ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 178/2022

14 Settembre 2022

Nucleare: si o no? Contro le facili risposte, confrontarsi con la complessità

Barbara Curli osserva che con la crisi climatica e l’aumento dei costi del gas si è tornati a parlare dell’energia nucleare, la fonte a basse emissioni di carbonio più efficiente e a minore impatto ambientale ma anche la più controversa politicamente. Secondo Curli, il dibattito in Italia, che riguarda anche l’individuazione del deposito per le scorie, resta appiattito sulla dicotomia “nucleare si o no” mancando di confrontarsi con le complessità di una società nucleare, forma “estrema” della civiltà industriale, delle sue contraddizioni e delle sue trasformazioni.

L’energia nucleare sembra essere tornata ovunque all’attenzione del discorso pubblico. Le preoccupazioni per l’aumento esponenziale dei prezzi del gas hanno riproposto drammaticamente la questione della diversificazione delle fonti energetiche che rileva, naturalmente, anche per la transizione verso energie a bassa emissione di carbonio necessaria per combattere il cambiamento climatico. Tra queste, il nucleare è la fonte energetica a minore impatto ambientale e con la maggiore efficienza energetica, ma è anche quella politicamente più controversa, caratterizzata da costi elevati e da tempi lunghi e incerti di realizzazione e, in prospettiva, di smantellamento. 

I combattimenti intorno alla centrale ucraina di Zaporizhzhya, occupata dalle forze russe ai primi di marzo, e la missione speciale degli ispettori dell’Aiea, che hanno parlato di “serio rischio” di incidente nucleare, hanno sollevato ancora una volta il tema della sicurezza degli impianti nucleari, che travalica la loro collocazione geografica. Già nei primi giorni di guerra, per la centrale di Chernobyl, oggi inattiva e il cui stesso nome evoca il disastro nucleare, si temette che la discontinuità nell’erogazione di energia potesse mettere a rischio i sistemi di raffreddamento dell’impianto di stoccaggio del combustibile: anche se “spento”, un reattore nucleare continua a costituire un sistema complesso che richiede misure di sicurezza e “saper fare” tecnico e industriale. Un approccio alla questione nucleare secondo la tradizionale e un po’ rozza dicotomia nucleare si/nucleare no, specie se vi si sovrappone quella altrettanto semplificatoria nucleare di destra/rinnovabili di sinistra, sembra pertanto sempre meno ragionevole, se mai lo è stata. 

D’altronde, di fronte all’emergenza climatica e a quella energetica le stesse linee di demarcazione ideologica tendono a rimescolarsi. La presentazione del documentario Nuclear di Oliver Stone alla 79a mostra cinematografica di Venezia ha destato scalpore non tanto per la tesi di fondo, apertamente a favore dell’energia nucleare come unica strada per combattere il cambiamento climatico, quanto perché ad avanzarla è un regista trasgressivo (Nuclear ha ricevuto il premio intitolato a un altro trasgressivo, Mimmo Rotella, e dedicato alla relazione tra i linguaggi del cinema e dell’arte) da sempre impegnato in battaglie civili, dal quale non ci si aspettava evidentemente una simile posizione. 

In Germania, come è noto, è molto diffusa l’avversione verso il nucleare e per uscirne si è puntato sul gas russo a basso costo e sull’aumento dei consumi di carbone. Il 5 settembre il governo tedesco, in cui un Grün anti-nuclearista di lungo corso è ministro dell’Economia, ha annunciato la decisione di mantenere in stand-by due delle tre centrali la cui chiusura era prevista per la fine del 2022 (e che attualmente forniscono il 12 per cento dell’energia nazionale). 

In realtà, questi eventi contingenti che stanno condizionando in modo un po’ nebuloso il dibattito corrente arrivano in una fase di “rinascimento” degli studi sul nucleare, che tentano proprio di superare il discorso semplificatorio guardando a questa forma di energia piuttosto come specchio della complessità tecnologica, economica, politica e culturale, della modernità. Se il nucleare è l’idealtipo di quegli “immaginari socio-tecnici” e “dreamscapes of modernity” (Jasanoff), la questione non può essere ridotta a “nucleare si o no”. Gli storici che studiano la genesi e gli sviluppi della civiltà nucleare si stanno confrontando con altre domande: quali sono i significati e le prospettive del vivere in un mondo nucleare? Che tipo di mano pubblica – quindi di Stato – una società nucleare richiede? Quali culture della crescita e dell’amministrazione pubblica, quale rapporto con l’ambiente, quali saperi industriali e tipi di capitale umano sono coinvolti?

