L’economia europea ai tempi della crisi Ucraina. Inflazione, politica monetaria e transizione ecologica

Sebastiano Nerozzi e Giorgio Ricchiuti discutono gli scenari che si aprono in seguito alla ripresa dell’inflazione negli Stati Uniti e in Europa, soffermandosi sulle politiche da adottare per fare fronte a questo fenomeno. Nerozzi e Ricchiuti analizzano in particolare le risposte di politica monetaria anche dal punto di vista delle ricadute sulla crisi energetica e sottolineano l’importanza di legare la risposta all’inflazione all’accelerazione della transizione ecologica, puntando sullo sviluppo delle comunità energetiche.

L’onda inflattiva è arrivata anche in Europa. Non si è trattato di un evento improvviso: è stato un crescendo di fattori che sommandosi e rafforzandosi a vicenda hanno generato l’impennata dei prezzi che adesso stiamo vivendo.

Quasi un anno fa, sul Menabò ci chiedevamo se l’inflazione fosse alle porte e quali potessero essere le conseguenze per la crescita di medio-lungo periodo se le banche centrali fossero intervenute per frenarla. Eravamo stati cauti, sperando in un processo inflattivo passeggero e non sostenuto.

La figura 1 mostra l’inflazione per US e EU negli ultimi 5 anni. Anche se la media per l’inizio del secolo è intorno al 2% per entrambe le aree, dopo la flessione registrata all’inizio della pandemia, l’inflazione è cresciuta mese dopo mese nel corso del 2021. Gli Stati Uniti sono in anticipo rispetto all’area Euro: presentavano un’inflazione intorno al 4% già un anno fa, mentre l’area Euro ha visto l’intensificarsi dell’inflazione con un ritardo di circa cinque-sei mesi. Gli ultimi dati del febbraio 2022, vedono l’area Euro al 5.8% mentre gli USA hanno raggiunto uno storico 7.9%. Se questo trend venisse mantenuto nei prossimi mesi, l’eurozona raggiungerebbe una media del 5% su base annua, molto superiore al target del 2%.

 

Figura 1: CPI per US e HCPI per EMUFonte: FRED, Federal Reserve Economic Data. Le medie sono calcolate per il periodo 2000-2022

 

A innescare l’inflazione è stato un eccesso di domanda: da una parte, la domanda dei consumatori si stava rapidamente riprendendo; dall’altra, l’offerta non riusciva a tenere il passo, a causa di blocchi, ritardi e disallineamenti creatisi nelle catene globali del valore. Le global supply chain, gloria e forza trainante di un trentennio di globalizzazione, si sono mostrate un meccanismo delicato e complesso, non facile da riattivare a pieno regime dopo un blocco prolungato. Questo fenomeno ha ricordato, soprattutto a noi economisti, che nella realtà gli aggiustamenti non sono istantanei e gli shock possono generare squilibri e disallineamenti tutt’altro che passeggeri.

Per quanto riguarda l’Italia, negli ultimi mesi del 2021 abbiamo assistito ad un consistente miglioramento della situazione sanitaria (grazie all’entrata a regime di vaste campagne di vaccinazione) e ad una accelerazione della domanda, anche grazie agli incentivi legati al PNRR. Ciò ha generato una sorta di ‘effetto rimbalzo’: nella speranza di recuperare un po’ delle perdite subite nel 2020, molti operatori e commercianti hanno salutato il ritorno delle aperture con un adeguamento dei prezzi; i consumatori, soprattutto quelli che non avevano sofferto tagli nei loro redditi, volevano lasciarsi alle spalle il risparmio ‘forzato’ imposto dal lock-down e hanno subìto i nuovi prezzi. Nel 2021, secondo ISTAT, la spesa media mensile per consumi è aumentata del 4,7% (+2,8% al netto dell’inflazione), con evidenti differenze tra le famiglie più abbienti (+6,2%) e quelle meno abbienti (+1,7%).

