Storico, inadeguato, al di sotto delle aspettative: l’accordo sulle nuove regole in materia di fisco societario annunciato dal G7 Finanze ha suscitato reazioni contrastanti tra gli osservatori che seguono il negoziato OCSE sul ridisegno del sistema di tassazione internazionale d’impresa.
Soffermiamoci sul contenuto dell’accordo, sugli impatti delle misure prospettate e sui tanti nodi che restano ancora da sciogliere, osservando come l’annuncio rappresenti il posizionamento comune che il gruppo dei 7 intende mantenere in sede G20 e all’interno dell’Inclusive Framework dell’OCSE, il vero consesso negoziale che vede oggi la partecipazione di 139 paesi.
Giova ricordare che il negoziato internazionale si muove lungo due direttrici o pilastri. Il primo pilastro affronta le sfide fiscali derivanti dalla digitalizzazione dell’economia e intende rivedere in modo consensuale le regole di allocazione dei profitti delle multinazionali tra diversi paesi e l’identificazione di un appropriato nesso tra la “presenza economica” di una corporation “fisicamente assente” da un paese e il diritto della giurisdizione di mercato (cioè di un Paese diverso da quello di origine della multinazionale che per essa costituisce un ampio mercato) a tassarne i profitti. Il secondo pilastro mira ad assoggettare le grandi corporation a un livello minimo di tassazione effettiva in ciascun paese in cui operano per scoraggiare il profit shifting dalle giurisdizioni a fiscalità societaria medio-alta verso paesi-paradisi per i redditi d’impresa con conseguente riduzione del loro carico fiscale globale.
Una fotografia dettagliata sulla “sostanza negoziale” è cristallizzata nei Blueprint reports pubblicati dal Segretariato OCSE nel mese di ottobre 2020. I report presentavano in modo estensivo i punti di vista convergenti dei paesi sulle soluzioni proposte per entrambi i pilastri, identificando al contempo elementi di policy divisivi e aspetti di natura tecnica e amministrativa su cui le distanze tra i paesi rimanevano marcate. Dalla pubblicazione dei reports lo status quo negoziale è mutato e le prese di posizione unilaterali (come quello statunitense) o di blocchi di paesi (come il G7) stanno imprimendo un’accelerazione che potrebbe portare a un’intesa-quadro nell’imminente vertice del G20 Finanze.
Procediamo per gradi. Per quanto riguarda il primo pilastro il G7 supporta l’allocazione alle giurisdizioni di mercato di un nuovo diritto fiscale pari complessivamente a una percentuale di almeno il 20% dei profitti residuali delle multinazionali più grandi e redditizie (in-scope) considerati tali, in accordo con il Blueprint Report se eccedono il 10% del margine di profitto globale. I profitti sono ricavabili dai bilanci consolidati delle relative capogruppo redatti in conformità con principi contabili internazionalmente accettati. A essere “ceduta” è dunque una quota di profitti eccedenti quelli considerati ordinari, legati all’impiego di un certo capitale e all’assunzione di taluni rischi e riconosciuti de iure alle giurisdizioni di residenza delle grandi multinazionali.
Inoltre, il G7 riconosce il nuovo diritto fiscale alle giurisdizioni di mercato alla condizione, fortemente voluta dagli Stati Uniti, che vengano soppresse tutte le imposte sui servizi digitali (tra cui la web-tax italiana) nonché ogni altra misura con cui alcuni Paesi hanno finora cercato unilateralmente di intercettare fiscalmente i proventi dell’attività economica ‘immateriale’ delle multinazionali nei loro mercati.
Come giudicare questa parte dell’accordo? Il G7 propone di considerare come multinazionali in-scope, passibili di nuove regole, solo quelle che superano un filtro quantitativo definito simultaneamente attraverso soglie di fatturato e redditività globali. La proposta del G7 semplifica notevolmente la definizione esposta nel Blueprint Report che considera in-scope una multinazionale che: i) fornisce specifici servizi digitali automatizzati ovvero le cui attività prevedono un’interazione diretta con i consumatori; ii) supera soglie ad hoc di ricavi globali e di ricavi riconducibili ad attività in scope nelle giurisdizioni di mercato diverse da quella di residenza.
