ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 175/2022

4 Luglio 2022

Non è un paese per donne

Enrico D’Elia richiama l’attenzione sulla possibilità che a frenare l’occupazione femminile sia anche, e in vario modo, la struttura produttiva del nostro paese per cui intervenire soltanto sul welfare potrebbe essere insufficiente per espandere quell’occupazione.

In Italia, la partecipazione femminile al mercato del lavoro è notoriamente tra le più basse d’Europa. Nel 2019, prima della pandemia di Covid, solo il 42,6% degli occupati era costituita da donne, contro una media del 46,4% dell’Eurozona e la percentuale di lavoratrici sulla popolazione attiva femminile era di appena il 56,5%, a fronte del 68,7% dell’Eurozona. Per i colleghi maschi, la corrispondente quota era del 74,9% contro il 78,6% europeo. Sono state fornite numerose spiegazioni per questa anomalia italiana: dall’eccessivo peso del lavoro di cura, lasciato quasi esclusivamente sulle spalle delle donne, fino ad una vera e propria discriminazione da parte delle imprese.

C’è tuttavia una ipotesi, ancora poco approfondita, che spiega la bassa occupazione femminile con una struttura produttiva sbilanciata a favore di comparti dove il lavoro delle donne è meno richiesto per motivi tecnici o organizzativi in tutti i paesi, anche quelli più virtuosi dal punto di vista della parità di genere e del welfare. Nei paesi meno avanzati sarebbe dunque carente la domanda di lavoratrici, piuttosto che l’offerta. Questa congettura sembra avvalorata da una analisi sulla distribuzione dell’occupazione per sesso e settore di attività nei maggiori paesi per i quali l’Eurostat fornisce una disaggregazione dell’occupazione per sesso e per gruppo NACE (Danimarca, Germania, Spagna, Francia, Italia, Olanda, Finlandia, Norvegia, Svezia e Regno Unito).

I dati disponibili, provenienti dall’indagine sule forze di lavoro si riferiscono al numero di persone occupate, senza standardizzarle distinguendo tra le posizioni part-time e a tempo pieno. Ciò potrebbe portare ad una sovrastima del contributo delle lavoratrici, che ricorrono ad un orario ridotto più spesso degli uomini. Per avere dati sulle unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (ULA) di uomini e donne sarà probabilmente necessario attendere un bilancio di genere anche per gli aggregati dei conti nazionali.

Nonostante questi caveat, la quota di occupazione femminile all’interno di ciascun comparto (riportata nella Fig. 1) sembra abbastanza omogenea tra i diversi paesi, con un minimo nelle costruzioni e nelle miniere ed un massimo nella formazione, nella salute e servizi sociali ed in quelli alla persona. Resta piuttosto eterogeneo solo il comparto residuale (OTH nel grafico) che comprende i sevizi domestici, le organizzazioni internazionali, i lavoratori non classificati, ecc. Pertanto, in tutti i paesi, i settori produttivi possono essere ordinati in base alla diversa propensione ad assorbire personale femminile.

Figura 1: Variabilità delle quote di occupazione femminile per settore in Europa

Fonte: elaborazioni su dati Eurostat

Ciò fa pensare che la composizione settoriale dell’economia eserciti una influenza sulla distribuzione dell’occupazione per sesso che può essere addirittura superiore a quella del contesto culturale e dei sistemi di welfare nazionali. Alcuni comparti, infatti, sembrano adottare tecnologie e modelli organizzativi tali da favorire il lavoro delle donne, mentre altri incontrano difficoltà oggettive (come le miniere e l’edilizia) o sono meno propensi a farlo (come l’agricoltura, la gestione di acqua, energia elettrica e rifiuti, la logistica, la manifattura). A sorpresa, in tutta Europa le donne sono ancora relativamente poco richieste nella ITC, dove la tecnologia non richiede una particolare forza fisica o turni gravosi.

Ad aggravare la posizione dell’Italia c’è il fatto che, in quasi la metà dei settori, la componente femminile è tra le più basse dei 9 paesi considerati. Ciò vale soprattutto per i comparti che impiegano meno donne anche negli altri paesi. In Italia sembrerebbe dunque esserci anche un ritardo nell’adozione di tecnologie e modelli organizzativi favorevoli alle lavoratrici all’interno dei singoli comparti.

