ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 172/2022

19 Maggio 2022

Lezioni russe

Enrico D’Elia interrogando la teoria e la storia economica formula alcune previsioni sugli effetti delle sanzioni economiche imposte alla Russia e della richiesta di quest’ultima di ricevere solo pagamenti in rubli.

Gli eventi di questi giorni sembrano volerci ripetere un paio di insegnamenti sulle sanzioni e sul funzionamento dei sistemi di pagamento. Il primo è che le sanzioni, come i dazi, finiscono per danneggiare anche chi li impone. Il secondo è che il valore di una moneta non può essere fissato arbitrariamente, ma dipende in larga misura dalla fiducia dei mercati, che è quantomai impalpabile e volatile.

Dopo l’attacco all’Ucraina, I paesi occidentali hanno imposto alla Russia sanzioni molto severe, che vanno dall’esclusione delle banche russe dal sistema di scambio valutario SWIFT, fino al blocco degli asset dei cittadini e delle imprese russe in occidente. Le restrizioni sugli strumenti di pagamento hanno comportato un crollo delle importazioni dalla Russia, con la significativa esclusione delle forniture di gas e petrolio, che sono cruciali per molti paesi europei e, in particolare, per la Germania. La risposta russa è stata la richiesta di essere pagati in rubli anche per le transazioni precedentemente denominate in dollari o euro. Questa mossa intendeva aggirare il blocco del sistema SWIFT, deviando le transazioni sul sistema concorrente CIPS, gestito dal governo cinese, e lanciare il rublo come valuta di riferimento per il mercato del gas. Nel tentativo di rafforzare la divisa russa, la banca centrale ha anche garantito la sua convertibilità in oro.

Il danno per l’economia russa è stato significativo, e lo sarà ancora di più col passare del tempo. Tuttavia è almeno dai tempi di Adam Smith che gli economisti hanno compreso che frenare il commercio tra i paesi, anche tramite sanzioni, deprime la crescita economica complessiva, perché scoraggia la specializzazione e riduce le economie di scala. È vero che una eccessiva specializzazione, agendo sui rapporti di scambio e sulla remunerazione dei fattori produttivi, può finire per impoverire alcuni paesi. Può darsi anche che questo stop alla globalizzazione favorisca lo sviluppo di nuovi settori in vari paesi, riducendo la loro dipendenza dall’estero per alcuni beni e servizi, ma ciò vale solo in particolari condizioni, come sottolineato da Saurè. In ogni caso, è difficile che la Russia possa beneficiare di questi effetti collaterali delle sanzioni, almeno nel breve periodo, e l’unico possibile vantaggio è l’opportunità di combattere la “sindrome olandese” (ovvero il deterioramento della struttura industriale a causa degli eccezionali profitti nel settore energetico) attraverso una profonda ristrutturazione dell’economia, come ha ricordato di recente anche la coraggiosa governatrice della banca centrale russa Elvira Nabiullina parlando davanti alla Duma.

Le sanzioni si sovrappongono agli effetti diretti della guerra in Ucraina e ai numerosi colli di bottiglia nella catena del valore e nella logistica mondiale dopo l’attenuazione della pandemia. L’immagine dell’ingorgo di navi in attesa di entrare nel porto di Shanghai illustra questo aspetto meglio di molte cifre. Non a caso l’aumento dei prezzi delle materie prime è iniziato ben prima della guerra. Il risultato è stata una forte decelerazione dell’interscambio commerciale mondiale nel 2022, recentemente valutata dall’Organizzazione per il commercio mondiale in almeno 1.7 punti percentuali rispetto ad una crescita del 4.7% stimata prima della guerra. La perdita di esportazioni è stata abbastanza omogenea tra i paesi (a parte il boom del Medio Oriente e la flessione del Sud America), mentre quella delle importazioni è risultata drammatica quasi esclusivamente per la Russia (-12%).

