ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 181/2022

27 Ottobre 2022

L’economia italiana e le rigidità che non ci sono (e non c’erano?)

Sergio De Nardis sostiene, sulla base dei risultati di un recente studio, che in Italia, la supposta rigidità del lavoro non ha ostacolato l’aggiustamento strutturale, neanche prima del Jobs act. L’evidenza di un intenso rimescolamento dei posti, comparabile a quello delle economie più flessibili, è complementare a quella di efficienza allocativa e (moderato) cleansing effect nel periodo successivo alla crisi finanziaria.. L’autore suggerisce che la lunga stagnazione della domanda aggregata può aver ostacolato il miglioramento dell’efficienza allocativa.

La crescente disponibilità di nuove basi-dati consente di sottoporre a verifica alcune interpretazioni che hanno a lungo accompagnato il modo di rappresentare l’economia italiana. Una di queste è l’immagine, rinvenibile soprattutto (ma non solo) nelle analisi degli organismi internazionali, di un sistema ancora sclerotico che ha in perduranti rigidità del mercato del lavoro importanti fattori di freno al ricambio produttivo e alle possibilità di innalzamento dell’efficienza del sistema economico. L’inadeguata fluidità del lavoro sarebbe, in questa visione, l’anello di congiunzione tra la prolungata esperienza di bassa crescita della produttività e i variegati fenomeni di inerzia strutturale osservati nel nostro sistema: dall’apparente staticità del modello di specializzazione, alla diffusa presenza di micro-imprese (sotto i 10 addetti) meno produttive (e specularmente la scarsità delle grandi, dai 250 addetti in su, più produttive), fino all’ampia area del sommerso. In questo scritto non si intendono affrontare i nessi tra produttività e asserite staticità italiane, quanto discutere, alla luce delle evidenze prodotte dalla ricerca, il ruolo svolto dal mercato del lavoro nel favorire quelle inerzie e nel congelare le spinte al cambiamento e dinamismo produttivo.

Un apparato refrattario al rinnovamento delle imprese, tra e dentro i settori, dovrebbe caratterizzarsi per bassa intensità di riallocazione di lavoratori e posti di lavoro, soprattutto in confronto con i sistemi più flessibili. Ebbene, questa condizione semplicemente non è riscontrabile nel caso italiano, come mostrato nel passato dai contributi raccolti in Contini e Trivellato (Eppur si muove; dinamiche e persistenze nel mercato del lavoro italiano, Il Mulino, Bologna, 2005) ed è ora confermato nel recente studio congiunto Inps-Banca d’Italia (“Creazione, distruzione e riallocazione del lavoro nelle imprese italiane: un’analisi basata su dati amministrativi Inps 1984-2021”, Inps-Studi e analisi n. 5, 2022 e l’articolo di Citino et al. pubblicato sul Menabò) che, utilizzando le informazioni di fonte amministrativa Inps, ricostruisce gli indicatori di flusso dei posti di lavoro nelle imprese del sistema privato non agricolo lungo quasi un quarantennio. L’osservazione di un mercato del lavoro ingessato non sembra rilevabile, in questa evidenza, non solo con riferimento agli ultimi anni, quando si sono in effetti realizzate riforme volte ad aumentare la cosiddetta flessibilità in uscita (Jobs act), ma neanche per il lontano passato (anni 80-90 dello scorso secolo), quando venivano generalmente giudicate insufficienti, ai fini del ricambio produttivo, le politiche dirette a incrementare la sola flessibilità in entrata (leggi Treu e Biagi). Anzi, dal punto di vista della mobilità osservata non sembra evincersi dalle evidenze Inps-Banca d’Italia che la riforma del 2016 si sia accompagnata a un salto apprezzabile rispetto al grado di dinamismo che contrassegnava la situazione precedente. È chiaro che per giungere a indicazioni robuste sul legame tra intensità della riallocazione e tipologie di flessibilità occorre controllare in modo appropriato le varie potenziali influenze (in primo luogo, le condizioni cicliche). Nondimeno, non si può non sottolineare come la lunga serie storica dello studio Inps-Banca d’Italia si contraddistingua per l’assenza di sostanziali modifiche di andamento a cavallo del 2016.

