ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 171/2022

30 Aprile 2022

News sulla delega fiscale

Ruggero Paladini riconduce le difficoltà incontrate dalla delega fiscale alla contraddizione interna a diverse forze di governo tra favore per la tassazione uniforme dei redditi da capitale e avversione all’innalzamento di alcune aliquote necessaria per realizzare quella uniformità.

1. La legge delega di riforma fiscale non sta molto bene. Del resto, come ricordava Luigi Marattin, presidente della Commissione Finanze della Camera, ad un recente seminario della CGIL (26 aprile), una legge delega di riforma fiscale sarebbe meglio farla all’inizio della legislatura, piuttosto che alla fine. Al centro dei problemi ci sono le difficoltà di transizione verso il sistema di tassazione duale, considerato come il modello ideale cui tendere.

Ricordiamo che il sistema duale, indicato come principio razionalizzatore, prevede la tassazione con un una sola aliquota di tutti i redditi di capitale, mentre i redditi da lavoro (nonché le pensioni) sarebbero sottoposti a progressività.

Più avanti ci chiederemo se la tassazione duale sia davvero un modello; per ora ci concentriamo sulla ragione principale che perturba il cammino della delega. Si tratta del fatto che sia per quanto riguarda i redditi da capitale, sia per quanto riguarda i redditi da lavoro, l’attuazione del sistema duale implica dei ritocchi in aumento di alcune aliquote. E, come noto, tutta la destra dello schieramento politico considera anatema qualunque aumento delle imposte e ne fa un punto fondamentale, ad un anno dalle elezioni, della propria linea politica.

Il casus belli è costituito da un emendamento del governo che prevede la fissazione, in una fase transitoria di due aliquote di tassazione proporzionale, per i redditi derivanti dall’impiego del capitale, anche nel mercato immobiliare. L’emendamento non specifica il valore delle due aliquote, ma si è ipotizzato che possano essere del 26%, che già si applica ai redditi da attività finanziarie, e del 15%. Quest’ultima si applicherebbe, ad esempio, ai titoli di Stato, comportando aumento rispetto alla vigente aliquota del 12,5%. Del resto per giungere ad una sola aliquota appare necessario ritoccare quelle esistenti per avvicinarle tra loro (peraltro l’aliquota del 26% non è la massima, come si vedrà più avanti).

Il vice-presidente della Commissione Finanze Alberto Gusmeroli (la Repubblica 8-4) ha, al proposito, affermato (su la Repubblica dell’8 aprile scorso) che “se la signora Maria mette 5 mila euro in BOT e la tassa sul rendimento sale dal 12,5% attuale al 15%, perderà un sacco di soldi”. Il concetto di “sacco di soldi” presenta qualche vaghezza, dato che al momento non i BOT, che hanno rendimenti negativi, ma i BTP a più lunga scadenza (30 anni) hanno rendimenti del 2,5%. La perdita della signora Maria si aggirerebbe sui 3 euro all’anno. Ma il punto, evidentemente è che si tratterebbe pur sempre di un aumento di imposte. Peraltro, è strano che all’on. Gusmeroli sia sfuggito un problema ben più rilevante, costituito dalla tassazione dei redditi obbligazionari in presenza di inflazione. Questo aspetto, che costituisce un serio problema per un sistema “compiutamente duale”, non può essere affrontato qui,ma sarà oggetto di un prossimo articolo.

Per quanto riguarda poi i redditi da fabbricati al momento i proprietari si possono avvalere di due aliquote, 21 o 10 per cento, con riferimento agli affitti residenziali. Per i non residenziali l’affitto entra in Irpef. Le due aliquote dovrebbero quindi applicarsi in una prima fase a tutti gli affitti; plausibilmente al 26%, mentre l’aliquota degli appartamenti che usufruiscono del 10% salirebbe al 15%, ammesso e non concesso che sia questa l’aliquota ridotta. In quest’ultimo caso all’opposizione di destra potrebbe aggiungersi un’opposizione di sinistra, dato che l’aliquota al 10% si riferisce all’edilizia convenzionata, il cui obiettivo è di offrire appartamenti a famiglie a basso reddito.

BOT e edilizia convenzionata sono quindi temi caldi che si aggiungono a quello già scottante della revisione dei valori catastali, sui quali il governo non ha presentato nessuna modifica ma che era già stato oggetto di una intransigente opposizione al grido di “la casa non si tocca”. Sembra proprio che il cammino verso un’unica aliquota per tutti i redditi da capitale sia piuttosto impervio.

2. Passando ai redditi da lavoro, il criterio di base del sistema duale prevede che essi siano tassati con un sistema progressivo, come quello della nostra Irpef. Si pone quindi il problema del regime forfettario vigente per le partite Iva. I contribuenti in questione, se hanno ricavi entro i 65.000 euro, possono optare per un’imposizione cedolare del 15%. Il reddito imponibile sarebbe determinato applicando una percentuale sui ricavi la cui entità dipende dal settore di attività (codici ATECO) e varia dal 40% del commercio all’87% dell’edilizia. L’opzione forfettaria implica però la rinunzia alle deduzioni e detrazioni; l’unica deduzione possibile rimane quella relativa ai contributi previdenziali. E’ chiaro che in questo modo si mina una essenziale caratteristica del sistema duale, cioè l’applicazione di aliquote progressive ai redditi da lavoro. Si considerino ad esempio le modifiche introdotte dall’ultima legge di bilancio: con tali modifiche attualmente un contribuente autonomo, che non abbia nessuna detrazione, oltre quella per tipologia di reddito, è sottoposto ad un’aliquota del 15% se il suo reddito imponibile Irpef è pari a 13.000 euro. Ora, vi sono molti lavoratori autonomi con ricavi inferiori ai 65.000 euro (che quindi possono optare per il forfettario) ma con un un reddito imponibile maggiore di 13.000; per costoro la scelta del forfettario sarà conveniente (sempre che non abbiano rilevanti detrazioni alle quali dovrebbero rinunziare).

