L’Unione divisiva alla prova del Recovery Fund

Paolo Paesani parte dalla approvazione del cosiddetto Recovery Fund per riflettere sulle disuguaglianze crescenti tra paesi all’interno dell’UE. Paesani sviluppa il proprio ragionamento basandosi anche sulle tesi sviluppate in un recente volume di Celi, Ginzburg, Guarascio e Simonazzi che fornisce importanti elementi di riflessione per comprendere, con riferimento particolare al settore manifatturiero, la genesi e le implicazioni di queste disuguaglianze nonché per individuare i possibili rimedi, tra i quali occupa un posto preminente la politica industriale.

“Gli obiettivi della nostra ripresa possono riassumersi in tre parole: convergenza, resilienza e trasformazione. Concretamente, occorre riparare i danni causati dal COVID-19, riformare le nostre economie e rimodellare le nostre società”. Con queste parole il 21 luglio 2020 il presidente del Consiglio d’Europa Charles Michel salutava l’accordo raggiunto, al termine di un lungo e difficile negoziato, intorno a un pacchetto di 1.824,3 miliardi di euro, comprendente il quadro finanziario pluriennale europeo (1.074,3 miliardi di euro, bilancio 2021-2027) e il fondo Next Generation EU (750 miliardi di euro).

Come ricorda Marcin Grajewski, capo del think-tank European Parliament Research Service presso il Parlamento Europeo, molti politici e analisti hanno salutato l’accordo come un “momento storico”. Per la prima volta, alcuni debiti dell’UE saranno mutualizzati e l’UE attingerà ai mercati finanziari su una scala significativa per garantire i fondi, che saranno erogati sotto forma di sovvenzioni e prestiti. Il Parlamento europeo – che deve approvare questi piani di spesa – ha accolto con favore il fondo, ma ha criticato la mancanza di controllo parlamentare nella sua attuazione, nonché alcuni dei tagli alla spesa per l’innovazione e il clima rispetto alle proposte del quadro finanziario pluriennale della Commissione europea e alle richieste avanzate dal Parlamento stesso. Al di là dell’ottimismo che traspare da molte dichiarazioni, ragioni diverse invitano a un atteggiamento di maggiore cautela soprattutto per quanto riguarda la capacità di riportare gli Stati membri dell’UE economicamente più deboli a convergenza verso i livelli di prosperità e di benessere degli Stati membri economicamente più forte.

Confrontando l’entità delle risorse ordinarie stanziate nel bilancio 2014-2020 con i valori attuali, è possibile osservare una leggera limatura da 1.087,2 a 1.074,3 miliardi di euro (- 1,2%). Con la Brexit alle porte e l’ostilità dei paesi frugali probabilmente non si poteva fare di più ma resta il fatto che il bilancio annuale dell’UE continua a non superare l’1% del PIL europeo e il 2% dei bilanci congiunti dei 28 membri dell’UE. Certo, la cifra s’innalza sensibilmente grazie ai 750 miliardi del Recovery fund. A fronte di questo, però, sta la peggiore caduta del prodotto e dell’occupazione europea dalla fine della seconda guerra mondiale, una caduta che rischia di aggravare le disuguaglianze esistenti tra nazioni e regioni all’interno della UE e con esse le prospettiva di una ripresa del progetto europeo, dopo le difficoltà degli ultimi anni.

Al tema della genesi e delle cause strutturali delle disuguaglianze crescenti all’interno dell’UE è dedicato un libro di grande interesse pubblicato di recente dalla casa editrice il Mulino. Il libro s’intitola Una Unione divisiva. Una prospettiva centro-periferia della crisi europea. Gli autori, Giuseppe Celi, Andrea Ginzburg (scomparso nel 2018), Dario Guarascio e Annamaria Simonazzi, partono dall’osservazione che il progetto europeo “Originariamente concepito per promuovere la convergenza e l’armonizzazione tra e all’interno dei Paesi, appare oggi molto lontano da quegli obiettivi. Dopo decenni di integrazione economica e di allargamenti, vent’anni di integrazione monetaria e una lunga crisi economica e finanziaria, sono aumentate le divergenze: i Paesi e le regioni più deboli sono rimasti indietro, le disuguaglianze economiche e sociali sono in aumento in tutti gli Stati membri” (p. 7).

