ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 226/2024

1 Dicembre 2024

L’economia di Tafazzi

Enrico D’Elia interviene sull’intenzione di Trump di inasprire i dazi sulle importazioni e di tagliare il welfare in cambio di una riduzione delle imposte, nella convinzione che il saldo sia positivo per l’economia. D’Elia ricorda che imporre i dazi per realizzare il pareggio negli scambi bilaterali può condurre all’autarchia e ad una recessione mondiale e sostiene che è necessaria una forte riduzione delle imposte per compensare gli effetti negativi dei tagli al welfare e della imposizione di dazi sul potere d’acquisto delle famiglie.

La nuova presidenza statunitense ha annunciato un inasprimento dei dazi sulle importazioni e tagli al welfare in cambio di una riduzione delle imposte, nella convinzione che il saldo complessivo della manovra sia positivo per l’economia. Tuttavia è probabile che i primi due provvedimenti comporteranno oneri diretti e indiretti per i cittadini superiori agli sgravi fiscali, cosicché queste politiche avrebbero effetti autolesionistici che riportano alla mente il personaggio televisivo di Tafazzi, noto per percuotersi violentemente l’inguine con una bottiglia. Molti hanno avanzato dubbi sui probabili risultati dell’applicazione del programma annunciato da Trump, ma qui mi concentrerò sugli effetti per le famiglie, ovvero su chi ha votato la nuova amministrazione. Naturalmente, molte delle perdite per le famiglie si tradurranno in guadagni per imprese e finanza, ma alcuni svantaggi colpiranno probabilmente tutta l’economia, seppure in modo differenziato.

È almeno dai tempi di Adam Smith che gli economisti si sono convinti che i dazi non fanno bene all’economia perché ostacolano l’impiego efficiente delle risorse nazionali. Smith scriveva che «è una regola di condotta di ogni prudente capofamiglia quella di non cercare mai di fabbricare a casa ciò che costerebbe più far da soli che comprare» per scongiurare l’orrore della produzione di vino da viti coltivate in serre scozzesi a prezzi esorbitanti. Più tardi David Ricardo avrebbe sviluppato questa intuizione nella teoria dei vantaggi comparati, che non guarda al valore monetario delle importazioni, ma piuttosto al confronto tra i costi di produzione relativi dei vari beni e servizi all’interno dei diversi paesi. Infatti a ciascun paese, come a qualsiasi famiglia o impresa, conviene impegnare le proprie risorse nelle attività in cui è più efficiente ed acquistare il resto piuttosto che sprecare capitale e lavoro producendo tutto da soli. Questa convenienza prescinde dal valore monetario degli scambi.

Smith non si nascondeva che «la merce è importata dall’estero con nostro grande disappunto» almeno nel breve periodo perché determina un deflusso di valuta (tacendo sul probabile aumento della disoccupazione). Tuttavia era convinto che alla lunga i vantaggi del commercio tra paesi, a cominciare dal trasferimento delle tecnologie e dalla specializzazione, avrebbero superato questi inconvenienti. Smith non si preoccupava del fatto che, in alcuni casi, l’apertura al commercio poteva generare una crescita che impoverisce a causa di rapporti di scambio particolarmente sfavorevoli, o forse trascurava intenzionalmente questo rischio. Inoltre non teneva in considerazione alcune circostanze in cui dazi e altri limiti alle importazioni sono, tutto sommato, ammissibili, come quello di industrie nascenti da proteggere fino a quando siano in grado di affrontare la concorrenza da sole; la necessità di sviluppare settori strategici per l’indipendenza del paese; le contromisure contro aiuti di stato e dumping salariale nei paesi esportatori.

Da qualche tempo c’è chi vorrebbe tornare a politiche protezionistiche strutturali anche al di fuori di questi casi, come rilevato da Luca Salvatici e Fabrizio De Filippis sul Menabò. La principale giustificazione del “nuovo” protezionismo è il passivo negli scambi bilaterali, che è un argomento particolarmente ingannevole e insidioso. Ovviamente, sul lungo periodo, ciascun paese deve mantenere i conti con l’estero in pareggio per non esaurire la propria ricchezza, ma questo obiettivo è perfettamente compatibile con avanzi verso alcuni paesi e disavanzi verso altri. Anzi, Smith incoraggiava proprio ad importare dai paesi più efficienti in certi settori, anche a costo di trovarsi in disavanzo nei loro confronti. E Ricardo rassicurava che questo eventuale sbilancio sarebbe stato compensato dall’avanzo sui prodotti nazionali relativamente più competitivi, esportati presumibilmente verso partner diversi da quelli da cui si importa di più. È quello che normalmente fa chi vende il proprio lavoro ad una impresa (rispetto alla quale risulta sempre in avanzo) e compra tutto in un supermercato (nei confronti del quale è strutturalmente in deficit). Se si dovessero bilanciare i saldi bilaterali, solo i dipendenti di un supermercato potrebbero fare acquisti nello stesso esercizio commerciale.