Gli indicatori di flusso dei jobs mostrano dunque senza forti discontinuità – al di là degli effetti del ciclo e a eccezione dell’ultimo anomalo biennio su cui incide la pandemia – i seguenti principali aspetti: 

  • tassi di creazione e distruzione dei posti di lavoro nelle imprese italiane non distanti da quelli dei paesi avanzati, incluse le economie più flessibili come Stati Uniti e Regno Unito.
  • un apporto prevalente delle imprese incumbent alla creazione/distruzione rispetto alle dinamiche demografiche (nati/morti) che sono comunque rilevanti in rapporto al peso delle imprese coinvolte  
  • una riallocazione lorda (data dalla somma dei flussi di creazione e di distruzione di posti) largamente eccedente quella che sarebbe necessaria per accomodare la variazione (netta) delle posizioni lavorative, a indicare un rimescolamento di posizioni che avviene indipendentemente dalle esigenze di variazione dell’input di lavoro   
  • una riallocazione che ha (con l’eccezione del biennio della pandemia) natura intra-settoriale, implicando che la mobilità di posizioni riguarda principalmente imprese dello stesso settore (Ateco a 2 cifre).

Riassumendo dunque in modo schematico, la riallocazione in eccesso, sintomatica di un dinamismo del sistema economico, non è inibita da rigidità del lavoro: l’aggiustamento strutturale in Italia non incontra particolari ostacoli in tale mercato. I movimenti dei posti avvengono prevalentemente tra le imprese all’interno dei settori, non generando modifiche di composizione delle attività economiche. Un fenomeno coerente, per quanto riguarda la parte del sistema esposto alla concorrenza internazionale, con la staticità del pattern di specializzazione che in realtà sottende intensi cambiamenti.   

Messa in questi termini, l’evidenza è chiaramente “scomoda” per la tesi di sclerosi, mal conciliandosi con una univoca visione di rigidità. Tuttavia, la coesistenza di questi risultati con le storiche aporie dell’economia italiana (debole produttività da un lato, massa di microimprese dall’altro) può far sorgere il dubbio che la ricomposizione di posizioni lavorative messa in luce dalle evidenze passate e presenti risenta in realtà di fenomeni spuri che poco hanno a che fare con vero rinnovamento produttivo (con riferimento, in particolare, alla componente demografica) e che più in generale l’effervescenza della riallocazione rifletta prevalentemente rimescolamenti nella coda bassa della distribuzione delle imprese, con scarsi effetti sulla produttività del sistema. Un flusso di posti che sarebbe dunque in parte fittizio e comunque ininfluente (se non controproducente) per il miglioramento dell’efficienza. 

E’ un interrogativo legittimo. Per cercare di scioglierlo è utile leggere l’evidenza sul turnover di lavoro insieme ai risultati di altre ricerche condotte in Banca d’Italia che – sulla base di dati Istat-Banca d’Italia di tipo statistico-amministrativo che coprono l’universo delle imprese – pongono in luce, almeno a partire dalla crisi finanziaria (nel periodo 2007-2016), il verificarsi di una riallocazione non spuria né tanto meno cattiva. M. Bugamelli, A. Linarello e F.Lotti (“Productivity dynamics over the last decade. Evidence from the universe of Italian firms”, Economia Italiana, 2020) e anche A. Linarello e A. Petrella (“Productivity and reallocation: evidence from the universe of Italian firms”, International Productivity Monitor, 2017) mostrano che in tale arco di tempo lo spostamento relativo di occupati dalle imprese incumbent meno produttive a quelle più efficienti ha fornito uno stimolo determinante alla produttività (vi è stata dunque efficienza allocativa). Un analogo, più contenuto, contributo positivo è provenuto della demografia, con imprese uscenti meno produttive di quelle entranti (dando luogo a un moderato cleansing effect). A queste spinte a sostegno dell’efficienza si è contrapposto l’andamento persistentemente negativo della produttività media di impresa, su cui hanno influito il ciclo (due recessioni) e il peso delle micro-imprese caratterizzate da flessioni anche nella fase di (debole) ripresa. Nell’insieme dell’economia, i contributi positivi di efficienza allocativa e cleansing effect hanno superato quello negativo della produttività di impresa solo dopo il 2013, con l’uscita dalla “seconda” recessione. Nella manifattura, invece, ciò si è verificato già nel corso della crisi 2010-2013, determinando, da allora, l’aumento della produttività del settore. 