Al guadagno in termini di semplificazione amministrativa e di compliance per multinazionali ed amministrazioni fiscali si contrappongono tuttavia uno scostamento dalla filosofia di fondo del pilastro (tassazione delle attività condotte in modo immateriale) ed il rischio che le nuove regole si applichino solo a pochi soggetti. Di conseguenza potrebbe essere ridotta la redistribuzione di extra-profitti alle giurisdizioni di mercato e limitato l’extra-gettito anche a causa della rimozione delle imposte unilaterali sui servizi digitali. Potrebbero essere un centinaio le multinazionali coinvolte se venissero confermate le esenzioni settoriali (il settore estrattivo, l’industria dei servizi finanziari inter alios) e le indiscrezioni su un filtro che impone il superamento di 20 miliardi di ricavi globali – senza alcuna previsione di una roadmap che ne consenta una graduale riduzione nel tempo – e di un margine di profitto globale superiore al 10%. Quest’ultima scelta appare alquanto discutibile: non tenendo conto di margini di profitto diversificati per business lines, si rischierebbe, per esempio, di lasciare fuori dalle maglie Amazon con un margine di profitto globale del 6,3% nel 2020 (ma del 30% per la sua divisione di cloud computing a fronte di appena il 3% per le attività retail).
Lo statement del G7 non affronta diversi aspetti apparentemente di dettaglio ma di grande rilevanza per molti paesi. Uno di essi riguarda la definizione del “nesso economico”; il Blueprint Report prevede che una giurisdizione di mercato riceva nuovi diritti fiscali qualora i ricavi da specifiche attività di una multinazionale in scope riconducibili a quella giurisdizione superino una soglia prefissata. Il punto cruciale riguarda la definizione della soglia: se questa fosse uniforme (ovvero non differenziata per dimensione economica dei Paesi) ed elevata, le economie più piccole rischierebbero di non ricevere nulla dalla ripartizione.
Inoltre, una volta determinati i profitti da riallocare, come verrebbero ripartiti tra le giurisdizioni di mercato eligible? È verosimile supporre che si farà riferimento alle vendite locali ma il problema cruciale è accertare che le vendite siano state effettuate a clienti/consumatori finali localizzati nella giurisdizione considerata (destination-based revenues).
Il Blueprint report dell’OCSE assegna inoltre un ulteriore taxing right alle giurisdizioni di mercato sotto forma di un rendimento fisso sui profitti riconducibili alle attività di distribuzione e marketing locale di beni e servizi prestate da entità giuridiche di una multinazionale pur “fisicamente assenti” dai paesi-mercato. Il riconoscimento di un simile diritto fiscale resta un punto fermo per molti attori negoziali come il G24, il gruppo intergovernativo delle economie emergenti più influenti che annovera tra i propri ranghi la Cina, il Brasile, l’India e il Sudafrica.
Per quanto concerne il secondo pilastro, il G7 fissa almeno al 15% il livello di tassazione minima effettiva cui assoggettare le grandi multinazionali su base giurisdizionale. In tal modo, una multinazionale residente in uno dei paesi del G7 che versasse un’aliquota effettiva sui redditi delle società inferiore al minimo in qualsiasi altro paese, sarebbe considerata sotto-tassata e il paese G7 di residenza potrebbe applicare un top-up fiscale fino al livello minimo concordato. Questa misura è in grado di disincentivare il profit shifting societario verso paesi come le Bermuda che non assoggettano a prelievo fiscale i redditi d’impresa o come l’Irlanda in cui, grazie a specifici regimi agevolati, i colossi pagano spesso aliquote effettive di imposta irrisorie, di molto inferiori al12,5% dell’aliquota legale dell’imposta sui redditi delle società.
