L’occupazione in Italia: divari, vulnerabilità e nuove potenzialità

Francesca Gallo, Anita Guelfi, Samanta Pietropaoli, Maria Elena Pontecorvo e Valentina Talucci fanno il punto sul mercato del lavoro italiano a 5 anni dall’avvio della ripresa economica, mettendo in luce i segnali di miglioramento ma anche i persistenti divari e le non risolte vulnerabilità. Le autrici si soffermano in particolare su alcuni fenomeni contraddittori legati al capitale umano e, tra i segnali positivi, richiamano l’andamento delle professioni più qualificate nelle imprese impegnate nella transizione digitale e nell’introduzione di innovazioni.

In questo articolo, che si basa sul capitolo “Mercato del lavoro e capitale umano” scritto per il Rapporto Annuale 2019 dell’Istat, si traccia inizialmente un quadro d’insieme sull’evoluzione dell’occupazione in Italia negli ultimi dieci anni; successivamente ci si concentra sui target di popolazione esposti a vulnerabilità lavorativa, sul ruolo del capitale umano nel tessuto economico e sociale del paese e si fornisce una prima indicazione di quali siano i nuovi driver dell’occupazione.

A cinque anni dall’avvio della ripresa economica, il mercato del lavoro italiano mostra un sostanziale miglioramento, superando i livelli occupazionali pre-crisi e riducendo progressivamente la forza lavoro non utilizzata nel sistema produttivo. Nel 2018 l’occupazione registra il livello più alto degli ultimi dieci anni, superando di 125 mila unità quello del 2008, sebbene il ritmo di crescita abbia recentemente subìto un rallentamento (+0,8% nel 2018 a fronte di +1,2 e +1,3%, rispettivamente nel 2017 e 2016).

La forza lavoro non utilizzata e potenzialmente impiegabile nel sistema produttivo, ovvero l’insieme dei disoccupati e delle forze di lavoro potenziali, dopo aver raggiunto nel 2014 il picco di 6,7 milioni, ha cominciato progressivamente a ridursi raggiungendo 5,8 milioni di individui nel 2018, valore ancora superiore rispetto ai 4,5 milioni del 2008. La ripresa dell’occupazione è riuscita però solo parzialmente a ridurre le vulnerabilità del mercato del lavoro e i divari acuitisi durante la fase recessiva. Anche l’input di lavoro complessivo, misurato dal totale delle ore lavorate, resta ancora ampiamente al di sotto del livello pre-crisi, malgrado l’aumento di occupazione.

Come è cambiata l’occupazione negli ultimi dieci anni. Il ritorno dell’occupazione ai livelli pre-crisi, dovuto esclusivamente all’aumento del lavoro dipendente, ha visto accrescere il peso della componente relativamente più debole, quella del lavoro dipendente a termine e, in particolare, di breve durata. La forte riduzione del lavoro indipendente, che nel decennio ha portato ad una perdita di oltre 550 mila occupati, si è accompagnata ad una ricomposizione interna dell’aggregato a favore del segmento già cospicuo degli autonomi senza dipendenti, che presenta ampi tratti di vulnerabilità ed eterogeneità. (Figura 1A, Occupati per posizione professionale)

Il lavoro a tempo pieno ha mostrato a partire dal 2014 una ripresa che non è però riuscita a compensare le perdite significative subìte durante la fase recessiva. E’ invece cresciuto costantemente dal 2010 al 2017 il numero di occupati a orario ridotto, raggiungendo nel 2018 i 4,3 milioni, un milione in più rispetto a dieci anni prima. Sono aumentati in particolare gli occupati in part-time involontario (quasi un milione e mezzo in più rispetto al 2008), il cui peso sul totale dei lavoratori ad orario ridotto ha raggiunto nel 2018 il 64,1%. (Figura 1B, Occupati per regime orario)

L’aumento del part-time è legato prevalentemente alla ricomposizione dell’occupazione per settore di attività economica, con un aumento del peso dei comparti a più alta concentrazione di lavoro a orario ridotto (sanità, servizi alle imprese, alberghi e ristorazione e servizi alle famiglie), e una riduzione dell’incidenza dei settori a maggiore intensità di occupazione a tempo pieno (industria in senso stretto e costruzioni). Analogamente, la dinamica dell’occupazione per professione ha favorito quelle a più alta intensità di lavoro part-time, in particolare le professioni addette al commercio e ai servizi e quelle non qualificate.

