ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 194/2023

31 Maggio 2023

Non-nascite, che fare: tre prospettive allargate

Giuseppe A. Micheli ricorda che la sospensione delle scelte procreative ha ormai 50 anni e ritiene che gli interventi, invocati da molti, “strutturali, sistemici, concreti e integrati” di sostegno materiale alle giovani coppie e di riequilibri, ancorché necessari perché i diritti al lavoro e alla salute, a un reddito base e a servizi di conciliazione casa-lavoro sono imprescindibili per l’equità sociale, non risolleveranno le nascite. Per questo, sostiene Micheli, occorre alzare il tiro e indica tre prospettive distinte da esplorare.

Non è (solo) questione di soldi. La prospettiva condivisa da tutti è quella di un ridisegno dei sistemi solidaristici non più solo basato sulla reciprocità tra generazioni (cifra costitutiva della “famiglia forte”) ma su un affidabile soggetto pubblico centrale, che supporti la popolazione nei suoi momenti di fragilità. In Italia una prospettiva di welfare ha impiegato tempo ad affermarsi, per poi prender forma con le grandi riforme universalistiche degli anni Sessanta e Settanta sul sistema sanitario, su quello previdenziale e in parallelo sul diritto di famiglia. Sono gli anni, non a caso, della grande onda delle nascite. Un’onda che non era spiegabile – in tempi di emergente benessere – con la logica rational choice, del calcolo ragionieristico dei costi e dei benefici. Quel sistema di garanzie e di nuovi diritti, disegnato allora, oggi mostra la corda, sfilacciato dall’esplodere della popolazione longeva, dal cambiamento dei soggetti che si affacciano sul mercato del lavoro (le donne a sostituire il lavoro giovanile), dalla riorganizzazione dei bilanci familiari intorno a più di una fonte di reddito, e dall’inaridirsi delle nascite. 

L’aforisma tante volte citato recita: dai un canestro di pesci a un uomo affamato e lo nutrirai per un giorno, ma poi avrà di nuovo fame; insegnagli a pescare – o mettilo in condizione di farlo – e lo nutrirai per tutta la vita. Viene un certo senso di stanchezza a sentir riproporre interventi orientati al sostegno monetario, mediante una panoplia di bonus o interventi di defiscalizzazione. Che se sono contenuti (come il bilancio pubblico consente) sono scarsamente efficaci, e che non aiutano un’equa redistribuzione sociale delle risorse. Non è solo una questione di soldi, insomma. Occorre puntare su un sostegno materiale non cash ma in kind, attivando e facendo funzionare a regime reti di servizi di rammendo delle azioni di accudimento richieste oggi alle coppie che “decidano” di avere un figlio. È il caso del tempo pieno alle primarie e alle scuole materne (quale occasione migliore, per tornare ad attuarlo sistematicamente, della riduzione delle nuove coorti che fanno ingresso nel sistema scolastico!), o dei nidi in cantierea Sud come a Nord, per rafforzare la crescita cognitiva e affettiva dei piccoli in un’età cruciale per il buon esito del loro futuro. 

Il medium è il messaggio. Il rammendo dei tempi strappati delle famiglie tra lavoro e casa è fondamentale. Ma non copre dalle ansie che la scelta di un figlio inevitabilmente solleva tra le/i giovani potenziali genitori. Avere un figlio è sempre una scelta dai benefici incerti e dai certissimi costi, che assicura alle giovani coppie l’esposizione a una fisiologica precarietà in una fase del loro corso di vita, senza dare alcuna rassicurazione che, tenendo il proprio destino nelle proprie mani, si possa uscire da quella fase. Da generazioni le coppie italiane sanno di essere totalmente indifese di fronte alle sopraffazioni di parte, ai privilegi di appartenenza che segnano il risiko di una normale vita quotidiana priva di regole del gioco. Le società sudeuropee (la nostra in primis, senza significative differenze tra Sud e Nord) sono talmente intrise di un ethos dell’appartenenza (che alligna ovunque, beninteso, dai fiordi norvegesi alle lande britanniche, ma che in alcune parti del mondo diventa criterio dittatore) da indurre unpresidente del Consiglio, nel discorso di insediamento del suo governo, a denunciare l’intatto groviglio di “corruzione, stupidità, interessi costituiti” che ingabbiano le nostre vite. Queste non metaforiche “mani sulla città” han congelato la crescita della nostra democrazia negli anni Settanta e Ottanta, dopo la stagione delle grandi riforme e dopo le attese e speranze suscitate. 

