All’uscita dalla pandemia, il panorama politico sembrava diverso da quello pre-COVID. I populismi mostravano difficoltà, marginalizzati su posizioni minoritarie anti-vaccini e anti-restrizioni. Si stavano affermando nuove priorità superando le contrapposizioni su migrazioni e diritti civili che avevano caratterizzato gli anni precedenti. A tutto ciò hanno contribuito, da un lato, le politiche o linee politiche fallimentari assunte al tempo della pandemia da governi o opposizioni populiste e, dall’altro, anche la (insospettata) capacità dimostrata dalla politica tradizionale nell’affrontare il post pandemia con i piani macroeconomici di Recovery. In Italia sembrava prospettarsi una nuova fase politica che vedesse il Movimento 5 Stelle riassorbito in una coalizione di sinistra e la Lega e FdI in una di destra con baricentri riformisti. Questo avrebbe portato a una nuova forma di bipolarismo con costole populiste, più o meno consistenti, in entrambi gli schieramenti. Uno scenario che suscitava qualche perplessità, come scrivemmo sul Menabò.
La sostenibilità e il cambiamento climatico apparivano anche temi sui quali fondare una nuova alleanza tra sinistra e verdi sul piano partitico e tra forze populiste e riformiste sul piano delle piattaforme caratterizzanti, con una spinta a sostegno di questa tendenza che veniva da movimenti di successo come quelli dei Fridays for Future. Alcuni ipotizzavano perfino che i tempi fossero maturi per “l’ecosocialismo”. Al contempo, il Green New Deal veniva indicato come pilastro delle politiche del Recovery Fund.
A pensarci, sembra un’altra epoca, invece sono passati meno di tre anni. In mezzo, la guerra, le guerre.
È indubbio che lo scoppio dei conflitti, prima in Ucraina e poi in Medio Oriente, abbia cambiato profondamente il panorama politico internazionale. È tornata sulla scena una vecchia nuova destra, populista, xenofoba e oscurantista, con ricche ed inquietanti coperture finanziarie. Al contempo i partiti cosiddetti tradizionali sono nuovamente in crisi profonda. Spinte diverse hanno contribuito a questa trasformazione: il mutamento sia delle condizioni economiche sia, più in generale, della prospettiva dalla quale l’opinione pubblica guarda alle priorità del momento. L’attenzione per la sostenibilità e per le politiche ambientali ha seguito questa parabola. Questioni materiali, come l’aumento nei prezzi dell’energia e le spinte inflattive, si sono incrociate con un più generale mutamento nelle priorità percepite dall’opinione pubblica. Il tema del cambiamento climatico è tornato in secondo piano, come dimostra anche l’assenza di tutti i leader occidentali dal COP29 di Baku di questi giorni, a favore di questioni altre cui corrispondono diverse linee di demarcazione nella società. Prevedibilmente le conseguenze sul piano politico non mancheranno, come si vedrà nella prossima amministrazione Trump, ma anche con la messa in discussione di alcuni obiettivi fondamentali del Green New Deal europeo. Nelle ultime elezioni europee, infatti, i partiti verdi hanno subito un forte ridimensionamento, confermato anche nelle legislative francesi e nelle elezioni locali tedesche. In Italia la fase di relativa gloria di AVS sembra più legata ad una linea politica pacifista ancellare al PD che non a marcate rivendicazioni ecologiste. L’epilogo della recente parabola dei Verdi si conferma poi anche in altri paesi.
Per trovare evidenza empirica a supporto di questi argomenti, abbiamo condotto uno studio per individuare e analizzare l’effetto dello shock legato allo scoppio della guerra sulle preferenze politiche ambientali.
La letteratura economica sulle determinanti del sostegno pro-ambientale e del voto per i partiti politici ambientalisti è piuttosto vasta, e una rassegna si può trovare in Drews e Van den Bergh, 2016. Come i conflitti influenzino direttamente il sostegno pro-ambientale non è però un argomento altrettanto studiato. Da una parte, l’effetto potrebbe essere positivo. Questo perché, in generale, i conflitti tendono a rafforzare una cooperazione intra-gruppo (Voors et al., 2012). Quindi, un effetto positivo sulla cooperazione potrebbe supportare la produzione di beni pubblici e l’internalizzazione dei costi sociali. Questi ragionamenti (e la relativa evidenza empirica) considerano, però, l’influenza dei conflitti soltanto sulla popolazione direttamente coinvolta. Questo non è il caso che ci interessa, infatti per il nostro scopo non sono tanto rilevanti le preferenze degli Ucraini quanto quelle del resto dei paesi più o meno indirettamente coinvolti nel conflitto. La guerra in Ucraina potrebbe essere considerata per l’Europa più simile a un periodo di difficoltà economica, sia per l’effettivo impatto recessivo delle sanzioni e i costi della spesa militare, sia per l’incertezza che suscita. Da questo punto di vista, le preferenze ambientali potrebbero essere piuttosto pro-cicliche, in relazione alla sostenibilità e la distribuzione dei costi delle politiche connesse. In breve, i conflitti porterebbero in questa logica a un minore ambientalismo. Lo stesso effetto potrebbe scaturire da un altro meccanismo. Una guerra, infatti, rappresenta senza dubbio uno shock forte sull’opinione pubblica che invade lo spazio del dibattito politico, cambiando agenda e protagonisti. Se l’attenzione è un fattore scarso, si riduce la salienza dell’argomento della sostenibilità e del cambiamento climatico e al contempo si ricompongono gli schieramenti in campo lungo direttrici in cui il tema della sostenibilità non è più tra quelli caratterizzanti.
