Gli indicatori usati per misurare il progresso sociale, oltre a rispecchiare il modello di società in cui vengono elaborati, possono influenzare le scelte di politica economica e orientare i processi culturali, politici e di governance. Disporre di indicatori adeguati può contribuire pertanto a identificare in modo puntuale le priorità politiche e a migliorare i processi decisionali.
A metterci in guardia dal prodotto interno lordo (PIL), che per decenni ha rappresentato – e per molti rappresenta ancora – la “stella polare” della politica economica, fu proprio il suo inventore, Simon Kuznets, che già negli anni ’30 affermava che il benessere di una nazione non si può desumere da una misura del reddito nazionale. Il PIL, misurando in modo sintetico e selettivo la performance economica, può infatti essere fuorviante qualora lo si intenda come misura del benessere sociale e non venga accompagnato da altri indicatori. Tra i più rilevanti limiti del PIL, oltre all’assenza di valutazione della qualità della crescita economica, rientra la mancata considerazione della disuguaglianza, ovvero di come si distribuiscono i suoi benefici.
Scopo di questo articolo è riassumere le tappe principali della strada percorsa finora “oltre il PIL” e verso un’idea di benessere individuale e sociale più completa. Il dibattito scientifico sul c.d. “superamento del PIL” è in corso oramai da decenni e ha portato all’attenzione di molti economisti – e non soltanto – la necessità di mettere in discussione l’identificazione del benessere complessivo con il benessere economico, peraltro non adeguatamente rappresentato dal PIL, e di riferirsi ad un concetto multidimensionale di benessere (well-being).
A partire dagli anni ’60 del secolo scorso molti studi, basati su approcci multidisciplinari, sono stati dedicati alla ricerca di una quantificazione operativa del concetto di “qualità della vita” attraverso indicatori in grado di cogliere elementi oggettivi del benessere. L’ “approccio oggettivo” al benessere ha trovato la più completa teorizzazione nel celebre capabilities approach, elaborato negli anni ’80 del secolo scorso da parte del premio Nobel Amartya Sen. Nella prospettiva seniana, il benessere di un individuo, oltre a non essere unicamente connesso al benessere materiale, deriva da ciò che egli può fare ed essere utilizzando le risorse a disposizione (capabilities set) e dalla capacità dell’individuo di sfruttare quelle risorse per raggiungere gli obiettivi che effettivamente può raggiungere (functionings set).
Il concetto di well-being è stato sviluppato anche in un altro florido filone di letteratura che va sotto il nome di “economia della felicità” e che adotta un punto di vista soggettivo (subjective well-being), riferendosi all’emozione positiva o negativa che gli individui associano a differenti aspetti della vita (soddisfazione sul lavoro, salute percepita) o alla vita in generale (soddisfazione di vita). All’interno dell’ampia letteratura empirica che indaga le determinanti del benessere soggettivo è stato formulato il cosiddetto “paradosso della felicità” o “paradosso di Easterlin”, dal nome dell’economista che lo osservò per la prima volta per gli Stati Uniti. Secondo tale paradosso, a fronte di incrementi del reddito il livello di soddisfazione individuale appare stazionario o persino decrescente, sebbene le persone ricche si dichiarino mediamente più soddisfatte di quelle povere.
Alcune spiegazioni del paradosso della felicità fanno riferimento al concetto di “adattamento edonico”: l’aumento di benessere soggettivo dovuto ad un aumento di reddito, in un dato momento, si esaurisce col tempo, perché gli individui si abituano alle esperienze passate e rivedono le proprie aspettative al rialzo. Altre spiegazioni inducono a tenere conto dei confronti sociali, dai quali gli individui non prescindono quando effettuano autovalutazioni circa la soddisfazione di vita. Un’ulteriore e affascinante spiegazione del paradosso di Easterlin è quella fornita da Tibor Scitovsky in un libro – “The Joyless Economy. An inquiry into human satisfaction and consumer dissatisfaction” – per molto tempo considerato un contributo minore di questo illustre economista. Scitovsky, descrivendo la società americana degli anni ’70 del secolo scorso, osserva che a fronte di un reddito medio piuttosto elevato non si registrano livelli di soddisfazione altrettanto elevati poiché l’aumento della disponibilità di “beni di comfort”, che generano assuefazione, nel medio-lungo periodo non accresce il benessere soggettivo. Più precisamente, secondo la teoria psico-economica di Scitovsky, aumenti significativi del benessere soggettivo derivano dalle attività “stimolanti” (arti, letteratura, sport, creazione artistica, esplorazione e scoperta) mentre un’eccessiva indulgenza a favore dei “beni di comfort” condanna ad uno stato di infelicità e genera una “società senza gioia”.