Si tratta di domande che non riguardano solo questa forma di energia, ma vanno al cuore dei grandi temi dello sviluppo, e in qualche modo li esasperano sul piano metodologico. In questo senso, il rinascimento degli studi sul nucleare è stato ispirato sia dai nuovi scenari geopolitici del dopo-Guerra fredda, sia dai cambiamenti in corso da alcuni decenni nella struttura economica, tecnologica e sociale delle società industriali avanzate. Da una parte, in Occidente si sono avviate strategie nazionali di phasing-out e di decommissioning dei vecchi impianti, costruiti tra gli anni Sessanta e Ottanta (oggi nell’Unione Europea ci sono 70 impianti in corso di decommissioning, negli Stati Uniti una trentina), che dovranno comunque essere gestite indipendentemente dalla scelta di continuare o meno sulla strada della produzione di potenza. Tali strategie si possono leggere come un aspetto estremo dei processi di de-industrializzazione in corso (la decontaminazione del territorio, la riconversione del capitale umano, l’abbandono di tecnologie obsolete), mentre la ricerca si rivolge a reattori di nuova generazione, più piccoli (rispetto alle grandi dimensioni delle centrali tradizionali), magari modulari (tali da sviluppare economie di scala), autofertilizzanti (dentro una dimensione anche simbolica di economia circolare) e che nel ridurre sensibilmente il problema delle scorie guardano a un futuro sostenibile. Dall’altra, la “civiltà nucleare” si è spostata verso altre aree del mondo in rapida crescita economica, come l’India (che ha 7 reattori in costruzione, oltre ai 22 già operativi) e come la Cina, dove sono in corso di costruzione 20 reattori (che si aggiungeranno ai 50 già in funzione) e dove qualche mese fa è stato allacciato alla rete il primo reattore dimostrativo di quarta generazione. Anche in questo settore la Cina è ai confini tra vecchio e nuovo. Quella che si sta configurando come una nuova geopolitica dei reattori, delle tecnologie avanzate, del mercato dell’uranio, è quindi anche un indicatore dei percorsi della modernità su scala globale e del futuro della società industriale.

Anche la storia dell’energia nucleare in Italia è la storia di un percorso verso la modernità che pure ci interroga sul suo futuro come società industriale. Vale la pena di ripercorrerla brevemente. L’Italia è stata tra i primi paesi ad avviare programmi di ricerche e sviluppo nel settore nucleare all’inizio degli anni Cinquanta, ad opera di imprese sia private (Edison, Fiat) sia pubbliche (l’Eni di Enrico Mattei, Ansaldo), coordinati da un ente pubblico di ricerca, il Cnrn (Comitato nazionale ricerche nucleari) nel 1960 trasformato in Cnen (Comitato nazionale energia nucleare). L’ingresso dell’Italia nel settore nucleare fu concepito come una prospettiva strategica di diversificazione energetica negli anni del “miracolo” economico, di fronte all’enorme aumento dei consumi e mentre l’energia idroelettrica rappresentava ancora il 65% della produzione di elettricità; e come progetto di politica industriale, volta alla modernizzazione tecnologica dell’industria italiana in un settore di punta. Anche in questo senso va vista la costruzione delle prime tre centrali nucleari italiane (Trino Vercellese, Garigliano e Latina) e di altre iniziative, come il centro di ricerche nucleari di Saluggia, di Fiat e Montecatini, per la produzione biomedica. Tali progetti si avvalsero delle opportunità offerte da programmi di cooperazione internazionale, come quello americano degli “Atomi della pace”, e di collaborazione europea, come Euratom, la Comunità europea dell’energia atomica, nata con il trattato di Roma del 1957, programmi profondamente radicati nelle logiche e nelle dinamiche della Guerra fredda. Come conseguenza di queste prime iniziative, nel 1965 l’Italia era il terzo produttore mondiale di energia elettronucleare, dopo Stati Uniti e Gran Bretagna. Questa prima spinta si esaurì però rapidamente. Il progetto nucleare italiano finì ostaggio di lotte politiche interne negli anni del centro-sinistra, tra partiti e tra correnti del grande partito democristiano. Uno dei temi di scontro fu la nazionalizzazione dell’energia elettrica, che determinò enormi trasformazioni di potere e poteri nell’economia e nella società italiana. L’Enel (Ente nazionale energia elettrica), al quale in seguito alla nazionalizzazione del 1962 fu affidata la gestione delle centrali nucleari e le decisioni sullo sviluppo del settore, in realtà non credette mai veramente alla scelta nucleare e perseguì piuttosto lo sviluppo delle centrali termoelettriche alimentate a olio combustibile, in anni in cui si stava investendo massicciamente nell’industria della raffinazione petrolifera. Certo la concorrenza esercitata dal petrolio (allora fonte a basso costo) svolse un ruolo nell’indirizzare tali decisioni, ma mancò al tempo stesso una visione strategica di diversificazione energetica. Inoltre, il “caso Ippolito” del 1964, che in quelle lotte politiche interne ebbe la sua genesi, fece sprofondare il Cnen in una lunga crisi. L’esito fu che già alla fine degli anni Sessanta il progetto nucleare italiano, che era partito in modo assai dinamico, cominciò a rallentare, e fu costruita una sola altra centrale, quella di Caorso, mentre anzi fu avviata una precoce deindustrializzazione nucleare (già nel 1971 fu chiuso il reattore di Saluggia, che divenne deposito provvisorio di scorie). Se a partire dagli anni Settanta un po’ ovunque in Occidente lo Stato atomico si trasformava anche in virtù di una diversa democratizzazione delle procedure e della regionalizzazione delle scelte di politica energetica, in Italia l’istituzione dell’ente Regione come nuovo soggetto politico-istituzionale, al quale viene tra l’altro attribuita la facoltà di decidere sulla localizzazione degli impianti, diventa un nuovo interlocutore sia dei poteri pubblici locali e nazionali, sia degli organismi incaricati della politica energetica (Enel, Cnen trasformato nel 1982 in Enea, Ente nazionale per la ricerca e lo sviluppo dell’energia nucleare e delle energie alternative, oggi Ente nazionale nuove tecnologie energia e sviluppo sostenibile). Tali dinamiche non testimoniano soltanto il cambiamento negli umori dell’opinione pubblica, molto studiati dal punto di vista dei movimenti ambientalisti e antinucleari. Esse sono anche una lente significativa per guardare a come si trasformano le strutture stesse della crescita economica con il trasformarsi della civiltà industriale, anche a livello locale (ad esempio, il passaggio dai grandi impianti alle piccole produzioni agro-alimentari). 

