ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 189/2023

14 Marzo 2023

Oltre il merito, l’equità: cosa è davvero centrale nell’istruzione

Luciano Benadusi e Orazio Giancola ritengono che il recente dibattito su merito/meritocrazia nell’ambito dell’istruzione affondi le radici in una visione che schiaccia l’idea di merito su quella di risultato e sostengono che senza equità non può esservi merito, poiché le carriere scolastiche e gli apprendimenti sono influenzati da molteplici fattori ascrittivi e contestuali. Inoltre, in una società democratica, la funzione dell’istruzione è principalmente quella di formare cittadini attivi e consapevoli piuttosto che preparare a una selezione competitiva.

Il ritorno sulla scena pubblica e nell’arena politica del termine meritocrazia, si basa su un evidente fraintendimento, se non su una vera e propria manipolazione dell’uso originario del termine. Michael Young introdusse il termine «meritocrazia» in un libro del 1958 (The Rise of Meritocracy, New York, Transaction Publisher United) nel quale si narrava l’ipotetica storia di una comunità dove a seguito di una rivoluzione si era insediato un rigoroso regime di meritocrazia egualitaria che, dopo gli entusiasmi iniziali, aveva provocato profonde tensioni sociali culminate infine nel suo abbattimento. Oltre che per l’esercizio di immaginazione sociologica, il testo di Young è rimasto famoso per la definizione di meritocrazia tuttora più diffusa: merito = talento naturale + sforzo (o impegno). In realtà il principio meritocratico, a differenza del principio aristocratico basato sull’ereditarietà, si presenta intrecciato con una delle possibili declinazioni dell’idea di eguaglianza: le eguali opportunità. Una declinazione che implica l’azzeramento delle disuguaglianze sociali nel passaggio da una generazione all’altra, un riallineamento delle opportunità come presupposto indispensabile per una gara che si giochi unicamente sul merito e grazie a ciò finisca con un’equa produzione, piuttosto che con un’iniqua riproduzione, delle disuguaglianze. Di qui la centralità dell’educazione, vera e propria base della società meritocratica, poiché solo dopo che la scuola ha annullato l’impatto del background socio-familiare sulle competenze (e sulle carriere educative) delle nuove generazioni, queste possono entrare nell’arena delle competizioni meritocratiche – il mercato del lavoro in primis – facendovi valere unicamente risorse personali, che vengono dai più sintetizzate nel binomio talento (naturale) + impegno (o sforzo). Su tale interpretazione si è registrato un consenso molto diffuso nel mondo occidentale, perfino in contesti culturalmente e politicamente distanti. 

Ma accanto a questa declinazione di «meritocrazia» ve ne è però una molto diffusa, più di quanto si possa immaginare e carica di implicazioni per l’equità e la giustizia sociale. È la versione più ingenua della meritocrazia, di tipo esclusivamente procedurale che la avvicina a quella che Rawls, nella sua tipologia delle concezioni di giustizia, definisce «competizione naturale». Potremmo persino etichettarla come una forma di darwinismo sociale. In questo caso meritocrazia non significa eguaglianza delle opportunità e mobilità sociale, bensì selezione dei migliori e perseguimento dell’eccellenza nelle varie sfere del sociale, dall’istruzione al lavoro, dall’economia alla politica, grazie a meccanismi concorrenziali, a prescindere dalla correzione iniziale invocata dai fautori della parità dei punti di partenza. Tale visione si basa su un vizio epistemico: da un lato la sopravvalutazione dell’autonomia e della responsabilità dell’individuo e dall’altro la sottovalutazione, o addirittura il misconoscimento, dei condizionamenti derivanti dai contesti entro i quali il singolo si trova ad agire. Messe da parte eguaglianza delle opportunità e mobilità sociale, ci si limita, infatti, a perseguire la selezione dei migliori e il perseguimento dell’eccellenza nei differenti settori sociali. 

Ma se definire il merito e dunque la meritocrazia è un problema, altrettanto difficile è individuare una concezione e una definizione univoca di equità. L’equità è infatti un termine polisemico dal momento che in alcuni usi è chiaramente contrapposto al termine eguaglianza, in altri invece lo incorpora, vi attribuisce un senso più ampio e lo colloca entro un quadro concettuale più ricco e problematico. A questo quadro concettuale hanno largamente contribuito due grandi teorici della giustizia: John Rawls e Amartya Sen. 

