ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 185/2023

14 Gennaio 2023

Monopolio intellettuale e segreto militare

Ugo Pagano osserva che i monopoli intellettuali privati possono essere incompatibili con i segreti militari degli Stati. Infatti, il monopolio intellettuale richiede che una innovazione sia resa pubblica, in contrasto con la segretezza militare mentre la sicurezza nazionale può richiedere di violare i diritti di proprietà intellettuale. L’analisi delle loro interconnessioni è, però, essenziale per comprendere il sistema nato con la globalizzazione degli anni 90 nonché la sua recente crisi e le crescenti tensioni internazionali.

Tra monopolio della conoscenza, garantito dal sistema dei brevetti oggi in vigore, e segreti militari vi sono connessioni forse poco considerate ma di enorme importanza per il complessivo funzionamento del capitalismo contemporaneo. Scopo di queste note è fare un po’ di luce su queste connessioni collocando il problema nel quadro concettuale, e storico, della trasformazione della conoscenza in capitale.

La trasformazione di terra, macchinari e conoscenza in capitale. Il nostro lontano punto di partenza storico è il superamento del sistema feudale che permise ad alcuni stati nazionali, a partire dall’Inghilterra, di trasformare la terra e i macchinari in capitale.

Nel caso della terra, si rese necessario sostituire il complesso sistema di diritti che caratterizzava il sistema feudale con diritti assoluti esercitabili, su ogni appezzamento di terra, da proprietari ben definiti. La terra fu suddivisa in una molteplicità di unità di diversa dimensione.

Per i macchinari il percorso fu diverso, si può dire opposto. La loro proprietà fu spesso attribuita a una singola persona giuridica, controllata da un numero variabile di azionisti, che poteva così gestire gli impianti necessari ai processi produttivi anche quando questi richiedevano l’uso congiunto di un notevole numero di macchine. In entrambi i casi, gli Stati nazionali riuscirono a portare a compimento anche individualmente questa transizione. 

La conoscenza necessaria a svolgere i processi produttivi, anch’essa fonte potenziale di rendimenti e quindi trasformabile in capitale, poneva problemi ben più ardui. Il principale è escludere dal suo uso chi non ne è proprietario, che ha ricadute anche sulla possibilità di trovare una soluzione all’interno dei confini nazionali. In ogni caso, i datori di lavoro cercarono di concentrare quella conoscenza, che avrebbe dato potere contrattuale ai lavoratori, nelle loro teste e nelle teste di fidati manager, anche frammentando il processo produttivo. Ure, Babbage e poi Taylor furono i più noti apostoli di questo tipo di organizzazione. 

Si aprì, inoltre, una battaglia legale sui diritti di proprietà della conoscenza che Catherine Fisk, nel suo libro Working Knowledge: Employee Innovation and the Rise of Corporate Intellectual Property, 1800-1930divide utilmente in tre fasi. 

Nella prima che va dal 1800 al 1860, le corti inglesi ritennero che i lavoratori non avessero alcuna responsabilità fiduciaria nei confronti delle imprese dove erano stati impiegati. I segreti industriali erano considerati un residuo del mondo feudale che interferiva con il diritto inalienabile dei lavoratori di poter sfruttare dove essi volessero le conoscenze che avevano acquisito. Successivamente, tra il 1860 e il 1890, l’approccio cambiò e divenne possibile scrivere contratti che impedivano ai lavoratori di sfruttare le conoscenze acquisite in altre imprese. Infine, a partire dal 1890, le sentenze cominciarono a considerare la violazione dei segreti industriali e commerciali come una appropriazione indebita esplicitamente vietata dal contratto di lavoro. In questo modo, i tribunali crearono una nuova tipologia di proprietà intellettuale che cancellava la vecchia nozione di indipendenza artigianale. Le controversie di questi giorni sui non-compete agreements, che addirittura impediscono ai dipendenti di impiegarsi nelle imprese rivali, costituiscono l’ultimo episodio di questa serie di conflitti.

I segreti industriali non permisero tuttavia di integrare la conoscenza nel capitale privato delle imprese nello stesso modo in cui erano stati integrati la terra e le macchine. Essi, infatti, non garantivano l’appropriazione esclusiva dei benefici economici dell’innovazione perché questi ultimi  tendono a svanire se la conoscenza tecnologicamente rilevante è pubblicamente accessibile. Inoltre, la legislazione degli Stati Nazionali non permetteva di farli rispettare al di fuori della loro giurisdizione – un limite che caratterizzava anche l’attribuzione di diritti di monopolio con validità limitata ai singoli stati nazionali. 

Una completa integrazione della conoscenza nel capitale è avvenuta molto più di recente, quando, grazie al WTO e agli accordi TRIPS del 1994, i monopoli intellettuali hanno acquisito un’adeguata protezione con valenza globale, in virtù delle sanzioni garantite da un organismo internazionale. Da quel momento, grazie a un ordinamento economico globale che secondo Quinn Slobodian costituisce la quintessenza del neoliberalismo, i monopoli intellettuali, alla pari dei diritti sulla terra e sui macchinari, sono diventati diritti “erga omnes”. Anche la terminologia ne ha risentito: i monopoli sono infatti diventati diritti di proprietà intellettuale riecheggiando i diritti di proprietà sulla terra e i macchinari. 

