 1% è passata da 62.000 a 91.000 euro, mentre per accedere al 10% più ricco l’incremento è stato più contenuto, da 31.000 a 39.000 euro. Le soglie di accesso ai decili meno elevati della distribuzione sono, invece, rimaste sostanzialmente immutate (e nell’ultimo periodo sono in diminuzione). Agire (Contro le Disuguaglianze. Un Manifesto, Laterza, 2018), dal canto suo, rileva come il lavoro abbia nel tempo acquisito un peso crescente fra le fonti dei redditi dei più ricchi.

Se si considera, inoltre, la ricchezza, alcune stime preliminari di Acciari, Alvaredo e Morelli, relative al periodo 1995-2015, mostrano una crescita nella quota di ricchezza detenuta dall’1% più ricco, dal 18% al 24%. Al contempo, cala al 38% la quota detenuta dal 90% più povero.

Le osservazioni finora riportate si limitano alla dimensione corrente. Esaminando la dimensione inter-generazionale, la disuguaglianza non solo è sempre stata elevata nel nostro paese, ma appare anche in crescita.. In questi ultimi anni, è altresì aumentata la concentrazione dei lasciti ereditari.

Si tratta, ovviamente, di evidenze parziali. Mi sembrano, tuttavia, sufficienti per mettere in discussione il disinteresse per la disuguaglianza. Al contrario, nel nostro paese, i livelli di disuguaglianza sono elevati e vi sono segnali (seppure parziali) di aumento.

Disuguaglianze elevate possono avere conseguenze negative anche rispetto alla possibilità di contrastare povertà e impoverimento. Da un lato, sul piano distributivo, la povertà/l’impoverimento dipendono dalle modalità di ripartizione del valore aggiunto prodotto dall’economia: distribuzioni più ugualitarie li riducono e distribuzioni meno ugualitarie li aumentano. Se così, neppure vi è alcuna garanzia che una maggiore crescita produca miglioramenti per chi sta peggio. Non a caso, i lavoratori poveri sono in aumento anche in molti paesi che hanno beneficiato di una crescita più robusta della nostra. La povertà dipende, altresì, da come si distribuiscono i posti di lavoro. Distribuzioni a favore del secondo redditiere di famiglie non povere potrebbero essere del tutto impotenti a ridurre la povertà. Dall’altro lato, sul piano redistributivo, maggiore è la disuguaglianza, minore potrebbe essere la disponibilità ad aiutare gli svantaggiati. La disponibilità a redistribuire appare, infatti, influenzata dalle condizioni materiali. Più ci percepiamo parte di una medesima comunità di rischio più tendiamo a essere disponibili a darci l’un l’altro una mano: non a caso, i più importanti sviluppi dello stato sociale sono avvenuti in comunità in condizioni simili. Più le distanze aumentano, più i destini, invece, si divaricano: i ricchi neppure vedono chi sta peggio e i loro bisogni. Addirittura, si accentua il rischio di una modificazione delle preferenze dei più ricchi (a carico dei quali sarebbe posta la redistribuzione) nella direzione di una minore empatia nei confronti di chi sta peggio (come sostenuto sul Menabò da FragGRa). Non solo: la distanza fra ricchi e poveri implica anche segmentazione territoriale, fra aree di opulenza e aree di degrado, con connessi effetti Matteo secondo cui chi più ha più avrà e chi meno ha meno avrà. Per i poveri ciò significa esposizione a servizi sempre peggiori, a cumuli di svantaggi materiali e immateriali e, per la collettività, un maggiore costo da sostenere qualora si volesse rimediare.

Considerazioni analoghe si estendono alla crescita economica, poiché la disuguaglianza indebolisce la domanda aggregata e la disponibilità a impegnarsi. Disuguaglianze elevate, inoltre, potrebbero produrre altre conseguenze indesiderabili, in particolare per la coesione sociale e il funzionamento della democrazia.

In ogni caso (e ringrazio Maurizio Franzini per questa osservazione), contrastare la povertà senza incidere sulle disuguaglianze a rigore vuol dire che si punta esclusivamente sul reddito in più che i poveri potranno ottenere grazie alla crescita. Anche a prescindere dalle altre critiche: quanti anni ci vorrebbero nelle condizioni attuali?

Non è tutto. A prescindere dall’elevatezza e dalle relative conseguenze, le disuguaglianze di reddito e di ricchezza pongono, in sé, ulteriori problemi etici, al cuore della giustizia sociale. La ragione è che l’equità richiede di giustificare gli uni agli altri le modalità di ripartizione dei benefici e dei costi della cooperazione sociale. In ambito di mercato, ciò significa giustificare cosa è mio e cosa è tuo, ossia, affrontare l’annosa questione dei diritti di proprietà (torniamo al tema della distribuzione, in questo caso, indipendentemente dagli effetti sulla povertà). Potremmo anche dire cosa si meritano gli uni e cosa si meritano gli altri. I mercati, da soli non sono in grado di offrire una risposta. Tocca alla collettività e molte delle risposte oggi offerte appaiono carenti, suffragando più di un dubbio circa la giustizia delle odierne distribuzioni di mercato. Basti pensare all’indebolimento del potere per un gran numero di lavoratori, alla precarizzazione di molti rapporti di lavoro, alla crescita del peso delle rendite e alla persistenza di nepotismo.

In conclusione, appare davvero poco convincente opporre il contrasto della povertà/dell’impoverimento e la promozione della crescita, alla lotta alle disuguaglianze. Al contrario, dato il livello delle disuguaglianze esistenti, limitarle può contribuire anche alla riduzione della povertà/dell’impoverimento e alla crescita e può, inoltre, produrre altre conseguenze positive. Le disuguaglianze in sé pongono poi seri problemi etici, relativi alla giustizia o all’ingiustizia dei processi di formazione. I segnali di ingiustizia appaiono oggi numerosi. Adottare una seria agenda di contrasto alle disuguaglianze rimane, pertanto, un’esigenza centrale per il nostro paese.

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