La diversificazione delle fonti si indirizzò piuttosto verso il gas, il cui consumo crebbe progressivamente nel corso degli anni Ottanta, tanto più dopo il referendum sul nucleare del 1987, tenuto sull’onda emotiva dell’incidente di Chernobyl. Tramandato come una vittoria della democrazia ecologica, il tornante del referendum sanciva in realtà una scelta di politica energetica già da tempo adottata nei fatti e portava a compimento la metanizzazione del paese. L’esito del referendum provocava la chiusura delle quattro centrali in funzione e di una quinta (Montalto di Castro) in via di costruzione e rendeva l’Italia largamente dipendente dal gas russo e algerino. Si trattava di un processo di ridefinizione delle strutture energetiche italiane nel quadro dei grandi cambiamenti allora in corso nell’economia e nelle società europee di fronte alla terza rivoluzione industriale e all’apertura del Mercato unico. Tali trasformazioni accelerarono un mutamento di fondo nella natura della mano pubblica (le privatizzazioni) e si intrecciarono con la crisi dello stesso sistema politico italiano (la cosiddetta prima Repubblica), che di lì a poco sarà travolto dalla caduta del Muro e dalla fine della Guerra fredda, che di quel sistema politico era stata il quadro legittimante.

Da quel momento la questione nucleare è stata rimossa a lungo dal dibattito pubblico, e si è pensato che la ricerca e le attività industriali nel settore si siano fermate come conseguenza della sospensione della produzione di potenza. In realtà, la deindustrializzazione nucleare italiana avviatasi a partire dagli anni Settanta è stata anche una lunga fase di trasformazioni e ristrutturazioni, diversificazione verso partnership internazionali, sviluppo di nuove competenze tecnologiche e ridefinizione del capitale umano nel settore (le iscrizioni universitarie ai corsi di fisica e di ingegneria nucleare hanno continuato ad aumentare). Anzi, oggi il decommissioning (lo smantellamento dei vecchi impianti e il progetto di costruzione di un Deposito nazionale per le scorie nucleari affidati alla Sogin, Società gestione impianti nucleari, creata nel 1999), che è esso stesso un processo industriale, sta sollevando tutta una serie di questioni a lungo rimosse sul rapporto tra scelte tecniche, decisione politica e accettabilità sociale di un’industria a rischio. Ancora una volta, il nucleare è uno specchio della complessità della modernità, che male si presta a semplificazioni e banalizzazioni. 

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