Il messaggio del Presidente Mattarella al Forum Ambrosetti di Cernobbio di quest’anno ha giustamente avuto una vasta eco, in particolare i passaggi riguardanti il rapporto tra l’Italia e l’Europa, che il Presidente ha voluto leggere sotto il profilo della situazione debitoria dei paesi dell’Unione, tra cui primeggia, notoriamente, il nostro paese. Due sono i “moniti” che più hanno attirato l’attenzione. Il primo, che può intendersi rivolto all’attuale governo, è la “necessità ineludibile” di ridurre il rapporto debito/PIL. Il secondo, invece diretto agli “architetti” dell’Unione, è di “completare l’edificio finanziario europeo in maniera più rassicurante per tutti, ponendovi mano sollecitamente”. Infatti, ci sono varie ragioni economico-finanziarie in forza delle quali un paese con un debito pubblico molto alto, e quindi rischioso, paghi ai propri creditori interessi più elevati degli altri paesi europei, ma fino a che a punto? E fino a che punto è giusto affidarsi unicamente alla presunta razionalità dei mercati finanziari, visto che “l’Italia è un debitore onorabile, con una storia trentennale di avanzi statali primari annui, con un debito pubblico cresciuto in larga misura, dal 1992, principalmente a causa proprio degli interessi”?
Queste importanti considerazioni offrono l’occasione, e lo stimolo, per spingere lo sguardo un po’ al di là delle contingenze politiche e provare a fornire al pubblico non esperto gli elementi per rispondere alla domanda semplice e basilare: quando, come e perché l’Italia ha accumulato un debito pubblico (in rapporto al proprio PIL) tra i più alti al mondo, a partire da un valore che nel 1970 era solo del 37,9%? E’ solo una storia di cicale spensierate e irresponsabili o c’è dell’altro?
Per cominciare vediamo subito come si presenta la storia di questo mezzo secolo del debito pubblico italiano riprodotta nella Figura 1.
Figura 1: Rapporto percentuale debito pubblico/PIL 1970-2023
Fonte: Eurostat, database AMECO
Possiamo identificare tre fasi. La prima: in venticinque anni, tra il 1970 e il 1994, in rapporto al PIL il debito quadruplica arrivando al 123,8% (ossia quando sottoscriviamo il Trattato di Maastricht e c’iscriviamo alla maratona per entrare nell’euro abbiamo un debito più del doppio del 60% del PIL richiesto dal Trattato). La seconda: dal 1995 al 2007 il rapporto scende ogni anno fino al minimo post-euro del 105% (infatti fummo ammessi nell’euro grazie alla interpretazione generosa della clausola di un debito elevato ma in costante riduzione). La terza: una nuova crescita costante fino al picco storico del 155,3% nel 2020 (l’anno della pandemia Covid-19) a cui sta facendo seguito una riduzione che ci ha portati a chiudere il 2023 al 137,3%, poco sopra il valore pre-pandemia del 2019 (134,1%).
Ora mostrerò i dati che, in base a (relativamente) semplici relazioni contabili, regolano l’andamento del rapporto debito/PIL di anno in anno (d’ora in poi le grandezze di finanza pubblica s’intendono in rapporto al PIL, salvo diversa indicazione). Tutto quel che occorre sapere è che (all’incirca) il debito aumenta di anno in anno nella misura data dalla differenza tra una componente inerziale (effetto “palla di neve”) e il saldo primario del bilancio pubblico (la differenza tra entrate fiscali e spesa pubblica al netto della spesa per interessi). La componente inerziale è data dal debito dell’anno precedente pesato (moltiplicato) con la differenza tra servizio del debito (il rapporto tra spesa per interessi e il debito stesso) e crescita nominale del PIL. Si chiama inerziale perché se positiva (o negativa) determina un pari aumento (diminuzione) del debito anche se il saldo primario rimane nullo.