A fine anno a questi due fattori se ne è aggiunto un terzo: l’aumento consistente del prezzo di gas e petrolio. C’era una tendenza già in atto per tutto il 2021 (si veda l’andamento del Brent in Figura 2). Mentre la domanda globale di energia aumentava per la ripresa post-covid, l’accelerazione del programma di transizione ecologica ha spinto le imprese impegnate nel settore energetico a ridurre gli investimenti per la ricerca di nuovi giacimenti e per il mantenimento di quelli esistenti, frenando quindi l’offerta e facendo crescere i prezzi.

In risposta a questo triplice shock, la BCE e la FED avevano già iniziato a delineare una prudente exit strategy dalle politiche monetarie ultra-espansive messe in atto con la pandemia, con l’obiettivo di frenare le aspettative di inflazione senza interrompere la ripresa in atto. Nella riunione del 15 dicembre la FED aveva annunciato 3 successivi aumenti dei tassi nel corso del 2022. La BCE nella riunione del 16 dicembre aveva assunto una posizione più attendista sui tassi ma indicava già un piano di riduzione degli asset (programma APP) lungo tutto il 2022.

 

Figura 2: Crude Oil Prices: Brent – Europe

Fonte: FRED, Federal Reserve Economic Data

 

In questo quadro, già complesso, è giunta la guerra in Ucraina. Si è trattato di un evento a cui i mercati finanziari guardavano con una certa preoccupazione, che ha sorpreso nelle sue dimensioni e nella sua violenza. Essa cambia in modo radicale le prospettive economiche formulate fino a gennaio, amplificando l’aumento dei costi energetici iniziato nel 2021 (come si vede dalla Figura 2). Se una interruzione anche momentanea delle forniture di gas e di petrolio dovesse realizzarsi, avrebbe effetti devastanti sulle economie europee. Il gas russo rappresenta infatti il 45% dell’import europeo e il 40% dei consumi. La crisi Ucraina sta incidendo anche sul mercato del grano e del mais (il grano tenero è passato da 263 a 395$ dollari a tonnellata fra il 23 febbraio e il 9 marzo; il mais da 568 a 620) e su molte materie prime dall’alluminio, al nichel, fino a elementi fondamentali per l’industria dei microchip come il palladio e il neon, di cui Russia e Ucraina sono tra i principali produttori mondiali.

Possiamo aspettarci che, se la crisi durerà a lungo, l’aumento del costo dell’energia e delle materie prime darà un’ulteriore spinta all’aumento dei prezzi che si è visto nel 2021.

Quali sono le conseguenze per la politica monetaria?

È evidente che la Banca Centrale Europea sia combattuta fra mantenere stabili e bassi i tassi di interesse, per rispondere alla turbolenza dei mercati dovuta al conflitto e per sostenere i debiti pubblici (come quello italiano), o aumentarli (così come si pensava fino a qualche settimana fa) per contrastare la crescente inflazione. Giovedì 10 marzo, il consiglio della BCE ha comunicato che farà tutto il possibile per mantenere la stabilità e dei prezzi e del settore finanziario. La BCE ha però rivisto il programma di acquisti di asset: nel terzo trimestre si azzereranno gli acquisti netti; i tassi, invece restano invariati in attesa di capire sia l’andamento dell’inflazione che gli sviluppi della crisi. In ogni caso, pur riducendo gli acquisti netti, la BCE continuerà a reinvestire i titoli che arrivano a maturazione, anche dopo l’eventuale aumento dei tassi di interesse, confermando che quantità di moneta e tassi sono due variabili indipendenti l’una dall’altra (come mostra un recente volume di Angelo Baglioni).

Qualora nel corso dei prossimi mesi la dinamica dei prezzi accelerasse, la BCE dovrebbe passare dalle parole ai fatti e procedere all’aumento dei tassi di interesse, per raffreddare le aspettative inflazionistiche e frenare sul nascere una eventuale spirale salari-prezzi. Tutto ciò dipende, naturalmente, dall’evolversi degli eventi sul fronte energetico adesso condizionato dalla crisi Ucraina.