Tutti questi contribuenti stanno già uscendo e continueranno ad uscire dall’Irpef, in contrasto con l’indicazione principale del sistema duale, pur essendo i loro redditi principalmente redditi da lavoro; di conseguenza l’obbiettivo di un intervento in materia dovrebbe essere quello di superare il sistema forfettario, attraverso la riduzione graduale del tetto massimo di ricavi. Si potrebbe così riportare il regime forfettario alla sua funzione originaria, cioè di agevolazione dell’avvio di un’attività d’impresa o di una professione.

Sembra invece che in Commissione Finanze il tema all’attenzione del governo sia come attenuare l’effetto negativo che un basso tetto massimo de i ricavi potrebbe avere sull’evasione o sulla rinunzia all’espansione dell’attività. Ovviamente l’ipotesi più gradita allo schieramento di destra (in particolare alla Lega) sarebbe l’innalzamento del tetto, per esempio a 100.000 euro. Il governo pensa invece a una misura più contenuta, e cioè quella per cui chi supera i 65mila euro, dovrebbe avere altri due anni di imposte agevolate prima di entrare nel regime di tassazione ordinaria; una sorta di scivolo, per così dire.

In questo modo però il regime forfettario sembra consolidarsi, allontanando l’obiettivo di un compiuto sistema duale. Sarebbe tra l’altro difficile riassorbire anche altri trattamenti agevolativi di redditi percepiti fuori dall’Irpef per i lavoratori dipendenti. Lo scivolo potrebbe invece essere una misura plausibile nel caso di progressiva riduzione del tetto massimo di 65.000.

3. Sembra dunque che la via di una “progressiva e tendenziale evoluzione del sistema verso un modello compiutamente duale” incontri seri inciampi. Ma è il momento di chiedersi perché un sistema di questo tipo sia da considerarsi come il modello ideale verso il quale tendere. E’ noto come quel sistema rimandi all’esperienza dei paesi scandinavi, iniziata una trentina di anni fa. Nella sua forma pura i redditi da capitale dovrebbero essere tassati con l’aliquota del primo scaglione dell’imposta progressiva, mentre le aliquote (più alte) degli altri scaglioni dovrebbero applicarsi al solo reddito da lavoro.

Il principale obiettivo del sistema duale è ridurre i disincentivi dei possessori di patrimoni; in particolare dei proprietari di imprese che ricevono una parte rilevante dei loro redditi dagli utili societari. Spostando la residenza in un altro paese essi possono ridurre il prelievo dovuto alla progressività, limitando quest’ultima al reddito derivante dalla loro attività (quando la effettuano) nell’impresa, che rimane dove si trova, con esclusione di dividendi e capital gain.

Si tratta insomma di una ovvia reazione alla concorrenza fiscale in un sistema di libero movimento dei capitali. Un’ulteriore ragione è poi costituita dalla doppia tassazione del risparmio, tema che risale addirittura a John Stuart Mill: il risparmio derivante da redditi da lavoro viene colpito due volte dall’imposta. Mentre il filosofo inglese usava questa argomentazione per sostenere che i salari andavano tassati di meno, gli economisti scandinavi hanno usato l’argomento in senso opposto. Va ricordato che l’idea di una discriminazione a favore dei redditi da lavoro era presente nella riforma fiscale degli anni settanta, concepita da Cesare Cosciani; il quale avrebbe voluto un’imposta sui valori patrimoniali, mentre Bruno Visentini fece prevalere l’idea di un’imposta sui redditi patrimoniali, l’Ilor.

Va detto che un sistema duale puro, nella forma descritta, non si è realizzato in nessuno dei paesi nordici. Ad esempio, secondo l’OECD, lo scarto tra l’aliquota marginale sul reddito da capitale e quella massima sul reddito da lavoro è molto diverso tra i vari paesi. Anche per quanto riguarda la doppia tassazione dei dividendi i paesi scandinavi hanno compiuto scelte diverse. Si è verificato peraltro un peggioramento nella distribuzione dei redditi, dato che la concentrazione dei redditi da capitale, ed in particolare dei redditi finanziari, è molto accentuata (S. Bastani e D. Waldenstrom, “How should Capital Be Taxed? Theory and Evidence from Sweden”, JZA DP, April 2018).

E’ plausibile pensare che la scelta del governo a favore del sistema duale sia dovuta al fatto che costituirebbe una razionalizzazione di una situazione di fatto che vede la quasi totalità dei redditi da patrimonio esclusi dall’Irpef, e sottoposti ad aliquote che vanno da zero (reddito della casa di residenza) al 46,6% sui dividendi societari ricevuti da persone fisiche, un livello superiore alla massima aliquota marginale Irpef (43%); quest’ultima si applica agli affitti di immobili non residenziali, come ricordato. Per inciso se l’imposta su questi redditi dovesse scendere di una ventina di punti avremmo una diminuzione significativa del peso fiscale sul top dei redditieri, dove già si verifica una flessione si veda un recente studio di LEM (Guzzardi, E. Palagi, A. Roventini e A. Santoro, “Reconstructing Income Inequality in Italy”, Scuola Superiore Sant’Anna, 2022/06, febbraio).

Tuttavia riportare ad una sola aliquota tutti i redditi immobiliari e finanziari rischia di costituire, per Draghi e Franco, un lavoro di Sisifo, come si può comprendere da quanto si è detto in queste note. In ogni caso i problemi con cui deve misurarsi la delega fiscale sono anche altri, e su di essi torneremo con un prossimo contributo.

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