C’è un elemento di interesse nella discussione teorica sull’analisi comparata del capitalismo negli ultimi anni, ed è la ripresa di centralità degli approcci teorici che mettono al centro lo studio del potere e delle risorse di potere degli attori sociali per spiegare le caratteristiche e gli effetti del capitalismo contemporaneo e dei suoi diversi modelli di organizzazione nazionale. Ultimo esempio in tal senso è la recente pubblicazione del volume Workers, Power and Society, edito da Routledge e curato da Jens Arnholtz e Bjarke Refslund. Il volume offre un’approfondita analisi della cosiddetta Power Resource Theory, ossia di quell’approccio teorico, sviluppato da Walter Korpi alla fine degli anni Settanta (in particolare nel classico The Democratic Class Struggle), che vedeva nel diverso bilanciamento di forza (le risorse di potere) fra capitale e lavoro e nel diverso grado di organizzazione collettiva dei lavoratori che influenza tale bilanciamento la chiave dello sviluppo sociale, nonché la spiegazione primaria della diversità istituzionale che caratterizza le economie capitaliste e gli effetti distributivi di tale diversità. Che le forme istituzionali assunte dalle società capitalistiche e i loro effetti in termini di diversa distribuzione delle risorse siano legati agli esiti del conflitto fra capitale e lavoro potrebbe sembrare un’ovvietà per chi si occupa di analisi socio-economiche, ma se guardiamo ai filoni teorici dominanti nello studio del capitalismo contemporaneo vediamo in realtà come questa postura non sia affatto scontata.
Un caso in tal senso è la Comparative Political Economy – ossia quel filone di studi socio-politologici che nasce proprio per incorporare fattori socio-politici nello studio dell’economia e, in particolare, per studiare il ruolo delle interazioni fra lavoro, capitale e stato nel plasmare i diversi assetti del capitalismo contemporaneo. L’approccio dominante nella disciplina nell’ultimo quarto di secolo, quello della Varietà dei Capitalismi (VoC), proposto nella sua formulazione originale nel volume curato da Peter Hall and David Soskice, è infatti completamente sganciato da una discussione sul potere. Adottando un approccio impresa-centrico e marcatamente supply-side, VoC identifica la micro-fondazione dei diversi modelli di capitalismo e dei loro effetti distributivi negli interessi delle imprese e nei vantaggi competitivi che i diversi assetti istituzionali offrono loro. Le istituzioni, che secondo gli approcci teorici basati sul potere derivano da (temporanee) soluzioni a conflitti di interesse fra attori sociali, per VoC servono a risolvere problemi di efficienza o di coordinamento: sarebbe, infatti, l’interesse delle imprese per le funzioni economiche delle istituzioni di regolazione del mercato (ad esempio il ruolo della contrattazione collettiva nel proteggere gli investimenti in capitale umano delle imprese) a spiegare perché in alcuni contesti (e in particolare nelle cosiddette economie coordinate di mercato) si osservano tali istituzioni e la loro persistenza nel tempo.
Anche per quanto riguarda la spiegazione di fenomeni specifici, quali la dualizzazione dei mercati del lavoro e la crescita di diseguaglianza intra-classe (fra lavoratori core e lavoratori periferici, ad esempio, ossia fra insider e outsider), l’approccio teorico dominante nella Comparative Political Economy per molti anni è stato quello della teoria insider/outsider, che si basa sulla posizione relativa di diversi gruppi di lavoratori (cioè sulle differenze intra-classe) e non sulla distribuzione di potere fra capitale e lavoro (differenza inter-classe) ed ha spesso avuto come corollario l’idea che, per superare i dualismi nel mercato del lavoro, fosse necessario ridurre le protezioni del lavoro maggiormente tutelato (e delle sue organizzazioni di rappresentanza), anziché agire sui vincoli al comportamento delle imprese.