Cinquant’anni di immobilismo, di proclami e imbellettamenti sostitutivi di politiche di equità sociale hanno modificato gli umori delle generazioni via via susseguitesi, sempre in attesa di trovare un qualche giudice a Berlino che invitasse al rispetto delle regole del gioco nel mondo del lavoro e della vita pubblica. Una generazione dopo l’altra questo ethos dell’appartenenza (familiare, di genere, di ceto sociale, di schieramento) ha azzerato nelle persone ogni illusione di essere “padroni del proprio destino”, producendo un’abulia rassegnata e un disincanto nelle relazioni. E scoramento e disincanto hanno un effetto indirettoma pesante sulle non-nascite. 

Un figlio è un rischio incalcolabile. “Torniamo ai giorni del rischio” scriveva Turoldo: “torniamo a sperare / come primavera torna ogni anno a fiorire. / E i bimbi nascano ancora”. Ma come è possibile accettare di esporsi al rischio se le regole del gioco sono sistematicamente falsate? Come è possibile credere a rassicurazioni di fair play da parte di una classe politica che si rivela nuda come l’imperatore? La crisi del clima fiduciario nel Paese rispecchia la scarsa credibilità del soggetto pubblico che dà le carte. Perché mai rispondere elasticamente agli annunzi di una classe politica che si dichiara a parole interessata a veder tornare a fiorire le nascite? Massimo Livi Bacci (Manifesto, 11/5) sottolinea come più che la scelta della ricetta conti la credibilità di chi la propone: “Ciò che conta è che le buone pratiche siano stabili nel tempo, non ballerine, e che siano condivise. Le coppie devono poterci contare nel lungo periodo”. Il medium è il messaggio.

La seconda prospettiva con cui “piantare un albero” per tornare a far fiorire il deserto delle nascite è allora quella della ricostituzione di regole corrette del gioco. In tutti i campi e in tutti i contesti: dal mercato alla pubblica amministrazione, dalle università alle rappresentanze sindacali a un sistema dei partiti con gli occhi rivolti alla propria sopravvivenza. Il celebre invito (di’ qualcosa di sinistra) rivolto a un leader di partito credo possa esser letto anche in questa direzione. 

Certo, il groviglio di corruzione, stupidità, interessi costituiti è straordinariamente solido perché imprigiona tutti nella trappola di una sorta di dividendo dell’appartenenza. È parte della natura umana la tentazione di fruire dei vantaggi di una qualche appartenenza. Il groviglio che ci circonda preclude ogni orizzonte, ma dentro i benefici elargiti siamo tutti fino al colloA questo ethos possiamo addossare una parte rilevante del collasso dei climi fiduciari tra uomo e uomo, tra uomo e donna, e nella proiezione verso il futuro. Disinnescare il collasso richiede di spezzare un patto di reciproca collusione che ogni italiano firma con gli altri. Se qualcuno dotato di credibilità inscrivesse nel proprio programma politico un trasparente contrasto a quel groviglio di appartenenze (ancora una volta, il medium è il messaggio) e accanto al sostegno materiale i giovani percepissero anche (non in alternativa, ma anche) segnali trasparenti di riscrittura delle regole del gioco, non nascerebbero certo bambini a frotte ma l’umore collettivo si aprirebbe con più fiducia al futuro. E le nascite forse, come l’intendenza, seguirebbero. 

Coltivare il senso di cura maschile. Una terza prospettiva sul da farsi non trova ancora attenzione, ma sarebbe buona cosa tenerla presente. Nell’epoca delle riforme universalistiche degli anni Sessanta e Settanta, quando gli equilibri premoderni di ruolo si sono divaricati, ha iniziato a prender forma un radicale cambiamento nei ruoli di genere, con una rivendicazione di autonomia e autodeterminazione della donna sia nella sfe­ra pubblica e del lavoro, che in quella della sessualità e della pro­creazione. La categoria di “doppia presenza” è stata il punto di sintesi di una raggiunta consapevolezza dell’aspirazione a un tempo ambivalente, un tempo sia dell’affet­tività e della cura che del lavoro e della vita pubblica. Ma quella spinta emancipatrice dei primi anni Settanta non coinvolse i protagonisti maschili di quella stagione, anzi. A una resistenza per inerzia degli stereotipi maschili si accompagnò l’emersione di una violenza fisica che simbolicamente bloccò la messa in discussione dell’ordine patriar­cale. In quegli anni, scrive Albinati nel suo La scuola cattolica, “la pretesa di in­dipendenza delle donne veniva vissuta come un’incrinatura delle basi sociali, contro cui andavano presi immediati e non dilaziona­bili provvedimenti”. Nel sentire collettivo circolavano, irriferibili, umori solidali con chi si fosse assunto il “lavoro sporco” (tale fu il delitto del Circeo) per consentire a ogni componente ma­schile della società di continuare a fruire di quel dividen­do patriarcale. Un paradosso intrappola la maturazione della società civile: «se vuoi essere accettato da una società patriarcale ti comporterai da maschio anche se non ne tolleri i codici; se li rifiuti sarai emarginato perché “un maschio a metà”, e anche questo è intollerabile» (ripartiamo, per favore, dalle pagine visionarie di bell hooks). 