Vecchi divari e nuove vulnerabilità. Il processo di terziarizzazione in atto e la crisi dei settori ad alta intensità di lavoro maschile hanno generato un aumento della quota di donne tra gli occupati. Nel decennio le donne occupate sono aumentate di circa mezzo milione (+5,4%), valore che sintetizza una dinamica stagnante negli anni della crisi (+0,1% tra il 2008 e il 2013) e un deciso aumento tra il 2013 e il 2018 (+5,3%). Di contro, per gli uomini il recupero di oltre 532 mila occupati negli ultimi cinque anni non è stato sufficiente a colmare la perdita di 900 mila unità subìta durante la crisi.

La dinamica positiva dell’occupazione femminile si è accompagnata a una riduzione della stabilità e delle ore lavorate: il 40% del recupero occupazionale registrato tra il 2013 e il 2018 è infatti concentrato nel lavoro part-time involontario. La partecipazione delle donne al mercato del lavoro è legata al ruolo ricoperto in famiglia: benché il tasso di occupazione femminile sia cresciuto di 3 punti percentuali tra il 2013 e il 2018, l’indicatore è aumentato in misura più contenuta (+1,5 punti) per le donne 25-49enni ed è diminuito per quante hanno figli tra 0 e 2 anni (-1,5 punti).

L’espansione dell’occupazione meno qualificata ha accentuato le condizioni duali del mercato del lavoro italiano riguardo alla presenza straniera, sempre più concentrata in taluni settori produttivi (in particolare, nel settore dei servizi alle famiglie oltre due terzi degli occupati è straniero) e negli impieghi a bassa specializzazione, con minori tutele e con retribuzioni più basse.

La ricomposizione del lavoro in favore di forme e settori relativamente più vulnerabili ha riguardato anche i giovani, meno presenti nel mercato del lavoro. Complessivamente, nel 2018 l’aggregato degli occupati si configura infatti come più “anziano” rispetto al 2008, quando il 30,2% degli occupati aveva un’età compresa tra 15 e 34 anni: a dieci anni di distanza questa quota è scesa al 22,0%.

Il decennio ha visto aumentare la distanza fra giovani e adulti rispetto alla stabilità del lavoro: la quota di dipendenti a tempo indeterminato tra i giovani è scesa dal 61,4% del 2008 al 52,7% del 2018, mentre quella degli over 35 è aumentata di 1,1 punti attestandosi al 67,1%. Inoltre, nel 2018 circa un terzo dei giovani occupati ha un lavoro a tempo determinato, a fronte di una quota pari all’8,1% per gli occupati di 35 anni e più.

Nel decennio si sono ulteriormente ampliati i divari territoriali. Nel 2018 nel Centro-nord il recupero dell’occupazione, iniziato nel 2013, ha portato a superare il numero di occupati del 2008 (384 mila, +2,3%), mentre nel Mezzogiorno il saldo è ancora ampiamente negativo (-260 mila; -4,0%). Oltre al più forte aumento del lavoro a termine, la differenza nei livelli di crescita del Centro-nord rispetto al 2008 è dovuta alla dinamica degli occupati a tempo indeterminato: +195 mila (+1,8%), contro -273 mila (-7,0%) nel Mezzogiorno. Contestualmente, il più forte calo del lavoro a tempo pieno nel Mezzogiorno ha prodotto una ricomposizione del lavoro nelle due ripartizioni: meno della metà degli occupati nel Mezzogiorno può contare su un lavoro stabile e a tempo pieno (48,8%, – 5,5 punti percentuali), contro il 54% del Centro-nord (-2,6 punti percentuali).

La ripresa nel Centro-nord è stata trainata dalle professioni qualificate, tornate ai livelli pre-crisi (+71 mila), mentre nel Mezzogiorno, questo gruppo di professioni è l’unico ad avere ancora un saldo negativo tra il 2013 e il 2018. Benché in diminuzione, resta inoltre molto più elevato nel Mezzogiorno il tasso di lavoro irregolare: nel 2016 – ultima stima disponibile – esso risulta infatti pari al 20,9%, superiore di 8,5 punti percentuali rispetto al Nord e di 6 punti rispetto al Centro.