I segreti militari e la recinzione della conoscenza. L’analogia fra proprietà intellettuale e fisica si ferma al fatto che un ordinamento internazionale ha reso possibile che anche i diritti di monopolio valessero “erga omnes”. Mentre i diritti su macchine e risorse non impediscono che altri possano usufruire di identiche macchine e risorse (anche se, ovviamente, non le stesse), i cosiddetti diritti di proprietà intellettuale escludono che ciò possa accadere.

Questa differenza ha conseguenze negative su diseguaglianza, finanziarizzazione e stagnazione dell’economia globale che ho esaminato in un precedente articolo su questa rivista. Qui mi concentro su un’altra forma di recinzione delle conoscenze che ha accompagnato la loro privatizzazione. Mi riferisco all’esigenza che hanno gli stati nazionali di tenere, per quanto possibile, segrete le innovazioni che permettono di avere un vantaggio militare sui potenziali nemici. Questa esigenza di segretezza non può essere soddisfatta dal sistema dei brevetti che si basa, da un lato, sulla pubblicizzazione della innovazione e, dall’altro, sull’esclusività del diritto a utilizzare (e, dunque, a commercializzare e trarre beneficio economico) dalle innovazioni coperte da brevetto. Entrambi i requisiti sono in contrasto con le esigenze della sicurezza militare. La pubblicizzazione può favorire l’accesso dei ‘nemici’ alle conoscenze e alle tecnologie ‘sensibili’; l’esclusività può rendere gli apparati militari dipendenti, in termini di quantità dell’offerta e da un punto di vista tecnologico, da singole imprese private. 

La rilevanza del problema della sicurezza nazionale è dovuta anche al fatto che in molti settori (semiconduttoritelecomunicazioni, tecnologia spaziale, prodotti biomedici ecc.) le innovazioni hanno ricadute sia militari che commerciali, e ciò ha reso il confine fra questi due tipi di ricerca (militare e commerciale) sempre più labile. E’ evidente che la segretezza militare può facilmente confliggere con lo sfruttamento commerciale delle invenzioni, tuttavia, alcuni paesi hanno cercato di sfruttare nel modo migliore le sinergie tra i due domini. Gli Stati Uniti hanno creato una categoria quasi contraddittoria: una sorta di “brevetto segreto”. Si tratta di una contraddizione perché con il brevetto all’inventore viene riconosciuto il monopolio sull’utilizzo dell’innovazione in cambio della divulgazione dell’innovazione stessa. I “brevetti segreti” contraddicono, dunque, lo spirito stesso dello strumento brevettuale. Peraltro, la mancata pubblicizzazione dei contenuti dell’innovazione soggetta a ‘brevetto segreto’ rende possibile che altri, proprio perché ignorano l’esistenza di quella innovazione, impieghino risorse per giungere al medesimo esito e presentino analoga domanda di riconoscimento. 

Il primo passo degli USA verso i brevetti segreti è avvenuto con l’Invention Secrecy Act del 1951 che impedisce la divulgazione di nuove invenzioni e tecnologie che, secondo l’opinione di agenzie federali selezionate, potrebbe mettere a rischio la sicurezza nazionale. In questo caso, l’attribuzione del brevetto viene rifiutata, ma l’ufficio conserva nel suo registro la richiesta di brevetto, che potrebbe essere concesso in futuro se venisse meno il pericolo per la sicurezza nazionale (che viene ri-valutato ogni anno). 

Il 21 settembre 1960 i paesi della NATO hanno poi firmato a Parigi un accordo che ha reso possibile l’estensione a tutti loro di alcune modalità dell’Invention Secrecy Act. Il ruolo della NATO nella diffusione e segretezza delle innovazioni con valenza militare è diventato ancora più importante da quando nell’ottobre 1970 i suoi membri hanno stipulato l’accordo sulla comunicazione di informazioni tecniche per scopi di difesa. Questo accordo, che coinvolge sia i governi sia le organizzazioni della NATO, offre i mezzi per la protezione delle informazioni tecniche proprietarie contro la divulgazione non autorizzata delle tecnologie da parte di chi ha la licenza di usarli. Si sono, cioè, create le condizioni per la circolazione di brevetti “semi-segreti” tra i paesi della NATO – una organizzazione che sta diventando sempre più rilevante per la circolazione delle innovazioni.