Le esportazioni verso la Russia rappresentano solo una piccola frazione di quelle europee e giapponesi e sono sostanzialmente insignificanti per gli Usa. Tuttavia, in base alle revisioni delle ultime stime del Fondo monetario internazionale si può stimare che solo quest’anno il blocco occidentale subirà una contrazione del Pil superiore, in termini assoluti, a quello determinato in Russia dalle sanzioni: circa 350 miliardi di dollari contro poco più di 200, anche se molto inferiore in termini percentuali. Infatti la revisione al ribasso del Pil del complesso delle economie avanzate è stata pari a 6 decimi di punto, con picchi di 1.1 punti nell’Eurozona (pari a 160 miliardi di dollari) e 9 decimi in Giappone (44 miliardi). Solo gli Stati Uniti saranno danneggiati in modo relativamente marginale (3 decimi di punto di Pil, 70 miliardi). In Europa, i paesi più penalizzati saranno Germania (1.7 punti, 72 miliardi) e Italia (1.5 punti, 32 miliardi). A fronte di questi “sacrifici” del blocco occidentale, la Russia dovrebbe perdere quasi l’8% del Pil, ossia più di tre volte quello che aveva lasciato sul campo nel momento peggiore della pandemia (-2.5% nel 2020). Si tratta di cifre impressionanti, che tuttavia scontano, oltre al puro effetto delle sanzioni, il generale deterioramento del quadro economico globale rispetto a inizio anno.

Un ulteriore danno all’economia russa potrebbe provenire dalla pretesa di farsi pagare in rubli dai paesi importatori, con l’illusione che la moneta russa cresca di valore e vada addirittura a sostituirsi progressivamente al dollaro e all’euro come valuta di riferimento almeno per gli scambi di gas e per quelli all’interno dell’area asiatica. In realtà, il maggiore afflusso di rubli proveniente dalle esportazioni (essenzialmente gas e petrolio) può essere speso quasi esclusivamente sul mercato interno, perché per pagare la maggior parte dei beni e servizi importati sono richiesti ancora dollari, euro, yuan e yen. Ciò determina una sovrabbondanza di liquidità sul mercato interno russo, con una inflazione che ormai supera il 20% l’anno (perfino secondo i dati ufficiali della loro banca centrale), e una progressiva erosione delle riserve valutarie, che per essere mantenute su livelli di guardia richiedono la vendita di rubli ad un cambio che è mantenuto artificialmente elevato solo grazie a rigidi controlli valutari ed a tassi di interesse ufficiali di poco inferiori al 15% (che fino a poco tempo fa toccavano il 20%, ossia più del doppio del periodo pre-bellico). In ogni caso, per evitare il default tecnico, il tesoro russo è stato recentemente costretto a pagare in dollari le cedole degli eurobond in scadenza, conformemente alle clausole di rimborso e remunerazione dei titoli, ma in questo modo ha dovuto attingere alle proprie riserve.

Secondo la Banca Mondiale, l’indebitamento estero complessivo del paese è abbastanza modesto (meno del 40% del Pil), ma anche in queste condizioni tassi di interesse così elevati determinano un trasferimento di risorse verso l’estero dell’ordine del 6% del Pil ogni anno (ovvero il 15% sul 40% del Pil), paragonabile a più di due volte l’impatto negativo della pandemia e poco inferiore a quello delle sanzioni. Nessuna economia può reggere a lungo ad una simile emorragia di risorse sottratte a consumi e investimenti interni.

Per ora il rublo ha retto, recuperando le quotazioni di inizio anno, ma le cattive prospettive economiche ed il rischio di un esaurimento delle riserve non può che gettare un’ombra sinistra sulle sue quotazioni future (a meno di politiche monetarie estremamente restrittive, in parte già implementate). Ciò rende paradossalmente conveniente per le economie occidentali aderire alla richiesta di pagamenti in rubli, pur comportando un parziale aggiramento delle sanzioni sui movimenti di capitale attraverso il sistema CIPS, perché sottoscrivere contratti per l’acquisto di gas e altre materie prime denominati in rubli garantisce uno sconto rispetto al prezzo fissato in dollari. Il vantaggio sarà ancora maggiore se i rubli verranno acquistati sul mercato internazionale, senza passare per il meccanismo del doppio conto (uno in valute occidentali e l’altro in rubli) ideato dal governo russo. La conversione delle valute tra i due conti, inoltre, non può avvenire a tassi troppo diversi da quelli di mercato per non spingere gli importatori occidentali a procurarsi la divisa russa altrove ad un cambio più conveniente. Se le cose stanno così, non si capiscono né l’ostinazione russa del pretendere pagamenti in euro, né quella occidentale a rifiutarli. Alla lunga, è prevedibile che i motivi politici di queste decisioni cederanno il passo alla convenienza economica.