Il capitale umano: una risorsa da valorizzare. L’innalzamento del livello medio di istruzione della popolazione si è tradotto in un ricambio generazionale degli occupati a favore di coorti sempre più istruite. Nel decennio, infatti, i laureati occupati aumentano di 1 milione 431 mila unità e il loro peso tra gli occupati passa dal 17,1 al 23,1%.

Il generale arretramento della struttura occupazionale, tuttavia, con la ricomposizione a favore di professioni meno qualificate, acuisce il problema del mismatch tra domanda e offerta di lavoro e, in particolare, la presenza di sovraistruzione, ovvero di occupati con un titolo di studio più alto rispetto a quello richiesto per la mansione svolta, rappresenta un fattore di ostacolo alla piena valorizzazione del capitale umano.

Nel 2018 i laureati 20-64enni “sovraistruiti” sono circa 1,8 milioni, in aumento nel quinquennio 2013-2018 dal 32,2 al 34,1%. Tale aumento va interpretato anche alla luce dell’ingresso nel mercato del lavoro di coorti d’età più istruite; infatti, nel caso dei laureati 20-34enni non più in istruzione il fenomeno è particolarmente marcato, interessando più del 42% di questa sottopopolazione. (Figura 2)

Il fenomeno del mismatch determina effetti negativi sia per l’individuo, in termini di ridotta remunerazione e minore soddisfazione lavorativa, sia per le istituzioni e più in generale la società, in termini di sottoutilizzo del potenziale economico del capitale umano e concorre ad alimentare la spinta dei giovani a cercare una più adeguata collocazione nel mercato del lavoro fuori dal nostro Paese.

Una maggiore dotazione di capitale umano si conferma come fattore determinante per la partecipazione al mercato del lavoro: chi ha conseguito almeno la laurea presenta nel 2018 un tasso di occupazione pari al 78,7%, oltre 20 punti percentuali in più rispetto al tasso di occupazione totale (58,5%) e quasi 35 punti percentuali al di sopra di chi possiede al massimo la licenza media. All’aumentare del titolo di studio diminuisce inoltre il divario di genere nei tassi di occupazione, che nel 2018 supera ancora i 18 punti percentuali a sfavore delle donne, ma si riduce a 8,2 punti nel caso di un titolo di studio pari o superiore alla laurea. Un’analoga corrispondenza si osserva per il tasso di mancata partecipazione, espressione della forza lavoro potenziale non assorbita dalla domanda: nel 2018 risulta pari al 27,5% per chi possiede il titolo di studio più basso e si riduce al 10,2 per i laureati. Il gap di genere passa da 13,3 punti percentuali per gli occupati con titolo di studio pari o inferiore alla licenza media a 4,4 punti per chi possiede almeno la laurea.

I nuovi driver dell’occupazione. Un segnale positivo emerge con riferimento alle professioni più qualificate che, dopo aver subìto una forte contrazione durante la crisi, sono tornate gradualmente a crescere a partire dal 2014. In particolare nel 2018 la crescita dell’occupazione rispetto all’anno precedente è dovuta in otto casi su dieci a professioni qualificate, soprattutto nei settori di informazione e comunicazione, servizi alle imprese e industria. (Figura 3A, Occupati per professione)

Cresce il numero di occupati in professioni informatiche e diminuisce il divario digitale tra gli addetti all’interno delle imprese. Tale dinamica può essere letta anche alla luce dei processi di ristrutturazione intrapresi, negli ultimi anni, dalle imprese impegnate nella transizione digitale. Le imprese che investono in automazione e innovazione digitale, che accolgono 7,5 milioni di addetti con elevato skill e un terzo del valore aggiunto, sono più propense ad assumere lavoratori con un elevato profilo professionale e tecnico e a offrire una maggiore retribuzione. Il capitale umano da esse impiegato accoglie non solo nuove professioni, ma anche vecchi mestieri riqualificati in chiave tecnologica.

[1] I livelli di qualifica professionale sono stati classificati sulla base dei grandi gruppi della CP2011. Nel dettaglio nelle “low skill” sono comprese le professioni dei grandi gruppi 6,7 e 8; nelle “medium skill” le professioni dei gruppi 4 e 5; nelle “high skill” le professioni dei grandi gruppi 1, 2 e 3.

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