È difficile stabilire se siano stati un diverso orientamento culturale o un eccesso di offerta di lavoro femminile a favorire lo sviluppo proprio di quei settori e quei modelli organizzativi che consentono di assorbire più lavoratrici, oppure il contrario. Sarebbe necessaria un’analisi causale, condotta anche attraverso modelli dinamici, per avere qualche indicazione su questo aspetto. Tuttavia il fenomeno è troppo omogeneo tra i diversi paesi per ipotizzare che alcuni comparti si siano dovuti adattare alla carenza di lavoratori di sesso maschile, oppure che le pressioni sociali abbiano influito ovunque proprio sugli stessi settori produttivi. È dunque probabile che la particolare distribuzione settoriale delle imprese italiane, oltre ad essere responsabile di numerose altre difficoltà del nostro sistema produttivo, abbia un ruolo rilevante anche nel limitare l’accesso delle donne al mondo del lavoro.

Tra i dieci paesi esaminati, la presenza femminile è maggiore nelle attività immobiliari, nel settore dell’istruzione, nella pubblica amministrazione e nella salute. La correlazione tra il profilo delle quote rosa complessivo per paese con quello specifico di queste attività va infatti da 0,51 a 0,41. Al contrario, i settori meno favorevoli per le donne lavoratrici sembrano l’agricoltura (con una correlazione di -0,36), i servizi vari (-0,42), i servizi alle imprese (-0.42) e la gestione di acqua e rifiuti (-0,43). L’Italia sembra penalizzata da una distribuzione della forza lavoro che, rispetto agli altri grandi paesi europei, risulta sbilanciata proprio verso questi ultimi comparti.

Un esercizio controfattuale rafforza questa congettura. Supponiamo che, all’interno di ciascun comparto, la percentuale di lavoratrice resti quella registrata in Italia, che risente ovviamente dei pregiudizi, della carenza di servizi sociali, di una organizzazione aziendale arretrata, ecc. e immaginiamo di poter cambiare la composizione settoriale dell’economia italiana. Il risultato di questa riponderazione sul valore della quota complessiva di lavoratrici nell’economia è riportato nell’ultima riga della Tab.1 ed evidenzia che il nostro svantaggio verrebbe ridotto più o meno significativamente adottando la struttura produttiva di qualsiasi paese, esclusa la Germania.

Tabella 1: Distribuzione delle lavoratrici per settore

Fonte: elaborazioni su dati Eurostat

a) I dati sono stati ottenuti ponderando le percentuali di lavoratrici per settore in Italia, riportate nell’ultima colonna con la quota dei gruppi NACE dei paesi indicati in colonna

A conferma del ruolo sfavorevole giocato dalla particolare composizione settoriale della nostra economia, anche paesi con una elevatissima quota di donne sul totale dei lavoratori perderebbero il loro primato adottando un modello produttivo simile a quello italiano. Ad esempio l’insieme della Zona Euro vedrebbe ridursi la proporzione di lavoratrici dal 46,4% al 43,4%; la Germania perderebbe 4,5 punti; la Francia quasi 4 e tutti gli altri paesi tra 1,3 e 2,5 punti.

In base alla simulazione riportata nella Tab. 1 e all’ammontare dell’occupazione femminile italiana nel 2019 (9,7 milioni di lavoratrici circa), una evoluzione della nostra economia verso i modelli europei di maggior successo determinerebbe un aumento dell’occupazione femminile che va da 63 mila unità (in base alla struttura della Spagna) fino 710 mila unità (avvicinandoci al modello olandese). Convergendo verso la media dell’Eurozona il guadagno sfiorerebbe le 80 mila unità. In termini di partecipazione al mercato del lavoro, questi incrementi teorici si tradurrebbero in un aumento del tasso di occupazione femminile pari circa 7 punti nel caso migliore (con un ritardo rispetto all’Europa più che dimezzato) e di circa un punto adottando la struttura europea (con una riduzione di un dodicesimo del gap corrente).

Contro un’elevata partecipazione femminile al mercato del lavoro gioca anche la distribuzione dell’occupazione italiana per mansioni. In base ai dati Eurostat relativi al 2019, l’Italia si caratterizza infatti per una prevalenza di mansioni più gravose (come i lavori agricoli, l’artigianato e il lavoro da operaio di linea) e quindi presumibilmente meno adatte alle donne. La variabilità della percentuale di lavoratrici tra i paesi esaminati risulta abbastanza limitata all’interno di ciascun gruppo professionale ISCO, mentre cresce all’aumentare della complessità dei ruoli ricoperti. Anche in questo caso, per le donne rivestire un particolare ruolo professionale sembra contare di più che vivere in un determinato paese, con il suo welfare e la sua cultura. Come se non bastasse, la partecipazione femminile italiana è tra le più basse in almeno la metà dei profili professionali, particolarmente tra i manager, i professionisti e tecnici, le mansioni più semplici e gli addetti alle vendite.