Il primo concepisce la giustizia come equità e ripropone l’eguaglianza sociale delle opportunità come uno (non l’unico) dei principi su cui strutturare l’ordinamento sociale «giusto». Il secondo è consapevole del relativismo implicito nel concetto stesso di eguaglianza (‘eguaglianza di che?’), poiché i predicati di eguaglianza possono confliggere l’uno con l’altro: egualizzare un oggetto, per esempio il reddito, può essere in contraddizione con l’egualizzarne un altro, per esempio il rapporto fra contributi e compensi. Ne discende che l’eguaglianza non è sempre e automaticamente identificabile con la giustizia e l’equità, ma che occorre domandarsi se una certa eguaglianza o una certa diseguaglianza possano considerarsi più o meno giuste. Per decidere sulla giustizia di un dato assetto sociale occorre guardare non soltanto a come un bene, per esempio l’educazione, venga distribuito tra diverse categorie sociali (classi, generi, etnie ecc.) in un dato tempo, ma anche considerare gli effetti che in un tempo successivo quella distribuzione genera in termini di vantaggi/svantaggi per specifiche categorie di soggetti (Rawls) e considerare altresì le dinamiche aggregate di quel bene (Sen). Di qui l’invito a non disgiungere, nel giudizio sulle scelte sociali, il piano distributivo, considerato staticamente e identificato con l’equità, dal piano degli effetti e dell’efficacia. È dunque fondamentale rendere chiaro e distinguere i rapporti tra merito, equità (intesa come principio di giustizia) ed eguaglianza.

Per questi motivi, nell’ambito educativo la crucialità dell’equità è un principio cardine per la giustizia ma anche per la coesione sociale e lo sviluppo degli individui e della società. L’equità è declinabile in almeno tre dimensioni fondamentali (alle quali se ne possono aggiungere altre). Come detto in precedenza, queste si sostanziano sinteticamente nel contenimento delle disparità tra individui, nella riduzione delle disuguaglianze intercategoriali e come raggiungimento di una soglia minima di scolarizzazione e, fatto anche più rilevante, di competenze realmente possedute. Non è possibile assumere il merito come criterio guida se ad esso non si associa l’equità nelle suddette forme, soprattutto se si assume come metro di valutazione del merito i risultati scolastici o i risultati alle prove standardizzate basate sui test. I risultati, che siano voti o punteggi ai test, sono il portato di una complessa rete di fattori, in primis di natura ascrittiva ma anche dovuti ai contesti (sociali, scolastici, culturali, geografici/urbani) e anche a elementi di pura casualità. 

Le indagini internazionali mostrano la dipendenza dei risultati, in termini tanto di apprendimento (academic/educational achievement) quanto di titolo raggiunto (educational attainment), da fattori legati alla forza di inerzia dell’eredità familiare (Giancola e Salmieri, 2022), a differenze tra categorie (sesso biologico, orientamenti sessuali, background migratorio (Lucas e Beresford, 2010), alla struttura dei sistemi educativi (Benadusi e Giancola, 2014). Sicuramente nel processo che porta al raggiungimento di un certo risultato giocano anche le motivazioni, gli atteggiamenti, lo sforzo individuale (nei termini dell’effort di cui parla Michael Young, ripreso poi da molti altri), ma c’è da considerare che anche tali caratteristiche non sono indipendenti dai fattori ascrittivi e di contesto. Per questo motivo, se si schiaccia il concetto di “merito” su quello di “risultato” esso non potrà che essere una misura del tutto spuria. Inoltre, ammesso e non concesso, che il risultato sia depurabile dagli effetti spuri resta da chiederci se il compito della scuola è quello di premiare le differenze nei conseguimenti degli individui quanto piuttosto quello di innalzare i livelli medi di risultato, minimizzando la quota degli studenti sotto-soglia (i cosiddetti “low performers” o “underachievers”). L’ ipotesi di un trade-off tra miglioramento dei risultati medi e selettività competitiva è ampiamente disconfermata dei dati internazionali. I dati prodotti nell’ambito del PISA ad esempio mostrano che i sistemi educativi con una quota minore di studenti sotto-soglia sono anche quelli che hanno migliori performance medie e persino la più elevata quota di studenti eccellenti (i “top performer”): spiccano in questo senso casi nazionali che conciliano equità, efficacia e inclusione quali Canada, Finlandia, Danimarca (OECD, 2018Giancola, 2019).

In sostanza, alla nozione sfocata di merito va necessariamente anteposta la questione dell’abbattimento, o quantomeno del contenimento, delle disuguaglianze che condizionano fortemente la riuscita scolastica, le possibilità di mobilità sociale e i corsi di vita individuali. Nell’ambito dell’istruzione, l’attenzione dovrebbe essere rivolta primariamente a politiche per l’equità (Benadusi e Giancola, 2021) quali gli interventi di cura per la prima infanzia (poiché le disuguaglianze educative si generano in questa fase e poi crescono nel corso di vita), l’estensione e l’arricchimento del tempo-scuola e inoltre politiche redistributive a favore delle scuole e delle aree svantaggiate. Accanto a queste si rendono necessarie azioni di orientamento, supporto e motivazione degli studenti (sia rispetto all’apprendimento, sia rispetto alle prospettive future), politiche pubbliche di investimento in servizi culturali accessibili e fruibili (per compensare l’enorme eterogeneità tra aree e territori). È infine necessaria una integrazione delle politiche e degli interventi in ambito educativo con le politiche di welfare. Resta poi da chiedersi quale sia il compito principale della scuola e del sistema di istruzione. Dal punto di vista della crescita di una società democratica, esso è primariamente – soprattutto nei livelli di istruzione di base e medi – quello di formare cittadini attivi e consapevoli piuttosto che di operare una selezione competitiva. Su questo campo si gioca una partita cruciale per il futuro delle nuove generazioni e della società più generale. 

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