La pretesa di riportare in pari i singoli saldi bilaterali, se applicata da tutti i paesi, porterebbe all’autarchia e all’impoverimento generalizzato, come ricordato anche da Luciano Milone sul Menabò. Entrambi questi fattori hanno spesso trasformato le guerre commerciali in conflitti militari. Proprio per evitare simili rischi sono nate istituzioni come l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), che ha il compito di favorire e rendere cogenti accordi multilaterali tra i diversi paesi e risolvere le controversie su eventuali dazi e quote. L’alternativa a questi accordi potrebbero essere i vini scozzesi paventati da Smith oppure i latticini del Wyoming (famoso per le sue mandrie) che la nuova amministrazione USA forse vorrebbe imporci come condizione per acquistare i nostri prodotti alimentari.

Ma supponiamo che un singolo paese imponga unilateralmente dei dazi sulle proprie importazioni e, sempre per ipotesi, immaginiamo che gli altri paesi non reagiscano. Il primo effetto sarebbe un aumento dei prezzi dei prodotti gravati dai dazi o da limiti alle importazioni. Ammesso che le imprese nazionali riescano a sostituire le importazioni, è comunque probabile che non lo faranno a prezzi inferiori a quelli degli stessi prodotti provenienti dall’estero per almeno due motivi: la minore concorrenza prodotta dai dazi ed una allocazione meno efficiente delle risorse interne, come stigmatizzato da Ricardo. Il risultato sarà un aggravio complessivo per i consumatori finali che probabilmente corrisponde quasi esattamente all’ammontare dei dazi. Questo è ciò che è accaduto nel caso delle politiche protezionistiche attuate durante la prima amministrazione Trump, come hanno dimostrato Amiti et al.

Il costo per i consumatori può essere di poco inferiore se i prezzi più elevati scoraggiano il consumo dei prodotti colpiti dai dazi e se i paesi esportatori si accollano parte dei nuovi oneri per non perdere quote di mercato. Ma l’onere per le famiglie può essere anche superiore se i rincari si diffondono lungo tutta la filiera dei prezzi. Infatti, un aspetto che probabilmente era meno rilevante ai tempi di Smith e Ricardo, è che in una economia globalizzata quasi tutti i prodotti sono il risultato di una catena di importazioni, esportazioni e produzioni interne che finiscono per traslare sui costi dei prodotti finali ogni aggravio o limitazione sulle importazioni. Ad esempio Handley et al. hanno stimato che i dazi imposti dagli USA tra il 2018 e il 2019 hanno fatto aumentare i prezzi delle esportazioni americane tra il 2 e il 4 per cento. Come dire che, in realtà, gli USA hanno imposto implicitamente dei dazi sulle proprie esportazioni, mettendo in atto un perfetto esempio di politica tafazziana che ha colpito tutta l’economia.

Le famiglie statunitensi rischiano di vedere disattese le promesse elettorali sulla riduzione dei prezzi anche a causa dell’impatto dei tagli al welfare (Obamacare, Medicaid, ecc.). Se si riducono i sussidi per i cittadini e le convenzioni con assicurazioni malattia e fondi pensione è probabile che questi aumentino i premi di un ammontare almeno pari alle sovvenzioni rimosse. Infatti in un mercato liberalizzato non ci sarebbe alcun motivo perché le compagnie continuino a fornire le stesse prestazioni a prezzi agevolati, rinunciando ai profitti garantiti dal precedente regime. Gli avversari di provvedimenti come l’Affordable Care Act avevano paventato il rischio che i programmi assicurativi, essendo obbligatori, avrebbero fatto lievitare i prezzi delle prestazioni, invece di ridurli, invece il Congressional Budget Office ha documentato che i prezzi pagati da Medicare per ospedali, professionisti e farmaci sono significativamente inferiori a quelli pagati dalle assicurazioni libere. Ridimensionare il welfare potrebbe dunque far lievitare il costo dei servizi sanitari, che già ora negli USA sono i più alti del mondo. Per non essere danneggiati da questi tagli al welfare i cittadini dovrebbero beneficiare di sgravi fiscali equivalenti ai risparmi per il bilancio pubblico. In effetti il programma di Trump prevede dei crediti fiscali sulle spese per la salute che compensano in parte le agevolazioni esistenti. In realtà il vantaggio fiscale dovrebbe essere anche più elevato perché l’Obamacare ha imposto implicitamente un calmiere su tutti gli altri piani assicurativi, perché le compagnie che operano sul mercato libero si sono trovate a competere con premi agevolati, ed ha stabilito migliori standard per le prestazioni (come il divieto di liquidare gli assicurati a rischio con un rimborso una tantum). Nel complesso, le perdite per le famiglie dovrebbero tradursi in vantaggi per il settore assicurativo, come anticipato dall’impennata delle quotazioni di queste compagnie all’indomani della vittoria di Trump. Quello che è incerto è l’effetto complessivo sull’economia, perché la riduzione del potere d’acquisto delle famiglie potrebbe rallentare la crescita.

In sintesi, è molto probabile che i dazi e tagli al welfare preannunciati da Trump riducano la capacità di spesa complessiva delle famiglie più di quanto possano aumentarlo gli sgravi fiscali. Naturalmente i cittadini potrebbero preferire un taglio delle tasse ad un corrispondente aumento delle previdenze pubbliche, se non altro perché tagli e benefici vanno a soggetti diversi. Tuttavia gli sgravi fiscali dovranno essere significativi per stimolare davvero l’economia, e ciò potrebbe peggiorare il saldo dei conti pubblici statunitensi e frenare lo sviluppo, invece di rafforzarlo. E se i nuovi dazi scatenassero una guerra commerciale generalizzata la situazione potrebbe degenerare.

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