L’efficienza della spesa pubblica: un obiettivo monco se sganciato dai valori

Elena Granaglia, mette in discussione, anche ricorrendo a diversi esempi, la diffusa idea secondo cui l’efficienza della spesa pubblica richiede di minimizzarne i costi. Granaglia riconosce che l’efficienza non è compatibile con gli sprechi, ma sostiene che per stabilire cosa sia spreco occorre guardare non solo ai costi ma anche ai fini che si perseguono con la produzione: i mezzi servono ai fini. Pertanto, l’efficienza della spesa pubblica è una questione valoriale, connessa alla visione di intervento pubblico che si vuole realizzare.

L’efficienza della spesa pubblica è uno dei pochi obiettivi sui quali il consenso appare generalizzato. D’altro canto, perché mai si dovrebbe essere contro l’efficienza? A prescindere dalle diverse specificazioni, efficienza implica fondamentalmente minimizzazione dei costi nella produzione di beni desiderati. Essere contro l’efficienza significherebbe essere a favore di sprechi, di un uso eccessivo di risorse rispetto a quanto necessario per realizzare ciò che vogliamo. Appare una posizione difficilmente sostenibile.

Il criterio dell’efficienza è, tuttavia, ben più problematico di quanto possa a prima vista apparire. Già in ambito di mercato, la sua applicazione può generare diversi problemi sotto il profilo valoriale. Considerando data la distribuzione esistente delle risorse, il criterio dell’efficienza potrebbe essere perfettamente compatibile con stipendi da fame e modalità di lavoro usuranti e lesive della dignità individuale. Si ricordi, ad esempio, la difesa, da parte di Larry Summers, dell’esportazione di inquinamento dai paesi più sviluppati a quelli meno sviluppati che tante polemiche originò nella comunità internazionale all’inizio degli anni 90. La ragione addotta era che per paesi poveri i benefici derivanti dall’entrata di nuove imprese, ancorché inquinanti, sarebbero stati superiori ai costi. Ebbene, questa è esattamente una giustificazione in termini di efficienza. Se esiste un corso di azione i cui benefici superano i costi, non attuarlo implica inevitabilmente uno spreco di benessere.

Inoltre, anche a prescindere dalla questione distributiva, ciò che nel mercato si desidera potrebbe essere in contrasto con valori importanti sotto il profilo della giustizia: ad esempio, preferenze discriminatorie o preferenze disinteressate a quanto si lascia alle generazioni future. Ancora, il mercato permette di soddisfare unicamente i desideri per beni che sono e/o possono essere immessi sul mercato e il cui valore sia traducibile in prezzi.

In ambito pubblico, si pongono molti degli stessi problemi. Basti pensare alle gare al ribasso per i servizi sociali, il cui risvolto, in molti casi, sono paghe da fame per i dipendenti delle cooperative sociali. Si pongono, tuttavia, alcuni problemi addizionali, connessi all’individuazione di ciò che si desidera, dei risultati che si vogliono perseguire. Nel mercato, nonostante le possibili carenze appena richiamate, cosa perseguire è automatico: è definito dalle preferenze dei consumatori. Nel pubblico, invece, la connessione non è automatica. Occorre una definizione di cosa la collettività desideri. La delegittimazione dell’operato pubblico che in questi anni è andata diffondendosi ha, tuttavia, comportato esiti rovinosi su questo piano.

Da un lato, la riflessione sui risultati è spesso sparita dall’orizzonte della discussione sull’efficienza. Efficienza è diventata sinonimo di tagli e minimizzazione dei costi. Ma, questa, non è efficienza. È una volgarizzazione, uno stravolgimento della nozione. Che senso ha minimizzare i costi nella produzione di qualcosa che non si desidera? Non si avranno sprechi nella produzione, ma gli sprechi nell’uso delle risorse sono evidenti. Al contempo, che senso ha tagliare e minimizzare i costi, quando la conseguenza sia la non produzione di cose desiderate? La nozione di efficienza richiede una relazione fra mezzi (delle risorse) e fini che si vogliono raggiungere.

Una barzelletta, per quanto leggera come tutte le barzellette, può tornare utile. Essa racconta di un giovane manager, fresco di laurea in una importante Business School, zelante nello svolgimento del suo primo incarico: minimizzare i costi nel settore di spesa pubblica più esposto al morbo di Baumol (ossia a costi crescenti nonostante la stagnazione della produttività), quello dell’arte. Il giovane manager passa in rassegna diverse opere e arriva all’Incompiuta di Schubert. Rimane immediatamente colpito dalle duplicazioni presenti per tutti gli strumenti a fiato. La prima raccomandazione è, banalmente, quella di dimezzare tali strumenti. Poi passa a osservare gli archi: sono addirittura cinque, e, dunque, lo spazio per i tagli è ancora maggiore. Successivamente, ritorna ai fiati. Dopo la riduzione, non abbiamo più vere e proprie duplicazioni: sempre di strumenti simili, tuttavia, si tratta. Il che giustifica tagli ulteriori. Infine, arriva l’idea risolutiva: fare incidere all’orchestra un CD e poi fare a meno dell’orchestra stessa.