Certamente, quale che sia il concetto di benessere individuale e sociale che si prediliga, se di natura più oggettiva o più soggettiva, appare largamente condivisa in letteratura l’idea che il benessere è un fenomeno multidimensionale, che contempla aspetti monetari e non monetari.
La ricerca di indicatori “oltre il PIL” ha comportato in alcuni casi il tentativo di costruire un indicatore sintetico e in altri casi la definizione di un insieme di indicatori. Numerosi sono stati i tentativi di “correggere” il PIL al fine di disporre di una misura unica in grado di ricondurre la multidimensionalità del benessere ad un solo numero. Si possono ricordare, tra gli altri, l’indicatore MEW (Measure of Economic Welfare) proposto da Nordhaus e Tobin nel 1972 e seguito da estensioni e varianti, come l’indicatore ISEW (Index of Sustainable Economic Welfare), la cui più recente evoluzione prende il nome di Genuine Progress Indicator (GPI). Per l’Italia è stata recentemente calcolata una variante dell’ISEW, denominata Indice di Benessere Sostenibile. Il più famoso tra gli indicatori sintetici alternativi al PIL è lo Human Development Index (HDI), proposto dalle Nazioni Unite nel 1990, che si fonda su tre elementi: longevità (aspettativa di vita), conoscenza (anni di istruzione) e standard di vita dignitosi (reddito nazionale lordo pro capite). Per ciascuno dei tre elementi viene calcolato un indice normalizzato, basato sui valori massimi, minimi ed effettivi delle variabili che li rappresentano; successivamente, lo HDI è calcolato come media geometrica dei tre indici normalizzati. Tale indicatore ha avuto un’ampia diffusione in tutto il mondo (nel 2016 è stato calcolato per 188 Paesi) e ne è stata fornita anche una misura “corretta” per tenere conto della disuguaglianza (“inequality-adjusted HDI”).
Sebbene gli indicatori sintetici abbiano un grande impatto mediatico grazie alla capacità di comunicare in modo immediato fenomeni complessi, va rilevato che quanto maggiore è la sofisticazione che sottende la loro costruzione, proprio al fine di cogliere la multidimensionalità del benessere, tanto più difficile è commentarne gli andamenti. Partendo dall’assunto che soluzioni “perfette” non esistono, l’adozione di un insieme parsimonioso di indicatori, in grado di integrare ciò che il PIL non riesce a cogliere, si configura come la strategia più ragionevole da seguire. Tale insieme di indicatori dovrebbe rappresentare le diverse dimensioni del benessere e rispecchiare gli aspetti di equità (quanta disuguaglianza si registra nella distribuzione delle risorse e dei risultati che attraverso quelle risorse si possono ottenere?) e di sostenibilità (i bisogni del presente sono soddisfatti senza compromettere la possibilità delle generazioni future?). L’attuazione di una strategia di questo tipo non è semplice e la selezione degli indicatori che rappresentano il benessere implica anche un forte coinvolgimento istituzionale, politico e della società civile.
Molteplici sono le esperienze a livello nazionale e internazionale (Nazioni Unite, OCSE, Commissione europea e Eurostat) che, a partire dagli anni ’90, hanno dato impulso allo sviluppo di sistemi di indicatori da affiancare al PIL, capaci di rendere conto degli aspetti distributivi e di sostenibilità nonché delle valutazioni soggettive. Particolarmente rilevante per l’affermazione di tale visione a livello globale è stata la pubblicazione, nel 2009, del Rapporto della “Commissione sulla misurazione della performance dell’economia e del progresso sociale” (c.d. Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi). Per quanto riguarda l’Italia, va menzionato che, a partire dal 2013, l’Istat pubblica ogni anno il Rapporto sul benessere equo e sostenibile, che fornisce un quadro dell’evoluzione economica, sociale e ambientale del nostro Paese, facendo uso di circa 130 indicatori, suddivisi in 12 domini del benessere.