D’altra parte, la guerra ci ha ricordato, che la geopolitica entra a pieno titolo nell’analisi del processo inflattivo, mettendo a rischio uno dei pilastri su cui poggia il ‘triangolo energetico’ rappresentato da accessibilità, sostenibilità ambientale e sicurezza delle risorse.

Fra le tante conseguenze negative, la crisi Ucraina ha reso anche più incerto il cammino verso la transizione energetica: hanno sorpreso in questi ultimi giorni le proposte del governo per un ritorno in attività di tutte le centrali a carbone (la cui chiusura era prevista entro il 2025).

L’incertezza di questi giorni rivela come l’Italia e altri paesi europei si siano presentati largamente impreparati ad una crisi di questo genere. Le scelte fatte in passato ci hanno reso dipendenti dal gas russo: usare i gasdotti piuttosto che i rigassificatori (come ha fatto la Spagna) ci vincola a determinati produttori e ci espone a notevoli rischi geopolitici. L’opzione nucleare avrebbe tempi lunghi e non appare politicamente percorribile. L’unica, seria, alternativa ad una persistente dipendenza energetica da fonti poco sicure è quella di accelerare il passo della transizione, non di rallentarla.

L’abbandono di gas e petrolio non può avvenire dal giorno alla notte, ma ci pone difronte a scelte importanti che toccano anche la competitività delle imprese e il potere d’acquisto dei cittadini. È chiaro che sostituire il gas russo avrà un costo tanto maggiore quanto più bassa è l’elasticità di sostituzione fra le fonti di produzione dell’energia. La sostituzione sarà difficile da attuarsi nel brevissimo tempo ma pensiamo che questa sia l’occasione per iniziare subito, accelerando i processi in corso.

Un’opzione interessante che crediamo immediatamente percorribile è data dalle “comunità energetiche”. Secondo la definizione dell’Enea, le comunità energetiche sono caratterizzate da un insieme di utenti che volontariamente si mettono insieme per produrre, gestire e consumare energia. Esse comportano, dunque, un decentramento della produzione ed un potenziamento delle fonti rinnovabili (solare ed eolico) Con l’obiettivo di raggiungere piena sicurezza energetica, ma anche di fornire energia a prezzi accessibili.

La scelta di investire nelle “Comunità energetiche” è incentivata da un fondo di 2,2 miliardi incluso nel PNRR. Il decreto pubblicato a novembre (d.lgs 8 novembre 2021, 199), che recepisce pienamente la direttiva europea 2018/2001, ha ulteriormente incoraggiato la costituzione di Comunità energetiche, aumentando la quantità massima di energia prodotta (da 0,2 a 1 Megawatt) e ampliando la platea di cittadini inclusi in una singola comunità. In questo modo gli investimenti effettuabili possono raggiungere una scala più adeguata giungendo a comprendere aree significative di uno stesso comune, o, in alcuni casi, collegando piccoli comuni limitrofi.

Le comunità energetiche possono avere effetti ampi e positivi sia in termini di crescita economica, grazie agli investimenti che possono attivare, sia di equità sociale, grazie alla difesa del potere d’acquisto delle famiglie. Da una parte, esse rompono la struttura tipicamente oligopolistica della produzione energetica, rendendo l’energia maggiormente accessibile e, dall’altra, riducono la nostra dipendenza dall’esterno e i rischi geopolitici e ambientali ad esso connessi, aiutando a tenere in equilibrio quello che abbiamo chiamato il ‘triangolo energetico’. Infine, costruendo e rafforzando legami di vicinanza rafforzano la coesione dei territori.

Il ritorno dell’inflazione e la crisi energetica, portando la lancetta del tempo all’indietro, ci pone difronte a nuove sfide. Crediamo che la risposta ad entrambe le problematiche non debba esser lasciata alla sola politica monetaria ma debba essere sistemica. Le “comunità energetiche” possono essere un modo molto concreto per combattere e prevenire l’inflazione, accelerare la transizione ecologica e spingere un cambiamento strutturale e culturale per l’intero paese.

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