Il volume documenta queste disparità, ritracciandone le origini, le conseguenze e la possibile evoluzione all’interno di uno schema complesso e avvincente che unisce storia, geografia, politica, teoria economica e analisi dei dati, soffermandosi sul periodo che va dagli anni Settanta fino ad oggi. L’analisi è sviluppata seguendo uno schema centro-periferia, utile per identificare i rapporti di potere che sottendono le relazioni economiche tra i principali attori dell’UE, che gli autori del testo collocano all’interno di tre unità geografiche, distinte ma strettamente legate tra loro.

La prima unità geografica (il centro) è composta dalla Germania e dai paesi che le sono più affini dal punto di vista istituzionale, politico e culturale (Austria, Paesi Bassi, Belgio). La Germania, in particolare, forte delle dimensioni della sua economia, della sua capacità di esportare, coniugando competitività e stabilità, domina l’UE, condizionandola con la sua insistenza su regole di bilancio stringenti, riduzione dei rischi prima di condividerli e diffidenza verso i paesi membri considerati “meno virtuosi”. La seconda unità (la periferia orientale) include principalmente i paesi del Patto di Viségrad: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. Si tratta di nazioni entrate a far parte di un nucleo manifatturiero dell’Europa centrale, strettamente integrato con il sistema produttivo tedesco e sempre più dipendente dalle decisioni che lì vengono prese. Il successo economico della Germania, ottenuto anche grazie alla capacità delle imprese tedesche di entrare con successo all’interno dei mercati più dinamici a livello globale, si riflette sui paesi della periferia orientale, dove il livello del reddito e occupazione aumentano di pari passo con la diffidenza nei confronti dell’UE. La terza unità (la periferia meridionale), infine, comprende i paesi dell’Europa mediterranea: l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia. Celi, Ginzburg, Guarascio e Simonazzi, illustrano come i vantaggi dell’integrazione europea si siano affievoliti col tempo insieme ai legami economici che legavano i paesi mediterranei al cuore manifatturiero d’Europa. I paesi dell’Europa orientale, prossimi geograficamente e dotati  sia di un apparato industriale di buon livello sia di forza lavoro istruita, hanno attirato le imprese tedesche anche grazie a generosi incentivi governativi.  Nell’ambito della ripartizione tra centro e periferie vecchie (mediridionali) e nuove (orientali), la Francia si colloca in posizione eccentrica, troppo grande e troppo autonoma per integrarsi con la Germania ma al tempo stesso meno capace di competere sul piano del commercio internazionale.

Il passaggio del baricentro produttivo europeo dalla traiettoria Nord-Sud a quella Nord-Est ha causato la diminuzione delle esportazioni dalla periferia meridionale verso la Germania e un progressivo impoverimento delle strutture produttive dei paesi mediterranei, acuite dall’arretramento della politica industriale in nome del mercato unico e della politica della concorrenza. Tra l’avvio dell’UME nel 1999 e il 2008, il rallentamento dei paesi mediterranei, provocato dalla riorganizzazione del sistema produttivo tedesco, e il conseguente peggioramento nelle bilance dei pagamenti, è stato compensato da flussi di capitale sempre più ingenti provenienti dai paesi del centro. Secondo gli autori, questi flussi hanno condotto a una prosperità fittizia, alimentando bolle speculative nei settori immobiliari e favorendo consumi cospicui.

Nel 2008, con lo scoppio della crisi finanziaria globale, questi flussi di capitale si sono invertiti, spingendo i paesi della periferia meridionale sull’orlo del dissesto economico. Il peggioramento della congiuntura, tra il 2009 e il 2011, ha indebolito ulteriormente i paesi europei colpendo sia le banche dei paesi centrali, già coinvolte nella crisi dei mutui sub-prime, sia quelle dei paesi periferici. Da questo indebolimento, e dai tentativi di salvataggio messi in campo dai governi degli Stati membri, è scaturita la crisi dei debiti sovrani. A questa crisi, l’UE ha risposto con interventi tardivi, richiami all’austerità e inviti a recuperare competitività attraverso la deflazione interna dei salari e dei prezzi. In modi e tempi diversi, tutti i paesi della periferia meridionale hanno adottato queste politiche sottoponendosi a uno shock deflativo che ha avuto effetti molto pesanti sulla vita dei cittadini e delle imprese. I giovani istruiti in grado di farlo sono emigrati dal Sud verso il Nord mentre molte imprese fallivano, impoverendo un tessuto produttivo già lesionato. Ciò ha spinto i paesi europei della periferia meridionale su una traiettoria divergente rispetto ai paesi del centro e della periferia orientale.