Persiste, dunque, un’incidenza delle imprese di piccole dimensioni che, però, non risultano schermate rispetto ai cambiamenti che attraversano l’economia. La riallocazione, nella direzione delle unità più efficienti, avviene non solo col passaggio tra classi dimensionali, ma anche all’interno di esse. Il processo è lento, ma visibile. Evolve per gradini, con ridimensionamenti netti delle “micro” meno efficienti nelle fasi recessive. Con riferimento alla manifattura, la sfavorevole distribuzione per classi dimensionali dei vantaggi comparati di produttività delle imprese italiane rispetto alle europee che si rilevava nel 2008 (la numerosità relativa delle nostre imprese in ciascuna classe diminuiva al crescere del vantaggio comparato) ha teso ad annullarsi nel 2019 (v. figura 1). Anche questo tipo di cambiamento è alla base dell’allineamento della dinamica della produttività industriale a quella di Germania e Francia sperimentato nell’ultimo decennio. 

Fonte: elaborazioni su dati Eurostat. Ciascun punto corrisponde, per ogni classe dimensionale, alla combinazione dei vantaggi comparati di produttività italiani nei confronti di un partner europeo (produttività nella classe dimensionale i/produttività manifatturiera in rapporto allo stesso quoziente calcolato per un partner europeo) e della numerosità relativa delle imprese italiane (numero imprese nella classe dimensionale i/ numero imprese manifatturiere in rapporto allo stesso quoziente calcolato per un partner europeo). I paesi europei considerati sono: Austria, Belgio, Germania, Grecia, Finlandia, Francia, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Svezia. Le classi dimensionali in termini di addetti sono 0-9, 10-19, 20-49, 50-249, 250 e oltre.

In definitiva, i dati Inps sui flussi di posti raccontano una storia allineata e complementare a quella evidenziata dai dati Istat-Banca d’Italia circa la riallocazione degli occupati verso impieghi più produttivi. Ciò non significa che si sia verificato tutto l’aggiustamento strutturale di cui l’Italia ha bisogno, come mostra la debole dinamica della produttività nei settori non manifatturieri e il perdurante freno esercitato dalle micro-imprese. Ma segnala un punto di policyrilevante, travisato, come detto all’inizio, in molte analisi: il grado di mobilità del lavoro (Inps) non è stato, in Italia, di ostacolo all’espletarsi dell’efficienza allocativa (Istat-Banca d’Italia). 

Sull’adeguatezza, poi, dell’aggiustamento strutturale si possono avere diverse opinioni. Un fattore limitante scarsamente esplorato, ma che ritengo significativo, è la lunga (secolare) stagnazione della domanda aggregata registrata in Italia. La prolungata depressione della domanda ha infatti probabilmente inciso non solo sull’efficienza delle imprese migliori, scoraggiando gli investimenti in tecnologia che sono altamente pro-ciclici, ma ha frenato anche il contributo dell’efficienza allocativa alla dinamica della produttività. Nel citato lavoro di Bugamelli, Linarello e Lotti si rileva che nella fase di fiacca ripresa avviata nel 2013 il miglioramento di produttività indotto dalla riallocazione ha riflesso l’accentuazione della riduzione dimensionale delle imprese meno efficienti (sotto il 60mo percentile). Le imprese più efficienti si sono espanse, ma il loro aumento è stato contenuto in confronto alla contrazione di quelle meno efficienti con conseguenti limitati effetti netti sull’occupazione complessiva. Ciò non è stato solo un fatto sfavorevole dal punto di vista sociale, lo è stato anche per la portata dell’effetto allocazione. A mio avviso, il limite che ha operato sull’espansione delle imprese efficienti è stato il modesto allargamento del mercato, in particolare nei settori non esportatori che non possono cercare altrove la domanda che manca all’interno. In altre parole, la taglia dell’economia conta per la produttività: affinché l’efficienza allocativa si esplichi in pieno attraverso il suo lato espansivo occorre che l’apparato produttivo si sviluppi secondo le proprie potenzialità. Una condizione che, a causa del persistente deficit di domanda aggregata, l’economia italiana non ha potuto mai sperimentare nel corso dell’ultimo quindicennio.

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