La banca centrale russa sembra perfettamente consapevole di questi rischi e, per sostenere il rublo, si è impegnata a pagare 5.000 rubli per un grammo d’oro, ma solo fino al 30 giugno prossimo. Questo inedito gold standard “a scadenza” peggiora, se possibile, le prospettive della divisa russa, perché è presumibile che la speculazione internazionale attaccherà il rublo proprio prima della scadenza. A quel punto la Russia non avrà altre alternative che attingere alle riserve che, come ricorda ancora Elvira Nabiullina, sono ingenti ma non infinite, o rinnovare la garanzia di convertibilità, eventualmente a condizioni più realistiche che scontano qualche ridimensionamento del cambio. Una vera manna per gli speculatori di tutto il mondo. È appena il caso di ricordare che qualcosa di simile accadde al dollaro alla fine degli anni 60, quando la richiesta d’oro mise in ginocchio perfino la banca centrale della maggiore potenza mondiale. Ad agosto del 1971 la convertibilità del dollaro fu sospesa unilateralmente e ad evitare il default intervennero gli accordi dello Smithsonian Institute, che prevedevano una svalutazione della divisa americana di circa l’8% e varie misure protezionistiche. Da allora scomparve dalla banconota americana la frase “pagabile su richiesta al portatore in monete d’oro” e rimasero solo quelle sulla fiducia degli statunitensi in Dio e dei creditori nel biglietto verde. Non è certo che oggi la Russia goda del prestigio internazionale necessario a raggiungere un simile compromesso e quindi lo scenario più probabile è quello di un default.

Anche se superasse gli attacchi speculativi, la divisa russa sarebbe comunque utilizzata poco negli scambi internazionali. Secondo gli ultimi dati della Banca per i regolamenti internazionali, relativi al 2019, il rublo entrava nell’1.1% delle transazioni tra valute e quasi tutte (il 91%) erano contro il dollaro. Nello stesso periodo, il biglietto verde compariva nell’88.3% degli scambi e questa percentuale è stata appena scalfita perfino dall’avvento dell’euro nel 2001 (quando era poco superiore al 90%). A sua volta l’euro entra nell’8.3% degli scambi che non avvengono in dollari e le sole transazioni tra euro e dollaro rappresentano il 24% del totale. Se, nella migliore delle ipotesi, il rublo riuscisse ad egemonizzare tutte le transazioni valutarie dell’Asia, escluse quelle di Giappone, Taiwan e Corea del Sud (che sono politicamente ed economicamente legate all’occidente), lo spazio della divisa russa sfiorerebbe al massimo il 6%, ossia circa un terzo della quota dello yen (calcolata al lordo degli scambi con dollaro ed euro). Tuttavia, se il rublo continuerà a circolare quasi esclusivamente sulla piattaforma cinese CIPS è più probabile che sarà lo yuan a guadagnare terreno. Anche dracme e sesterzi hanno visto tempi migliori prima di decadere a oggetti da collezione, ma partendo dalla situazione attuale è dunque improbabile che il mercato di dollaro, euro e yen sarà intaccato dal rublo nel breve e medio termine.

Composizione degli scambi valutari nel 2019

Fonte: Banca dei Regolamenti Internazionali

È difficile (e perfino cinico) analizzare la tragedia di una guerra solo attraverso gli strumenti dell’economia, ma è utile tener conto anche di alcuni risultati di questa disciplina per disegnare una via di uscita dal conflitto. Ad esempio, l’ampia rassegna di Peksen mostra che le sanzioni funzionano solo all’interno di un sistema di pressioni diplomatiche e militari e se sono modulate in base al raggiungimento di obiettivi specifici (p.es. un raffreddamento del conflitto), altrimenti diventano puri strumenti di ritorsione. In effetti, perdere 350 miliardi di dollari di Pil per infliggere all’avversario danni per soli 200 miliardi richiede motivazioni extra-economiche molto forti per essere giustificabile sul piano della razionalità. Allo stesso modo, un paese soggetto a sanzioni non dovrebbe inseguire obiettivi velleitari che possono ritorcersi contro la propria economia, come illudersi di conquistare l’egemonia valutaria negli scambi di un intero continente o di un mercato. Tantomeno dovrebbe lanciare offerte speciali sull’oro limitate nel tempo, come un supermercato qualsiasi. D’altra parte, solo il sonno della ragione può generare un mostro come la guerra, il cui costo è di per sé un ottimo motivo per non dichiararla

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