Per fornire un baluardo efficace contro le pratiche elusive è indispensabile che un adeguato numero di paesi, ed in particolare quelli più ricchi, aderiscano alla proposta, per minimizzare il rischio di spostamenti di residenza verso paesi che non sottoscrivessero l’accordo,
Il floor del 15% è stato considerato al di sotto delle aspettative e inadeguato per diverse e valide ragioni. Se l’aliquota minima non venisse incrementata, si rischierebbe di veder trasformata l’attuale corsa al ribasso in materia di fisco societario (che ha visto l’aliquota legale media sui redditi della società – l’IRES italiana – nell’area OCSE decrescere di 9 p.p nel periodo 2000-2020) in una corsa verso il nuovo minimo.
Già all’indomani dell’annuncio del G7 non sono mancati i “primi suggerimenti” di abbassamento delle aliquote legali dell’imposta sui redditi delle società fino al 15% in paesi come la Danimarca o l’Australia. Sarebbe invece auspicabile un minimo più elevato, tra il 21% e il 25%, in linea con il livello di tassazione effettiva media dei redditi d’impresa nell’area OCSE. Il 21% rappresenta tra l’altro l’aliquota a cui l’Amministrazione Biden, dichiara di voler portare, a prescindere dai risvolti negoziali, il proprio regime di tassazione minima per contribuire in modo più robusto al finanziamento dell’ambizioso piano di rilancio economico post-COVID. In termini di extra-gettito, di cui beneficerebbero in maggior misura i paesi di residenza di grandi multinazionali, la scelta conservativa del 15% dovrebbe far riflettere il nostro governo. Secondo le stime del neonato European Tax Observatory, diretto da Gabriel Zucman, in assenza di cambi di residenza, da disincentivare con misure difensive rafforzate, l’aliquota minima effettiva del 15% porterebbe nelle casse dello Stato italiano introiti annui extra per 2,7 miliardi di euro. I corrispondenti valori con aliquote del 21% e del 25% sarebbero, rispettivamente, 7,6 e oltre 11 miliardi di euro.
Lo statement del G7 si concentra sull’aliquota minima, non affrontando il nodo cruciale della definizione della base imponibile da assoggettare a tassazione minima e del calcolo del livello di tassazione effettiva giurisdizionale. Molti membri dell’Inclusive Framework insistono oggi sulla necessità di escludere dall’imponibile i profitti delle multinazionali estere oggi sotto-tassati per effetto di agevolazioni (profondamente discutibili) dirette a attrarre investimenti esteri.
Non è chiaro se il calcolo del livello di tassazione effettiva a livello giurisdizionale sarà effettuato per ciascuna entità del gruppo nel paese (come suggerisce il Blueprint Report dell’OCSE dedicato al secondo pilastro) oppure si procederà a forme di consolidamento locale dei bilanci. Quest’ultima evenienza, avvantaggiando i paesi di residenza delle multinazionali, primi destinatari dell’extra-gettito dagli utili esteri sottotassati, potrebbe comportare la disapplicazione di un meccanismo secondario anti-erosione della base imponibile,, previsto dall’OCSE a tutela dei paesi source nel caso di verifica del livello di tassazione effettiva a livello di singole entità di gruppo.
Non va poi dimenticata la richiesta dei paesi del G24 di vedersi attribuito in via prioritaria un top-up fiscale fino al minimo concordato collegato a specifici pagamenti infragruppo dalle loro giurisdizioni verso giurisdizioni con basse aliquote legali sui redditi delle società. Si tratta di una richiesta perentoria, ma di difficile approvazione dal momento che richiede in primis la disponibilità dei paesi-paradisi a rinegoziare le proprie convenzioni contro le doppie imposizioni.
In conclusione, il posizionamento politico comune del G7, per quanto importante, mostra un livello di ambizione moderato e rischia di avere impatti redistributivi limitati. I nodi negoziali da sciogliere restano ancora tanti come tanti e diversificati sono gli interessi in gioco dei vari paesi. Il Menabò continuerà a seguire e raccontare gli sviluppi di questo storico sforzo multilaterale volto a ridisegnare le regole della fiscalità internazionale d’impresa per il XXI secolo.