La situazione non è migliore nei paesi del centro. Celi, Ginzburg, Guarascio e Simonazzi ricostruiscono come parte del successo economico della Germania nei primi anni 2000 sia stato ottenuto a scapito di ampie fasce di lavoratori tedeschi. Le riforme Hartz del mercato del lavoro, la delocalizzazione verso le fabbriche dell’Europa dell’Est, l’accentuarsi del dualismo nel mercato del lavoro, in particolare nel settore terziario, gli effetti della meccanizzazione dei processi produttivi hanno accentuato polarizzazione e disuguaglianza anche all’interno della Germania. In Francia le cose sono andate anche peggio, per la  mancanza della capacità di rimanere al passo con in principale partner europeo. I paesi della periferia orientale, dal canto loro, pur continuando a prosperare, sono sempre più dipendenti dalle decisioni dei centri produttivi tedeschi e vedono con preoccupazione l’emergere di nuovi concorrenti temibili sia a Est che più a Sud (Turchia).

Celi, Ginzburg, Guarascio e Simonazzi analizzano con sapienza i conflitti che hanno accompagnato la trasformazione del tessuto produttivo europeo, l’aumento delle disuguaglianze all’interno dell’UME, i limiti di un’architettura istituzionale basata sulla separazione tra la moneta e lo Stato e sulla carenza dei meccanismi di governance economica. L’analisi delle difficoltà della Germania di “far funzionare” questa Unione Europea e dei legami tra queste difficolta e l’emergere di una nuova Mitteleuropa, rientra in un filone di analisi che comprende contributi importanti, accademici e non, da parte di studiosi internazionali e italiani tra cui si vuole ricordare Marcello De Cecco.

Molti di questi contributi sono accomunati dalla consapevolezza che il progetto europeo, con la sua aspirazione alla pace, al benessere e alla prosperità, è oggi minacciato sul piano politico e su quello economico. In assenza di una prospettiva concreta sul fronte dell’unione politica e di bilancio, Celi, Ginzburg, Guarascio e Simonazzi, forti della loro analisi dei mutamenti nelle strutture produttive europee, sottolineano l’importanza di superare un modello basato esclusivamente sull’export e sulla compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori europei. L’export da solo non basta più ad alimentare la crescita dell’economia europea, a maggior ragione oggi, in tempo di Covid-19 e di rottura delle catene del valore globale. Gli autori sottolineano l’urgenza di riattivare un vasto piano di investimenti, capace di riparare la struttura produttiva dei paesi della periferia sud dell’Europa, di rinsaldare i legami tra questa e il resto del continente, aumentando la capacità di tutti i paesi europei di sviluppare innovazione e di crescere insieme. Per raggiungere questo obiettivo servono investimenti mirati e una nuova politica industriale capace di coordinare in maniera efficace il piano nazionale e quello comunitario.

Tradizionalmente, la politica industriale nell’UE è condizionata dalla competenza condivisa, dalla subordinazione alla politica della concorrenza, almeno fino ai primi anni 2000, e dal problema delle risorse. Se si escludono episodi specifici, come la CECA, il Piano Davignon, i progetti high-tech 80-90 e Airbus, la politica industriale europea ha sofferto per l’indeterminatezza delle risorse, la debolezza della gestione e la mancanza di visione, con poche eccezioni (Green Deal). Il sostanziale fallimento di Europa 2020, dovuto non solo alla crisi finanziaria del 2008-2012, ne è la prova. Le disuguaglianze a livello di reddito, occupazione e capacità produttiva tra i paesi e le regioni dell’UE, le sfide poste da Industria 4.0, i modelli mutevoli della concorrenza internazionale e le recenti perturbazioni delle catene del valore globali hanno riportato la politica industriale all’ordine del giorno dei responsabili politici dell’UE. Il programma EUInvest 2021-2027 che riunisce il Fondo europeo per gli investimenti strategici e 13 strumenti finanziari dell’UE fa parte di questo nuovo approccio.

Chi ha a cuore i destini d’Europa, può solo sperare che i fondi stanziati attraverso il Recovery Fund e le misure che verranno introdotte nei prossimi mesi possano realmente contribuire a rendere la UE meno divisa e divisiva di quanto non sia stata negli ultimi decenni e che gli Stati Membri, a partire dalla Germania abbiano la lungimiranza di immaginare un futuro diverso.

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