Ai fini della definizione dell’insieme di indicatori da utilizzare per misurare il benessere e il progresso sociale, un altro fattore fondamentale da considerare è la possibilità di ancoraggio alle diverse fasi del ciclo delle politiche pubbliche (identificazione delle priorità di azione, programmazione, monitoraggio, analisi costi-benefici di interventi alternativi, valutazione). A questo proposito si possono annoverare tre recenti esempi.
Il primo, a livello internazionale, è la sottoscrizione da parte dei governi di 193 Paesi membri dell’ONU della cosiddetta “Agenda 2030”, che fissa gli impegni per lo sviluppo sostenibile individuando 17 obiettivi (Sustainable Development Goals, SDGs). Gli SDGs hanno carattere universale ma devono essere declinati a livello nazionale, anche attraverso l’individuazione di un insieme ristretto di indicatori che consenta di monitorare i progressi verso il loro raggiungimento.
Un secondo esempio, a livello europeo, è rappresentato dalla creazione del social scoreboard, ovvero l’insieme di indicatori che ha accompagnato l’adozione del c.d. “Pilastro europeo dei diritti sociali”, definito come la “bussola” che deve orientare la convergenza socio-economica dei Paesi Membri. Gli indicatori che fanno parte del social scoreboard hanno affiancato gli indicatori macroeconomici che orientano il processo di coordinamento ex-ante delle politiche economiche dei Paesi membri dell’Unione europea (c.d. Semestre Europeo).
Con riferimento alle esperienze a livello nazionale, infine, l’Italia si pone senza dubbio all’avanguardia, poiché la legge di riforma del bilancio n. 163/2016 ha previsto l’inclusione di un insieme di indicatori di benessere equo e sostenibile (BES) in due fasi del ciclo di programmazione economico-finanziaria. Secondo tale riforma il Ministro dell’Economia e delle Finanze deve predisporre un allegato al Documento di Economia e Finanza (DEF) in cui si riporta l’andamento nell’ultimo triennio degli indicatori BES e le previsioni sull’evoluzione degli stessi nel periodo di riferimento del DEF, anche sulla base delle misure previste per il raggiungimento degli obiettivi di politica economica. Inoltre, entro il 15 febbraio di ciascun anno, il Ministro deve presentare alle Camere una relazione in cui si mostra l’andamento degli indicatori BES sulla base degli effetti determinati dalla Legge di Bilancio per il triennio in corso.
Nonostante i notevoli passi avanti registrati negli ultimi anni nel dibattito sul c.d. “superamento del PIL”, molta strada resta ancora da fare, come messo in luce nel doppio rapporto pubblicato a Novembre 2018 dall’High-Level Expert Group coordinato da Joseph Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi e Martine Durand, che ha portato avanti i lavori della Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi.
Migliorare la misurazione del benessere – in termini di disponibilità di dati e sviluppo di metriche e strumenti analitici – e approfondire lo studio delle relazioni tra le sue diverse dimensioni ha come fine ultimo quello di individuare gli interventi di politica economica più efficaci, ovvero quelli in grado di minimizzare i conflitti ovvero i trade-off tra i diversi obiettivi producendo risultati migliori con riferimento all’ inclusione sociale e alla sostenibilità.
Ma se è vero, secondo le parole di Stiglitz, che “ciò che si misura influisce su ciò che si fa”, è vero anche che a fronte di “validi” indicatori di benessere possono aversi interventi di policy di diverso tipo. In effetti, ciò che appare decisivo, una volta definiti gli indicatori, sono i pesi che i decisori politici assegnano alle diverse dimensioni del benessere. In altre parole, se da un lato gli strumenti statistici che usiamo per misurare i risultati delle scelte politiche effettuate non possono considerarsi del tutto neutrali rispetto alle scelte stesse, andare “oltre il PIL” si configura non come un punto di arrivo ma piuttosto come un primo fondamentale passo verso la definizione di politiche più efficaci.
* I commenti espressi sono personali e non coinvolgono le istituzioni di appartenenza.
** Una versione più estesa di questo saggio si trova su MicroMega 2/2019, pp. 92-104, con il titolo “Dimmi cosa misuri e ti dirò che politiche fai (superare il PIL per combattere le disuguaglianze)”.