Troviamo una traccia dell’incombere di questo paradosso nel rapporto di ricerca di Giampiero Dalla Zuanna e Daniele Vignoli sugli slittamenti nella cultura sessuale e affettiva dei millennials universitari tra 2000 e 2017. È ragionevole ritenere che un indebolimento del meccanismo di “doppio standard” sessuale (quando cioè i/le giovani esprimono giudizi diversi su uno stesso comportamento sessuale a seconda che ci si riferisca all’uno o l’altro genere) vada preso come un segnale di modernizzazione. Eppure qualcosa, nella percezione dell’omosessualità da parte dei giovani maschi, non va in questa direzione: cresce infatti – e non poco – la presa di distanza dalla omosessualità del proprio genere. In altre parole: oggi più di ieri un ragazzo fatica a dismettere i codici di sopraffazione maschili, perché farlo si trascinerebbe dietro una perdita della propria immagine condivisa nel gruppo dei pari. Questo blocco paralizzante impedisce l’acquisizione da parte dei giovani maschi del know how di un ventaglio ampio e maturo di codici affettivi. 

Le nascite potranno forse tornare a fiorire (ecco la terza prospettiva) solo quando pariteticamente i partner parteciperanno all’accudimento dei figli, non per costrizione ma per espressione convinta di un differente ma comune istinto di cura. Ma non c’è attenzione a questo snodo cruciale. Parlando del ruolo delle donne (“La rivoluzione incompiuta”, 2011), Gøsta Esping-An­dersen sottolineava la crucialità del ruolo dei comporta­menti maschili, in quanto “una vera rivoluzione deve produrre processi dialettici”. Ma poi riprendeva il racconto del cambiamento in corso solo dal lato degli ostacoli posti alle donne. È invece urgente spostare l’angolo di lettura dando più attenzione ai grumi irrisolti dell’identità maschile. La realizzazione dell’utopia della doppia presenza non può non coinvolgere l’universo maschile, pena il suo fallimento. O tutti quanti o nessuno scandiva – per altre sfide collettive – Mariangela Gualtieri (2020).

Me ne rendo conto. Se l’imbrigliamento delle forzature e sopraffazioni che sono la cifra dell’ethos dell’appartenenza può sembrare una rivoluzione, l’emersione nei giovani maschi del senso di cura può sembrare ancor più impalpabile: una metanoia. Eppure non c’è nulla di velleitario in ciò. John Bowlby intuiva che l’istinto di cura (il “senso materno”) è allo stesso tempo sia un istinto sia uno stato d’animo culturalmente indotto: perciò scatta anche nei padri quando interagiscano col figlio e ne intercettino la fragilità e il bisogno di attaccamento. Il contatto, e la frequentazione dei codici affettivi della fragilità e della tenerezza può aprire al maschio – senza fargli perdere le proprie prerogative maschili – le porte della doppia presenza. 

In fondo in questa direzione va il graduale incremento della condivisione del congedo parentale da parte del partner maschile (più esplicito è il passo compiuto in Spagna, di un congedo parentale maschile retribuito lungo e obbligatorio). Ma già certe “imposte sul tempo” come le proposte visionarie di Ernesto Rossi (1947) o il rapporto Care in society del Secretariat for future studies di Stoccolma (1987), proponendo un servizio civile che instradi i giovani maschi a prendersi cura delle componenti fragili della popolazione, accudendone il corpo, andavano in questa direzione. La pratica della cura ai più fragili genera istinto di accudimento, l’accudimento veicola tenerezza, questa a sua volta può risvegliare il desiderio di un figlio.

La seconda e la terza prospettiva suggeriscono dunque entrambe di intaccare i punti bui dell’ethos, le sabbie mobili in cui affondiamo i nostri piedi: eliminando le pastoie della logica di appartenenza come criterio dittatore, prosciugando la palude di una virilità anaffettiva. Possiamo liquidare tutto ciò come un velleitario vaste programme. Rassegniamoci allora a tenerci questo lento e permanente dissanguamento delle nascite. Ma se questo è il prezzo – viene da dire – lo abbiamo già pagato.

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