Nel contesto della guerra in Ucraina, consideriamo la data dello scoppio del conflitto, il 24 febbraio 2022, come un esperimento naturale. In effetti, sebbene dalla fine del 2021 esistesse una parziale percezione nell’opinione pubblica che la guerra potesse scoppiare, la tempistica era sconosciuta a tutti. Utilizziamo i dati dell’European Social Survey (ESS) nella rilevazione del 2022 e sfruttiamo le date delle interviste: in sintesi, confrontiamo le preferenze pro-ambientali degli individui immediatamente prima e subito dopo lo scoppio della guerra all’interno di ciascun Paese per il quale la tempistica della rilevazione consente il confronto (Belgio, Svizzera, Spagna, Regno Unito, Grecia, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia) e sfruttiamo la Chapell Hill Expert Surveyper classificare le preferenze politiche sull’asse ambientalista.
Utilizziamo un approccio sia di event study che una semplice stima pre-post con controlli e bilanciamento. Troviamo un effetto negativo e significativo della guerra sulle variabili relative alla vicinanza ai partiti politici, sia quando questi sono classificati in base all’importanza attribuita alle questioni ambientali sia nei loro programmi che, alternativamente, in base alla salienza che queste hanno nella comunicazione pubblica del partito. L’effetto si rileva anche sulla variabile che misura le preoccupazioni riguardanti il cambiamento climatico; gli effetti sono notevoli quantitativamente, con diminuzioni causate dalla guerra pari a circa il 10% della deviazione standard. Al contrario, non risultano influenzati gli atteggiamenti individuali rispetto a stili di vita e pratiche sostenibili. Ulteriori analisi suggeriscono che questi effetti sono in parte mediati sia dai prezzi dell’energia sia dalla rilevanza del tema della guerra nel dibattito pubblico, misurata attraverso le ricerche su Google con il termine “Ucraina”. Purtroppo, non possiamo compiutamente analizzare la persistenza di questo effetto nel nostro contesto, poiché non disponiamo di dati comparabili per i mesi successivi all’Agosto 2022.
Il nostro risultato, in particolare alla luce del ruolo mediatore dei prezzi dell’energia, sembra inizialmente in linea con le evidenze di cui abbiamo parlato che indicano come le preoccupazioni materialistiche possano spiazzare quelle ambientali. Tuttavia, il ruolo di fattore mediante della salienza, rilevata attraverso i Googletrends, suggerisce un ulteriore canale, legato alla minore rilevanza fra le priorità dell’opinione pubblica delle questioni ambientali dopo l’inizio della guerra. Coerentemente con la letteratura di scienza politica ed economia politica, uno spostamento di rilevanza dei temi politici potrebbe aver causato un corrispondente cambiamento nelle preferenze politiche ambientali.
Inoltre, attraverso ulteriori analisi sulla diversità delle opinioni politiche, scopriamo che l’effetto della guerra è negativo indipendentemente da reddito o istruzione. Tuttavia, è statisticamente significativo solo per gli individui più ricchi, e di maggior entità per i ricchi e per i più istruiti. La spiegazione più semplice è che le persone ricche e altamente istruite avessero prima della guerra opinioni politiche più favorevoli all’ambiente e quindi fossero più ampi i loro margini di allontanamento da queste opinioni in caso di incertezze. Un’altra possibilità è che le conseguenze dell’incertezza sui prezzi dell’energia siano state più gravi per gli imprenditori e le persone facoltose rispetto ai lavoratori a basso reddito. Purtroppo, non abbiamo modo di verificare queste ipotesi e lasciamo la questione a ricerche future.
Infine, i nostri risultati rivelano una dimensione aggiuntiva di complessità, che lascia spazio ad un certo ottimismo. La guerra ha avuto conseguenze rilevanti sulle opinioni politiche e sulle preoccupazioni riguardo al cambiamento climatico, e tuttavia non ha influenzato l’impegno delle persone sulle questioni ambientali, la loro sensibilità al tema in termini pre-politici. Questo suggerisce che le preferenze politiche sull’ambiente potrebbero essere più sensibili ai cambiamenti nelle condizioni esterne rispetto agli atteggiamenti di base. Questi ultimi sembrano essere più stabili nel tempo e ciò potrebbe essere importante per il futuro del Green Deal europeo. Se il pendolo della politica oscillasse in senso opposto, le guerre e l’incertezza terminassero o diminuissero di intensità, gli atteggiamenti pro-ambientali di fondo potrebbero essere la leva su cui ricostruire il sostegno alle politiche per la sostenibilità ambientale.