Ma perché una riflessione astratta sulle posture teoriche delle discipline che si occupano dell’analisi dei sistemi economici dovrebbe essere di interesse per i lettori del Menabò più interessati alle questioni di policy? Perché le posture teoriche, ossia le lenti attraverso cui guardiamo il mondo, hanno importanti ricadute sugli strumenti che utilizziamo per trasformarlo, ossia sulle politiche. La ripresa di centralità delle analisi che focalizzano il tema del potere è da salutare con favore perché consente di mettere a fuoco un elemento spesso poco discusso quando parliamo di opzioni di policy, ossia che politiche efficaci devono, appunto, tenere in considerazione il tema del potere. Faccio tre esempi legati a questioni centrali nella discussione corrente sul mercato del lavoro, in Italia, ma non solo: le diseguaglianze, i salari e la transizione verde. Spesso, quando si discutono opzioni di policy relative a queste questioni ci si focalizza sullo strumento tecnico che più direttamente può essere utilizzato per affrontarle: politiche fiscali e trasferimenti quando si parla di contrasto alle diseguaglianze, norme sulla fissazione dei salari quando si parla di livelli salariali e povertà lavorativa, incentivi all’introduzione di processi di decarbonizzazione nel caso della transizione verde. Ci si dimentica, però, spesso che queste questioni e i loro effetti distributivi sono in primis questioni di potere, ignorando elementi importanti per garantire l’efficacia di queste stesse politiche.
La discussione pubblica sul contrasto alle diseguaglianze, ad esempio, tende a focalizzarsi sulle dinamiche redistributive, mentre raramente mette al centro considerazioni relative alle dinamiche predistributive e, in particolare, quelle che riguardano la distribuzione del potere fra attori sociali e i fattori che le influenzano. Ci si trova, quindi, a parlare di tasse e trasferimenti, mentre più raramente (si vedano ad esempio i lavori di Hacker, Piketty e del gruppo Agire) vengono considerate politiche di rafforzamento del potere negoziale dei lavoratori nel mercato del lavoro, quali sostegni diretti e indiretti alla sindacalizzazione e alla contrattazione. Allo stesso modo, nella discussione su livelli salariali e povertà lavorativa, la policy di riferimento riguarda la definizione di soglie minime salariali, e più raramente si prendono in considerazione i fattori che influenzano, direttamente o indirettamente, il potere dei lavoratori di negoziare salari adeguati (e di garantirne il rispetto!).
Raramente, quindi, quando si parla di politiche di contrasto al lavoro a basso salario si parla di sostegni alla sindacalizzazione o al buon funzionamento della contrattazione collettiva (fra cui, ad esempio, norme che garantiscano il rinnovo tempestivo dei contratti collettivi di lavoro), di politiche che rafforzino il potere strutturale nei lavoratori nel mercato del lavoro, fra cui la limitazione dei contratti di lavoro precario e la (re)introduzione di vincoli al loro utilizzo da parte delle imprese, o di misure di welfare che, garantendo un reddito dignitoso in caso di disoccupazione, consentono di rinunciare a lavori pagati troppo poco. E anche quando si discute di come garantire l’effettivo rispetto della regolazione del lavoro, la cui violazione (pagamento di salari inferiori ai minimi contrattuali, ad esempio) è uno dei fattori spesso evocati per spiegare i bassi livelli salariali nel nostro paese, si fa generalmente riferimento al rafforzamento degli strumenti ispettivi (aumento del numero di ispettori del lavoro o introduzione di meccanismi di vigilanza documentale), ma molto raramente a strumenti di ribilanciamento dei rapporti di forza fra imprese e lavoratori, nonostante la letteratura sull’enforcement ci dica che sono proprio i lavoratori, se posti nelle giuste condizioni, a garantire più efficacemente il rispetto delle norme.
Ancora, quando si parla di strumenti che favoriscono una transizione giusta si pensa generalmente a meccanismi di compensazione per i “perdenti” della transizione, e quindi a sostegni al reddito o a politiche di re-skilling. Raramente (per un’eccezione rilevante si vedano i lavori di Lorenzo Sacconi) si pone l’accento sul fatto che la transizione verso produzioni e modelli di organizzazione produttiva climate-friendly siano anche una questione di potere e che, quindi, per garantire la transizione giusta dovremmo anche rafforzare la capacità di voice dei lavoratori e delle loro organizzazioni di rappresentanza, discutendo di politiche che democratizzino i processi decisionali a livello di impresa e mettano in discussione sistemi di governance ispirati esclusivamente allo shareholder value e alla massimizzazione del valore per gli azionisti (che tanta parte hanno avuto, più che la spinta alla transizione ecologica, nel determinare processi di ristrutturazione che sono andati a detrimento dei lavoratori).
La ripresa di analisi che riflettono sulla dimensione del potere e della sua distribuzione come elemento centrale per comprendere il funzionamento delle nostre società è, quindi, non solo teoricamente importante. Ma ci consente anche di focalizzare le politiche più adeguate per dare risposta alle sfide principali del nostro tempo.