A tal proposito va osservato che il servizio del debito e la crescita nominale sono due variabili che, almeno nel breve-medio periodo, non sono direttamente modificabili da provvedimenti di politica fiscale, mentre lo è il saldo primario. La politica del debito del governo si manifesta da come esso manovra il saldo primario, “data” la componente inerziale. Qui si coglie anche il punto di Mattarella: se i creditori domandano un tasso d’interesse più alto e fanno aumentare il servizio del debito, spingono in su il debito stesso. Ciò può giustificare a posteriori l’aumento del tasso d’interesse o ulteriori aumenti. E’ il fenomeno noto come “profezie che si autoavverano”, per il quale Mario Draghi, da presidente della Banca Centrale Europea, lanciò l’allarme aprendo la strada alle successive politiche monetarie “non convenzionali” (es. Draghi 2012).
Figura 2: Variazione annuale del rapporto debito/PIL, componente inerziale e saldo primario/PIL 1970-2023
Fonte: elaborazione da Eurostat, database AMECO
La Figura 2 presenta la variazione annuale del rapporto debito/PIL, la sua componente inerziale e il saldo primario. Ricordiamo che idealmente la prima è la differenza tra le seconde due (in pratica ci sono discrepanze dovute ad altre operazioni di finanza pubblica). La Figura 3 evidenzia le due determinanti della componente inerziale.
Figura 3: Componente inerziale, servizio del debito e tasso di crescita nominale del PIL
1970-2023
Fonte: elaborazione da Eurostat, database AMECO
Come si può vedere, le tre fasi del debito pubblico italiano illustrate dalla Figura 1 corrispondono ad altrettanti fasi dell’andamento della componente inerziale e del saldo primario nella Figura 2. Durante la gran parte della prima fase di crescita del debito (1970-1994), l’Italia ha goduto di una “palla di neve” molto favorevole (forti valori negativi) largamente dovuti alla dinamica del PIL nominale sia per la parte reale, sia, purtroppo, per quella inflattiva. Questo dato ci ricorda che la crescita, ma anche l’inflazione, sono le cure non fiscali del debito pubblico. L’inerzia favorevole si è via via attenuata a partire dagli anni ’80, sia perché rallentò di molto la dinamica del PIL nominale sia perché il servizio del debito cominciò a mordere (per via dell’aumento del debito e del “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia).
Come si sono comportati i governi della Prima Repubblica (cioè fino al 1992)? Hanno inanellato una serie continua di disavanzi primari molto cospicui i quali, a partire dagli anni ’80, sono stati tendenzialmente eccedenti il freno inerziale, ragione che spiega i continui aumenti del debito. In sostanza, l’inerzia favorevole non fu sfruttata per stabilizzare il debito con poco o nullo sforzo fiscale, ma per attuare ulteriori politiche di spesa a debito. Utilizzando un altro concetto draghiano (Draghi 2020), fu “debito buono” o “debito cattivo”? Non buono, probabilmente, visto che fu proprio con gli anni ’80 che l’Italia imboccò il sentiero di declino del tasso di crescita reale su cui essa si trova impantanata tuttora (ciò non esaurisce l’analisi di quel periodo storico molto difficile, né il giudizio su quelle politiche fiscali e i loro effetti sotto altri profili).
Di conseguenza, la fase di decrescita del debito (1995-2007) fu attuata dai primi governi della Seconda Repubblica in un contesto opposto, assai meno favorevole, rispetto alla precedente. La “palla di neve”, a causa dell’aumento del servizio del debito e della decelerazione del PIL, divenne sfavorevole e minacciosa. Dato l’imperativo di centrare i parametri di Maastricht fu necessario invertire la rotta fiscale aprendo la lunga stagione degli avanzi primari, che, con alti e bassi, si è protratta fino ai giorni nostri come ricordato da Mattarella. Tuttavia, fino al 2007 lo sforzo fiscale per l’ingresso nell’euro fu premiato dal generale calo dei tassi d’interesse di cui beneficiarono tutti i paesi membri. Il conseguente sgonfiamento della “palla di neve” precedente consentì un allentamento anche dello sforzo fiscale (avanzi primari sostanzialmente azzerati, in cui si distinsero i governi Berlusconi), a costo però d’interrompere la discesa del debito.