Prescindendo dalla barzelletta, si consideri la sanità. In sanità, è costoso informare i pazienti e prendersi carico degli aspetti di cura non strettamente tecnici. Se, però, apprezziamo questo tipo di interventi, gli esborsi necessari a realizzarli non sono sprechi. Sono esattamente il costo da pagare per i benefici che si vogliono acquisire e che l’enfasi sulla mera minimizzazione dei costi potrebbe mettere in pericolo.

I decreti appena varati sulla riforma della PA pongono una minore enfasi sui tagli. Ciò nondimeno, anche in questo caso, resta oscura la connessione fra i cambiamenti delineati e la visione di ciò che la PA dovrebbe erogare ai cittadini.

L’enfasi sulla minimizzazione dei costi a prescindere dai risultati potrebbe, peraltro, essere una causa perversa di sprechi. Se il SSN ignora le domande di cura, a prescindere dall’aspetto tecnico delle prestazioni, allora aumenta il potere attrattivo di quei medici che, come ha fatto l’anziano professor Di Bella, rispondono a quelle domande. Se aumenta tale potere, aumenta, tuttavia, anche il potere delle richieste di inclusione nel SSN (e dunque con spesa a carico della collettività) di trattamenti privi di adeguate prove di efficacia. Ancora, se tutta l’enfasi è sulla minimizzazione dei costi rischia di aumentare in misura ingiustificata la spesa per i servizi amministrativi a danno della componente sanitaria.

In alternativa, se ci si occupa dei risultati, la tendenza è spesso all’acritica assunzione del gioco di mercato quale metro di riferimento. Si consideri la recente proposta di legge bipartisan a sostegno dei servizi alla persona deposita alla Camera l’11 luglio scorso. Si tratta essenzialmente di un’agevolazione fiscale della spesa privata per tali servizi. Che l’utente si rivolga alle cure private oppure ai servizi pubblici, il modello è sempre quello di un utente che sceglie, come sul mercato, l’assistenza che desidera. I beni desiderati sono divisibili e nulla vieta che la scelta avvenga sulla base dei meri gusti personali, come le scelte al supermercato.

Ma questo è tutto ciò che chiediamo alle politiche per la cura? A prescindere dai rischi di iniquità delle agevolazioni fiscali, non servono reti di servizi, possibilità di co-produzione della cura da parte degli utenti e della collettività in quadro di responsabilità sociali condivise, disegni urbani e abitativi coerenti, anche alla luce delle esigenze di contrasto dell’isolamento sociale? Non serve una complessiva qualificazione del lavoro di cura, grazie alla identificazione di processi di carriera in questo settore, istituzione di spazi in cui i lavoratori possono scambiarsi pratiche e risolvere insieme problemi?

Se sì, alcuni costi potrebbero, certamente, aumentare. I bassi costi, fra l’altro, sono una ragione addotta a favore dei voucher e della più complessiva adozione del modello del mercato in ambito pubblico. Ma, a prescindere dal fatto che tale modello potrebbe rivelarsi assai più costoso (basti pensare ai costi dell’apparato regolativo e di controllo, in settori dove le asimmetrie informative sono molto diffuse), i costi addizionali altro non sarebbero se non il corrispettivo dei benefici che vogliamo ottenere, se riteniamo il sostegno alla cura qualcosa di diverso dal sostegno di un assistente domestico che eroga “servizi alla persona”.

Peraltro, anche a questo riguardo, non si ignorino, i benefici in termini di maggiore produttività della spesa derivanti dall’uso di modelli il più possibile partecipati/cooperativi di erogazione della cura. Il nostro stato sociale è in difficoltà non solo per la difficile situazione delle finanze pubbliche. È in difficoltà, in molte istanze, perché minato da comportamenti da free rider, dalla ricerca cioè di benefici personali anche a danno dei nostri concittadini, in breve da carenza di civismo [1. Sul tema, cfr. Algan, Y., Cahuc P.e Sangnier M. (2014), “Trust and the Welfare State: The Twin Peaks Curve”, IZA DP 8277.]. Ora, modelli partecipati/cooperativi di erogazione contribuirebbero esattamente a un rafforzamento del civismo.

Concludendo, la questione di un migliore uso delle risorse pubbliche è oggi cruciale nel nostro paese. In molte istanze, bastano certamente interventi semplici: le differenze che si registrano nei prezzi pagati per l’acquisto di molti beni intermedi sono, evidentemente, inaccettabili. Ma l’efficienza non riguarda solo cosa acquistare. Richiede che gli acquisti servano a realizzare ciò che la collettività desidera. In questo senso l’efficienza, è strettamente connessa a cosa vogliamo che faccia il settore pubblico.

Se così la questione dell’efficienza diventa intimamente legata a quella dei valori. Può sembrare banale. Si consideri però solo un’affermazione recente del premier Renzi secondo cui la Spending Rewiew presenta le proprie indicazioni e poi la politica sceglie. Ebbene, anche questa indicazione, ben più ragionata che non la mera difesa di tagli, appare problematica alla luce delle osservazioni fatte. Se non si esplicitano gli obiettivi circa cosa vogliamo che il settore pubblico eroghi, il rischio è che la lista delle indicazioni fornite ometta esattamente ciò di cui si ci si sarebbe dovuto occupare.

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