Segreti militari e monopoli economici. Mentre le norme che discendono dall’Invention Secrecy Act del 1951 hanno come scopo la secretazione di alcune innovazioni il Bayh-Dole Act del 1980 completa l’integrazione fra segreti militari e monopoli privati permettendo alla ricerca militare di generare proprietà intellettuale privata. Prima dell’emanazione del Bayh-Dole Act, la ricerca pubblica (compresa quella militare) e la ricerca privata erano scarsamente collegate. Il governo degli Stati Uniti aveva accumulato 28.000 brevetti, ma meno del 5% di quei brevetti era concesso in licenza commerciale. Si riteneva che il governo non dovesse concedere le licenze esclusive generando monopoli privati ma piuttosto contribuire allo sviluppo di una economia aperta caratterizzata da mercati concorrenziali. Cambiando radicalmente questa politica il Bayh-Dole Act ha autorizzato le agenzie federali a concedere a privati licenze esclusive delle invenzioni di proprietà del governo federale. Inoltre, esso ha attribuito il monopolio delle invenzioni finanziate dal governo federale alle imprese o a altre organizzazioni (come le Università) che sono parti attive del progetto. La responsabilità e il diritto di commercializzare le invenzioni sono stati così riconosciuti alle imprese o alle istituzioni beneficiarie di una sovvenzione pubblica mentre si è dato per scontato che le conoscenze non potessero essere sfruttate altrove dai ricercatori che hanno lavorato al relativo progetto. 

Il flusso bidirezionale fra segreti militari e monopoli intellettuali ha dato grandi vantaggi alle imprese che possono muoversi abilmente in quello spazio.  Le loro innovazioni possono per qualche tempo essere brevetti quasi segreti di cui ben poco sanno i loro concorrenti. La ricerca può essere inizialmente protetta e finanziata come segreto militare per poi tramutarsi in una posizione di monopolio intellettuale privato anche quando è stata in gran parte sussidiata dagli Stati. Inoltre in una situazione di stagnazione indotta dalla monopolizzazione dell’economia le imprese connesse alle spese militari possono usufruire dei vantaggi di una domanda che si autoalimenta – uno sfortunato legame fra spesa militare e tentativi di superare la stagnazione dell’economia che ha purtroppo un’antica tradizione. Ogni investimento nella cosiddetta sicurezza militare costituisce un bene posizionale che genera insicurezza negli altri paesi. Questi ultimi reagiscono investendo anche loro in armi generando così nuove esigenze di sicurezza militare che portano a richiedere armamenti sempre più letali.

In questo quadro di segreti militari e monopoli intellettuali che si rafforzano a vicenda la globalizzazione ha inevitabilmente avuto un carattere gerarchico. Stati Uniti e paesi della NATO hanno potuto concedere o negare i diritti di monopolio intellettuale ad altri paesi sia mediante la commistione fra ricerca militare e grandi imprese occidentali sia mediante sanzioni del WTO per chi violasse i diritti di proprietà intellettuale o ancora con sanzioni unilaterali per chi cercasse di colmare il gap tecnologico con l’occidente.

Il sistema ha mostrato tutta la sua inefficienza e iniquità quando il WTO, pur essendo questa procedura prevista dagli accordi TRIPS, non è riuscito a trovare una maggioranza qualificata per sospendere i brevetti sui vaccini durante la pandemia del COVID 19.

La globalizzazione è stata costruita su una scienza privata chiusa, su una ricerca militare segreta e sulla monopolizzazione privata delle conoscenze che doveva vedere al suo vertice gli Stati Uniti e i paesi della NATO. Un motivo importante della sua crisi è che altri paesi, principalmente la Cina, hanno creato un sistema di innovazioni simile ma contrapposto a quello occidentale. La crisi delle catene lunghe dovuta al covid, e soprattutto il crescente numero di conflitti armati, sta producendo una de-globalizzazione che comporta una divisione del mondo in blocchi politici ed economici contrapposti.

Istituzioni da riformare. Nella pericolosa situazione che vive la nostra specie la riforma delle istituzioni internazionali WTO che il Forum DD ha più volte auspicato non avrebbe solo effetti positivi di contrasto delle diseguaglianze, della finanziarizzazione e della stagnazione. Favorirebbe anche una politica di disarmo sia militare che economica. 

Se il WTO introducesse una soglia di investimento in scienza aperta da parte di ogni Stato per evitare la concorrenza sleale che si ha con il free riding sulla produzione di conoscenza allora un numero crescente di tecnologie potrebbe essere disponibile a tutti gli esseri umani. Questo non solo porrebbe dei limiti a un capitalismo dei monopoli intellettuali che genera diseguaglianze, finanziarizzazione e stagnazione. Favorirebbe anche un disarmo reciproco riducendo l’incentivo che dà alla ricerca militare la certezza che grazie a segreti militari e monopoli economici, le conoscenze eventualmente acquisite saranno rese indisponibili a rivali e concorrenti. I vantaggi militari unilaterali sono destabilizzanti per la convivenza pacifica. Viviamo ormai in un mondo ben lontano da quello che ha caratterizzato la fine dello scorso secolo in cui gli USA e i loro alleati potevano imporre un ordine mondiale basato sulla loro superiorità militare ed economica. La riduzione dei rischi di conflitti richiede istituzioni internazionali che favoriscano una scienza aperta e mercati aperti che mettano più conoscenza al servizio di tutti e meno conoscenza al servizio dei monopoli e della ricerca di supremazia militare.   

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