Figura 2: Variabilità delle quote di occupazione femminile per mansione in Europa

Fonte: elaborazioni su dati Eurostat

Come si vede dall’ultima riga della Tab. 2, se in Italia la distribuzione delle professioni all’interno delle imprese fosse quella dell’Eurozona la quota di lavoratrici salirebbe a 42,9%, mentre guadagni significativi si registrerebbero se la distribuzione fosse quella danese e olandese (3,2 punti in più), o inglese (2,5 punti). Solo l’adozione del modello francese porterebbe ad una ulteriore diminuzione della quota di lavoratrici (-0,4 punti).

Tabella 2: Distribuzione delle lavoratrici per mansioneFonte: elaborazioni su dati Eurostat

  • I dati sono stati ottenuti ponderando le percentuali di lavoratrici per mansione in Italia, riportate nell’ultima colonna, con la quota dei gruppi ISCO dei paesi indicati in colonna.

Le informazioni disponibili sull’occupazione femminile distinta per dimensione delle imprese non sono particolarmente complete ed affidabili, anche perché derivano soprattutto dalle auto-dichiarazioni dei lavoratori. In particolare, l’Eurostat non pubblica i dati per le imprese al di sotto i 10 addetti, che costituiscono invece una parte rilevante e caratteristica della nostra economia. Tuttavia si può immaginare che nelle unità produttive più piccole le donne incontrino maggiori difficoltà a conciliare lavoro e impegni familiari e, dal loro canto, gli imprenditori richiedano maggiore flessibilità oraria, visto l’organico ristretto. Ciò crea un ambiente sfavorevole per le lavoratrici, che si riflette presumibilmente in quote di occupate più basse a parità di settore produttivo. Poiché la nostra percentuale di piccolissime imprese è tra le più elevate d’Europa, è probabile che anche questo fattore influisca negativamente sul dato medio della partecipazione femminile.

L’effetto della struttura settoriale, organizzativa e dimensionale delle nostre imprese si somma alle note carenze di servizi di cura e di assistenza che spinge molte di loro a non cercare nemmeno una occupazione. Tuttavia tentare di rimuovere solo questi ultimi ostacoli, senza incidere sulla struttura produttiva, potrebbe dare risultati deludenti, se non controproducenti. Le evidenze presentate in questo articolo suggeriscono infatti che c’è una significativa carenza di domanda dietro la scarsa partecipazione delle italiane al mercato del lavoro. Quindi agire soprattutto sull’offerta, incentivando la ricerca di un lavoro da parte delle donne, eventualmente per integrare il reddito familiare, rischia di far aumentare il numero delle disoccupate più che quello delle occupate, con un travaso puramente statistico dalla condizione di “non attiva” a quello di “persona in cerca di lavoro”.

Migliorando i servizi sociali si possono probabilmente spingere più donne ad entrare sul mercato del lavoro, ma non è detto che ci siano altrettante imprese pronte ad assumerle senza un cambiamento dell’organizzazione interna, delle tecnologie e dei prodotti. È difficile, infatti, che cambi significativamente la domanda di lavoro femminile se le imprese continuano ad operare in settori e segmenti dimensionali che in tutta Europa offrono posizioni ritenute, a torto o a ragione, più adatte agli uomini. Per altro, in alcuni profili (particolarmente quelli molto elevati o, all’opposto, più elementari) ci sono ampi margini di miglioramento nella presenza femminile. Asili e servizi di cura accessibili rischierebbero dunque di rimanere sottoutilizzati se le imprese non saranno aiutate ad evolvere verso modelli più adatti ad accogliere le lavoratrici.

In attesa di una modernizzazione dell’industria italiana, che richiede tempi molto lunghi, sarebbe indispensabile rimuovere i pregiudizi culturali che alcuni datori italiani hanno nei confronti delle donne. Per ottenere questo risultato sono utili le tecniche di ingegneria sociale che puntano sull’immagine delle imprese, come l’obbligo di redigere un bilancio di genere e di indicare in etichetta il contributo femminile alla produzione. Al contrario, un eccessivo ricorso ad incentivi fiscali a favore delle lavoratrici rischia di trasformarli in aiuti permanenti che finiscono per trasferire le discriminazioni su altri soggetti deboli del mercato del lavoro, come i disoccupati di lunga durata, gli anziani, gli immigrati, i soggetti svantaggiati, ecc.

L’inclusione nel Pil del lavoro domestico e di cura, in discussione anche in sede ONU, potrebbe cambiare radicalmente le statistiche sulla partecipazione delle donne in economia, dando la giusta dignità al tempo dedicato a compiti essenziali anche ai fini della misura del benessere sociale complessivo. Tuttavia è improbabile che il lavoro non retribuito possa mai sostituire quello ordinario ai fini del rafforzamento del ruolo delle donne nell’economia e nella società.

*L’articolo riporta esclusivamente le opinioni dell’autore e non coinvolge assolutamente le organizzazioni con cui collabora.

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