Arriviamo così alla drammatica crisi finanziaria mondiale del 2007-08, la Grande Recessione del 2009, e la sua “europeizzazione”, che dal 2011 ha prodotto una seconda recessione (e una terza in Italia), la crisi dei debiti sovrani, le politiche di “austerità” e una sostanziale stagnazione continentale fin quasi alla vigilia della pandemia. Gli indicatori della Figura 2 e della Figura 3 registrano puntualmente come questi fenomeni abbiano determinato le condizioni di una nuova accelerazione del debito (2008-2020): forte peggioramento sia della componente inerziale (maggior servizio del debito, recessione e deflazione) sia dei disavanzi primari resi necessari dalla crisi economica prima e dalla pandemia poi.
Quale morale possiamo trarre a proposito della “postura fiscale” (fiscal stance) rispetto al debito pubblico dei governi italiani, e dei loro elettori, che si sono succeduti in questi cinquant’anni? Una risposta non certo esaustiva ma suggestiva la possiamo trovare nei seguenti ultimi dati riguardanti l’andamento dei saldi primari. La Figura 4 mette in relazione la componente inerziale del debito e il saldo primario in ogni anno. Essa fornisce una prima indicazione della cosiddetta funzione di reazione fiscale. Ci attendiamo che un governo che dà priorità alla stabilità (o riduzione) del debito realizzi un saldo primario (almeno) nullo quando l’inerzia è favorevole (segno negativo), e un avanzo primario quando l’inerzia è sfavorevole (segno positivo)
Figura 4: Componente inerziale e rapporto saldo primario/PIL annuale 1970-2024
Fonte: elaborazione da Eurostat, database AMECO
Il grafico evidenzia un doppio regime fiscale. Il terzo quadrante (in basso a sinistra) presenta disavanzi primari associati a spinte inerziali di riduzione del debito, cioè politiche fiscali non coerenti con l’ipotesi di funzione di reazione fiscale. Effettivamente si tratta degli anni ’70 e ’80 di crescita del debito già individuati prima. Il secondo quadrante (in alto a destra) presenta invece, come prescritto dalla funzione di reazione fiscale, gli avanzi primari a contrasto delle spinte inerziali di aumento del debito prevalenti dal 1994 in poi.
Si sarebbe potuto fare di più? Qui si entra in un terreno di giudizi opinabili che sconfinano nel campo minato della sostenibilità del debito che sta al cuore del nuovo Patto di Stabilità e Crescita approvato dal Parlamento europeo la scorsa primavera. La questione cruciale è se sia sostenibile l’impatto economico (ma anche sociale e politico) della sequenza di avanzi primari necessari a stabilizzare (o ridurre) il debito. Forse sarebbe stata sostenibile una maggiore costanza di avanzi primari dopo l’ingresso nell’euro fino al 2007. Il decennio perduto dei 2010, per l’Italia e l’Europa nel suo insieme, sta invece a dimostrare che fiscalmente non si poteva fare di più, e forse fu fatto troppo e male. Con buona pace dell’idea di austerità espansiva, mettere il consolidamento del debito in cima alle politiche fiscali quando le condizioni macroeconomiche inerziali sono molto sfavorevoli è controproducente e quasi certamente non sostenibile.
La storia che ho rappresentato, andando per grandi linee, offre due considerazioni. La prima è che la “disattenzione” italiana per la stabilità fiscale sia finita con la Prima Repubblica. Successivamente, seppur in maniera intermittente, il controllo del debito sembra essere in qualche misura entrato nel radar delle politiche fiscali. Mattarella ha quindi ben fatto a ricordare che l’Italia è un paese debitore onorabile, e che l’Europa necessita di un sistema più razionale di gestione dei debiti sovrani, ma ha anche ben fatto a sottolineare che per continuare ad essere onorabile occorre che il debito rimanga nel radar delle politiche fiscali. La seconda considerazione è che quando un paese accumula un debito di elevata entità come quello italiano della fine degli anni ’80, ridurlo può essere una Fatica di Sisifo molto molto lunga, impegnativa e rischiosa per l’economia e la società, a meno che il debito sia lo strumento di politiche fiscali in grado di innalzare in maniera molto robusta la capacità di crescita dell’economia, il benessere dei cittadini e la loro capacità/volontà di contribuire imposte adeguate. Purtroppo, sappiamo che non è stato così, e abbiamo dubbi che lo sarà in futuro.